Materiale per "Una città un piano:Napoli" Recupero urbano, edilizia residenziale pubblica e servizi. Presupposti, obiettivi e primi risultati dell'eccezionale vicenda della ricostruzione di Napoli dopo il terremoto del 1980 (m.b.)
Introduzione alla pubblicazione curata da Filippo Ciccone, Recupero e riqualificazione urbana nel programma straordinario per Napoli, Giuffré editore, Milano, 1984
«Natura di cose altro non che il nascimento di esse»: l'esperienza di riqualificazione urbana e di recupero in corso a Napoli - i risultati raggiunti e i loro limiti - possono appieno apprezzarsi solo se si conosce, sia pure sommariamente, la complessa vicenda della ricostruzione dopo il terremoto del 23 novembre 1980, di cui quell'esperienza è parte.
In primo luogo, sembra perciò utile una cronaca, per quanto possibile oggettiva, dell'origine e dello sviluppo del Programma straordinario. In secondo luogo, questa premessa ha il dovere di intervenire nel dibattito che i metodi e le procedure adottate a Napoli hanno provocato fra i cittadini interessati, nell'opinione pubblica, in ampi settori dell'amministrazione e dei mezzi di informazione e fra gli operatori della materia. In particolare, interessa mettere in evidenza che l'operazione in corso ha senso solo se può proseguire in un' azione ordinaria di lunga durata, indispensabile alla soluzione dei drammatici problemi della città. Non è infatti difficile dimostrare - ed è l'ultimo argomento di queste note che la situazione abitativa dell'area metropolitana di Napoli (che è privo di significato parlare di Napoli isolandola dal suo territorio) raggiunge indici di bisogno e di disagio che non hanno riscontro nel resto del paese.
I contributi che Filippo Ciccone ha raccolto nelle pagine che seguono non hanno certo la presunzione di proporre regole di validità generale. Hanno il solo obiettivo di dar conto di un'esperienza condotta con grande impegno, «sul tamburo», nel fuoco di una permanente emergenza. Impegno tanto più faticoso e difficile, in quanto svolto «senza rete) , e cioè senza poter contare su riferimenti ufficiali certi, soprattutto in tema di normativa e di determinazione dei costi del recupero. Questa supplenza a lacune di pertinenza statale è senz'altro il più evidente merito di quanto è stato fatto a Napoli dagli uffici e dai consorzi concessionari.
Certo, ce n'est qu'un début, specialmente se si considera che il Programma straordinario opera in regime di intervento totalmente pubblico, di edilizia sovvenzionata, come si dice in gergo. Ma ora che si sono definitivamente messi a punto criteri adatti a questa specifica esperienza di recupero (che riguarda circa 3.000 alloggi), credo che sia importante divulgarne la conoscenza ed arricchirla dei contributi che fornirà il dibattito, per valutarne la «trasferibilità» ad altre situazioni ordinarie, e cioè anche in regime di proprietà privata degli immobili da riqualificare, a Napoli e altrove. Per questo penso debbano riconoscersi la sensibilità e la tempestività mostrate dal Cresme nel decidere questa pubblicazione.
I materiali qui raccolti consentono pure un'approfondita discussione sull'insieme del Programma straordinario, ormai tutto avviato a realizzazione, grazie anche ai finanziamenti integrativi recentemente disposti dalla legge. Siamo a metà strada. Realisticamente, fra tre anni, e quindi a sei anni dall'approvazione della legge, la ricostruzione potrebbe essere compiuta: un risultato che ha pochi paragoni nel panorama dell'azione pubblica, specialmente nel Mezzogiorno. Sempre che non prevalgano obiettivi di diversa natura, estranei e contrari agli interessi della città.
Cronache della ricostruzione.
Dopo il terremoto, con il passare dei giorni e delle settimane, ci si rese conto che, a differenza di quello sismico, il baricentro dei problemi sociali era a Napoli e non nelle zone interne dell'Irpinia e della Basilicata. Questo non significava, allora come oggi, una sottovalutazione del disastro enorme che aveva colpito le province di Avellino, Salerno e Potenza. Ma ci si rendeva conto, con una certa semplificazione, che nelle zone interne era questione di capacità organizzative e di congrue risorse finanziarie.
