Ferruccio de Bortoli in un suo editoriale sul Corriere della Sera di sabato ritiene che il rischio che le imprese usino la riforma dell'art. 18 per liberarsi anche dei lavoratori scomodi (come ho sostenuto sul manifesto) oltre che di quelli anziani o logorati dal lavoro (come ipotizzato lo stesso giorno dal prof. Mariucci su l'Unità) rispecchi «una visione novecentesca, ideologica e da lotta di classe che non corrisponde più alla realtà della stragrande maggioranza dei luoghi di lavoro». Poi si chiede se le minacce dei capi a cui facevo riferimento nel mio articolo del giorno prima - «Appena passa l'abolizione dell'art. 18 siete fuori!» - rappresentino effettivamente «il clima che si respira nelle fabbriche, al di là di qualche isolato episodio». Rispondo: forse non in tutte; ma in molte aziende certamente sì. Altrimenti non si capirebbe come mai decine di migliaia di lavoratori abbiano risposto immediatamente, superando spesso anche le divisioni sindacali, alla dichiarazione di sciopero di Fiom e Cgil.
Questo è sicuramente il clima che si respira negli stabilimenti Fiat, dove una sentenza di appello ha sancito che il licenziamento di tre operai, iscritti o delegati della Fiom, è stata una rappresaglia antisindacale. Da mesi poi si ripetono, su giornali e talk show, denunce del fatto che dalle riassunzioni nello stabilimento Fiat di Pomigliano sono stati esclusi completamente gli iscritti alla Fiom. È noto che le rappresentanze della Fiom sono state "espulse" da tutti gli stabilimenti Fiat. Ma c'è di più: il manifesto ha riportato, senza essere smentito né denunciato, che le celle di vetro dei capireparto che sorvegliano gli operai nello stabilimento di Pomigliano - e che tanto sono piaciute al prof. Pietro Ichino, in visita guidata alla fabbrica (una visita di tipo "sovietico") - sono state usate a fine turno per «processare» e umiliare di fronte ai loro compagni gli operai che non reggevano i nuovi ritmi di lavoro, facendogli gridare «sono un uomo di merda».
Risultano anche numerose le pressioni su mogli di operai Fiom in cassa integrazione perché inducano i mariti ad abbandonare l'organizzazione se vogliono tornare in fabbrica. Di fronte a notizie del genere il direttore di un giornale avrebbe forse dovuto affidare a un suo inviato un'inchiesta sul posto. Non se ne ha notizia. Ferruccio de Bortoli si è dimostrato spesso attento alle discriminazioni razziali del passato. Colpisce la sua disattenzione per le discriminazioni del presente verso i lavoratori. Sono episodi isolati? No. Nella competizione per la nomina del nuovo Presidente di Confindustria, il candidato perdente Bombassei è stato apertamente appoggiato dall'amministratore delegato della Fiat e lo ha ricambiato dicendo che condivideva le scelte nelle relazioni sindacali. Ha perso solo per pochi voti: non dice niente questo sul clima che aleggia in molte aziende? E se così non fosse, perché mai verrebbe data tanta importanza all'art. 18?
L'accusa di estremismo che De Bortoli mi rivolge ha una spiegazione chiara nell'elzeviro di un altro ex autorevole direttore del Corriere dedicato al segretario della Fiom (Repubblica, 22.3). Che «non accetta - per Piero Ottone - il mondo come è: un mondo dominato dalle leggi economiche della domanda e dell'offerta, e manipolato come sempre da personaggi poco raccomandabili: ieri i padroni delle ferriere; oggi i banchieri (con qualche Marchionne sparso qua e la)... Al centro del suo universo, quello in cui crede, campeggia il lavoratori, col pieno diritto, sacro e inviolabile, a un posto equamente retribuito, a una paga che gli consenta di mantenere se stesso e la sua famiglia, a una pensione quando non dovrà più lavorare». E ancora: «A me sembra - aggiunge Ottone - che l'impostazione sindacale di Landini, che parte dai principi (repubblica imperniata sul lavoro, diritto di ogni cittadino al lavoro) piuttosto che dalle leggi naturali (domanda, offerta, libero scambio) appartenga alla cultura di sinistra di quegli anni ormai lontani: che sia una scheggia di quel sindacalismo... figlio dell'estremismo di sinistra». E allora? La verità è che la lotta di classe «novecentesca», esecrata da entrambi i giornalisti, è più viva che mai. È quella del capitale contro il lavoro raccontata da Luciano Gallino nel suo ultimo libro, che non è mai venuta meno. Ogni tanto, e si spera in crescendo, c'è anche quella dei lavoratori contro il capitale.