La Repubblica, 19 marzo 2014
È inutile accusare la tecnocrazia europea per le azioni mancate o sbagliate dell’Unione, come hanno fatto Renzi e Hollande a Parigi, quando sono i governi a fare e disfare l’Europa secondo le loro convenienze. Ed è inadeguato presentarsi a Berlino come buon allievo, quando le mutazioni hanno da essere radicali. Il rischio è un inganno dei cittadini: dilaterà le loro malavoglie, i loro disorientamenti e repulsioni.
Come non sentirsi sbalestrati, se non beffati, da discorsi così contraddittori? A Parigi Renzi ha accusato gli eurocrati, poi a Berlino ha riconosciuto il primato tedesco, ricordando alla Merkel che non siamo «somari da mettere dietro la lavagna, ma un Paese fondatore che contribuisce a dare la linea». Chi detta legge, in ultima analisi: il tutore tedesco o l’eurocrazia? Chi ha l’ultima parola? Non dirlo a lettere chiare: questo è aggirare i popoli.
L’inganno è più che mai palese alla vigilia delle elezioni europee, che almeno sulla carta dovrebbero essere diverse dalle precedenti. Il trattato di Lisbona infatti è esplicito, e i deputati di Strasburgo l’hanno ribadito: il Presidente della Commissione sarà designato dal Consiglio europeo, ma «tenendo conto delle elezioni del Parlamento europeo» (art. 17). Quel che ci si accinge a fare è altra cosa. Ancora una volta, la decisione sarà presa a porte chiuse, senza dibattito pubblico preliminare, dai capi di Stato o di governo. Lo stesso Parlamento europeo è complice dell’inganno, col suo regolamento interno: la scelta delle nomine è a scrutinio segreto; non è prevista discussione pubblica. Condotte simili non si limitano a ignorare i trattati: sono anche del tutto incompatibili con la trasparenza da essi ripetutamente evocata. Riavremo dunque lo stesso occulto mercanteggiamento tra Stati che ha ammorbato l’Unione per decenni. Il Parlamento può certo accampare diritti — può sfiduciare il presidente dell’esecutivo e l’intero collegio — ma il rifiuto avviene dopo la nomina. È più complicato. Non a caso l’assemblea non s’è mai azzardata a sfiduciare la Commissione.
Se davvero credessero in quel che professano, Renzi, Hollande e la Merkel manderebbero in questi giorni ben altro messaggio ai cittadini refrattari che apparentemente li angustiano tanto. Direbbero: «Ci atterremo alle nuove regole, vi ascolteremo sempre più. Quindi rispetteremo il verdetto delle urne». Nessuno di loro osa dirlo. Il dominio che esercitano, nella qualità di sovrani che nominano eurocrati al loro servizio, non vogliono né dismetterlo né spartirlo. Vogliono usarla, la tecnocrazia, come alibi: se le cose vanno male la colpa è sua. Gli Stati hanno potere, non responsabilità.
La mistificazione è massima perché la colpa è interamente loro, se l’Unione è oggi un campo di discordie, di ingiustizie sociali asimmetriche. Sono gli Stati e i governi che hanno fatto propria la teoria, predicata ad alunni somari e non, dell’«ordine» o dei «compiti in casa». È la teoria tedesca dell’ordoliberalismo, nata nella Scuola di Friburgo tra le due guerre, che fissa quali debbano essere le priorità, perché i mercati operino senza ostacoli: prima va rassettata la «casa nazionale», e solo dopo verranno la cooperazione, la solidarietà, e comuni regole di uguaglianza sociale. Nelle sedi internazionali, e anche in quella sovranazionale europea, basta insomma «coordinare» le singole linee, esortarsi a vicenda. Il motivo: l’esperienza totalitaria legata a interventi eccessivi dello Stato (memorabile l’accusa rivolta dall’ordoliberista Wilhelm Röpke, negli anni ‘50, all’ideatore dello Stato sociale: «Quello che voi inglesi state preparando, con il piano Beveridge, è una forma di nazismo». Non meno antiliberale fu giudicato il New Deal di Roosevelt).