Tutt’affatto diversa la situazione di Napoli. Qui, come mano a mano riconobbero prima gli osservatori più attenti (e fra questi il commissario straordinario del governo Giuseppe Zamberletti) e poi l'intera opinione pubblica nazionale, il terremoto aveva agito come un potente acceleratore di secolari processi di degradazione. Non diversa la situazione dei comuni di cintura, da Pozzuoli a Castellammare a Pomigliano: una cintura cresciuta con gli stessi caratteri speculativi e distorti del capoluogo e che nella stessa misura venne sconvolta dal terremoto.
E infatti, il dibattito che si sviluppò all'inizio del 1981 sulla ricostruzione mise in luce soprattutto due aspetti: la dimensione «metropolitana» dei problemi di Napoli e la gravità del disagio abitativo, che già prima del terremoto faceva rilevare in quell'area una sovrapposizione di effetti negativi senza pari nel resto del paese. Per adeguare allo standard nazionale le condizioni dell'area partenopea fu infatti calcolato un fabbisogno di almeno 200.000 nuovi alloggi: un fabbisogno immenso, assolutamente sproporzionato alle risorse finanziarie ordinariamente destinate all'edilizia pubblica napoletana. E fu posto l'accento sulla totale mancanza di spazi disponibili e sui vertiginosi indici di densità territoriale nel capoluogo e nei comuni limitrofi (fino a 18.000 abitanti per kmq).
Le prime proposte per la ricostruzione suggerirono perciò disegni di risoluto decentramento dei nuovi volumi edilizi verso le fasce più esterne della conurbazione, seconde una strategia che prevedeva, contemporaneamente all'avvio di un processo di pianificazione comprensoriale, un insieme di azioni immediatamente operative basate sul meccanismo dell'urbanizzazione pubblica di notevoli estensioni' di aree. Il dibattito sulla ricostruzione fu però troncato dai «comandi prussiani» del titolo VIII della legge per la ricost ruzione che, imponendo la massimizzazione delle previsioni abitative nel territorio comunale di Napoli, azzerarono di fatto ogni ipotesi di complessiva riorganizzazione territoriale. (Non si deve dimenticare che una così perentoria scelta legislativa avvenne durante il rapimento dell'allora assessore regionale Ciro Cirillo, quando le Brigate rosse agitavano slogan rozzi, ma evidentemente efficaci, contro la «deportazione» dei napoletani. Da allora si è interrotto il dibattito sull'assetto dell'hinterland partenopeo, nella diffusa convinzione che la città di Napoli sia una specie di universo separato dal territorio circostante).
Così, nel giro di pochi giorni, scanditi dai messaggi dei terroristi, con un dibattito parlamentare di inconsueta rapidità, fu aggiunto, in calce a un provvedimento in esame sulla ricostruzione delle zone terremotate, un«titolo»di sei articoli relativo all'intervento statale per l'edilizia a Napoli».
La legge (14 maggio 1991, n. 219) dichiara «di preminente interesse nazionale) la realizzazione di 20.000 alloggi e delle relative opere di urbanizzazione nell'area metropolitana di Napoli, affidando tutti i poteri al sindaco della città, nominato ad hoc commissario straordinario del governo e soggetto soltanto al rispetto della Costituzione e dei principi generali dell'ordinamento. I tempi sono frenetici: entro dieci giorni dall'approvazione della legge devono essere individuate le aree disponibili nell'ambito del territorio comunale; nei successivi quindici giorni si deve provvedere all'occupazione degli immobili individuati; entro i quindici giorni ancora seguenti il sindaco-commissario deve procedere all'affidamento in concessione a società, imprese, cooperative, consorzi, degli alloggi e delle relative opere di urbanizzazione, da realizzare unitariamente. Per ogni scadenza non rispettata è previsto l'intervento sostitutivo del Cipe.