L’illusione ordoliberista, tuttora diffusa ai vertici degli Stati, è che se ognuno lasciasse fare i mercati, mettendo magari la briglia alla democrazia e a leggi elettorali troppo rappresentative, l’ordine finirebbe col regnare nel mondo. La crisi ha mostrato che solo invertendo le priorità una soluzione è possibile. È dalla solidarietà che urge ripartire, dalla messa in comune di risorse, dopodiché ogni Stato avrà più forze per aggiustare i conti, spalleggiato da istituzioni e bilanci federali. Così gli Usa risolsero la crisi del debito dopo la guerra di indipendenza: mettendo in comune i debiti, passando dalla Confederazione alla Federazione, dandosi una Costituzione.
L’esatto contrario avviene nell’Unione. Sono ancora gli Stati che hanno deliberato, nel febbraio 2013, di congelare il comune bilancio e di impedire l’aumento delle risorse che permetterebbe piani comunitari di ripresa, e soprattutto la conversione della vecchia industrializzazione in sviluppo verde, sostenibile. Una delibera che il Parlamento s’è rifiutato di ratificare, un mese dopo. Ma alla fine la decisione è stata accettata, pur rinviando il dibattito al 2016.
Sono gli Stati che hanno inventato la trojka, organismo che comprende la Banca Centrale europea, la Commissione, e non si sa per quale complesso di inferiorità il Fondo Monetario, e che oggi controlla 4 Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro). Una trojka la cui sola bussola è la «casa in ordine». Sono infine gli Stati che hanno concordato il fiscal compact, che alcuni Paesi - tra cui l’Italia di Monti - hanno inopinatamente messo nella Costituzione nonostante nessuno l’avesse imposto.
Questo significa che viviamo nella menzogna, sull’Europa esistente e su quella da rifondare. Che chi ha in mano le scelte sono in realtà i mercati: non l’eurocrazia usata come alibi e non i finti Stati sovrani. Lo spiega bene Luciano Gallino, su La Repubblica del 15 marzo: non esiste stato di eccezione che consenta un’indifferenza così totale verso le sofferenze inflitte ai cittadini (Grecia in primis, e Italia, Spagna, Portogallo). Quanto al fiscal compact, si tratta, secondo Gallino, di eliminare dalla Costituzione le norme attuative, come proposto da Rodotà: «L’Italia non è in grado di trovare 50 miliardi di euro all’anno da tagliare (per 20 anni, ndr). Accadrà quello che è già accaduto altrove: tagli sanitari, bambini affamati, povertà» (intervista al Manifesto, 13-3).
Sono anni che Roma cerca di ingraziarsi Parigi, e forse qui è l’inganno più grande. I governi francesi, di destra o sinistra, hanno una responsabilità speciale: sin da quando, caduto il Muro, risposero sistematicamente no - in nome del mito sovrano gollista - all’unità politica e militare che Kohl chiese con insistenza per puntellare l’euro. Si denunciano le colpe tedesche, nella crisi, ma l’immobile insipienza francese è ancora più nefasta.
L’Europa, non dimentichiamolo, fu fatta grazie ai francesi Jean Monnet, Robert Schuman. Quel che fu creato lo si deve a Parigi. Ma anche quel che non fu fatto, e non si fa. A cominciare dall’unità militare, che consentirebbe all’Europa risparmi enormi: circa il 40%. Insieme si potrebbe valutare se sia sensato dotarsi degli F-35, e che tipo di pax europea vogliamo, autonoma da quella americana.
Uscire dalle menzogne è oggi l’emergenza. I cittadini, frastornati, faticano a capire che i governi, con le loro dissennatezze, sono più viziosi degli eurocrati. Che la Francia è un ostacolo non meno grande di Berlino, anche se governata dai socialisti (Sarkozy almeno ci provò: Hollande sull’Europa è muto). Che l’Unione ha bisogno di una Costituzione vera, che inizi come negli Usa con le parole: «We, the people...»: non con l’elenco dei governi firmatari. Altrimenti non avremo solo il predominio degli Stati più forti. Avremo quella che Gallino chiama la Costituzione di Davos:una costituzione non scritta, i cui governi, vittime di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari a carico dei contribuenti.