L'individuazione delle aree «è effettuata in deroga alla vigente normativa urbanistico-edilizia, anche per quanto riguarda la destinazione d'uso e gli indici di edificabilità». L'esproprio è compensato incrementando del 70% le indennità previste dalle norme vigenti. I costi di costruzione sono stabiliti dal Cipe. Allo stesso Cipe è demandata la definizione dei criteri per l'assegnazione degli alloggi. La disponibilità finanziaria è di 1.500 miliardi. Organo di consulenza del commissario è un comitato tecnico amministrativo formato da cinque funzionari designati dall’Avvocatura di Stato e dai ministri dei Lavori pubblici, della Difesa, del Tesoro e delle Finanze. Ove i 20.000 alloggi non fossero realizzabili tutti nel territorio comunale di Napoli, le funzioni di commissario sono attribuite anche al presidente della Giunta regionale, che provvede, con le stesse procedure e gli stessi poteri del sindaco-commissario, a localizzare i restanti alloggi nei comuni dell'area napoletana. I tempi sono ovviamente sfalsati di dieci giorni, per tener conto delle decisioni nel frattempo assunte per Napoli.
Con leggi successive alla 219 sono state integrate e perfezionate le norme originarie. In particolare, si è chiarito che il Programma comprende anche interventi di recupero e che le urbanizzazioni primarie e secondarie vanno dimensionate anche «al recupero dei fabbisogni arretrati». Le disposizioni legislative configurano insomma un complesso programma, come si dice, per obiettivi (perché certamente i previsti 1.500 miliardi non sono sufficienti per la realizzazione dell'insieme di opere indicate) da realizzare in tempi ristrettissimi, attraverso il trasferimento in blocco agli operatori privati di tutti i poteri e le responsabilità normalmente di competenza della pubblica amministrazione.
Infatti, secondo la legge 219, «formano oggetto della concessione tutte le opere necessarie per l'acquisizione delle aree occupate, ivi comprese le procedure di espropriazione e il pagamento delle indennità [...], la formulazione del programma costruttivo sulla base delle indicazioni del sindaco di Napoli per quanto concerne il numero degli alloggi da realizzare, le tipologie degli stessi, le prescrizioni urbanistico-edilizie da osservare e i termini per la realizzazione dell'intervento, la progettazione esecutiva delle opere, la realizzazione delle stesse e quant'altro necessario per rendere le opere compiute, la consegna degli alloggi agli assegnatari».
Va subito detto che nell'attuazione del Programma straordinario solo in parte sono stati utilizzati gli smisurati spazi offerti dal legislatore. È importante ricordare soprattutto che nel comune di Napoli -così come peraltro richiesto dal presidente del Consiglio dei ministri Arnaldo Forlani -non si è fatto ricorso, se non per questioni marginali, alla facoltà (quasi un obbligo) di deroga alla disciplina urbanistica e che i poteri riconosciuti dalla legge ai concessionari sono stati temperati da opportune procedure di indirizzo, vigilanza e controllo affidate agli uffici del commissario. La repentina approvazione della legge 219 determinò nell'amministrazione comunale di Napoli preoccupazione e tensione. Il sindaco Maurizio Valenzi (con la collaborazione del vicepresidente della Commissione Lavori pubblici della Camera dei deputati, Guido Alborghetti) prese subito contatto con le organizzazioni nazionali e locali degli imprenditori, con le quali si misero a punto i criteri di scelta delle imprese concessionarie e si impostò il modello di concessione. Lucido organizzatore degli imprenditori fu l'ing. Francesco Rallo, che assumerà poi funzioni di coordinatore dei concessionari.
La localizzazione delle aree d'intervento e la definizione delle caratteristiche urbanistiche ed edilizie degli insediamenti fu affidata all'Ufficio studi urbanistici del comune, formato da giovani architetti e funzionari che avevano già redatto il cosiddetto «Piano delle periferie», del quale parliamo qui di seguito.
Alla sfida della legge si rispose con un impegno eccezionale. A mezzanotte meno cinque del 28 maggio 1981, allo scadere cioè dei dieci giorni fissati dalla legge, vengono consegnati a Palazzo Chigi gli elaborati del Programma straordinario: localizzazione e dimensionamento di 13.578 alloggi e delle relative attrezzature. Viene intanto mobilitata un'armata di tecnici e di rilevatori che in quindici giorni prende possesso di 400 ettari e di centinaia di edifici oggetto del Program ma, redigendo quasi 9.000 stati di consistenza. Il mondo politico e imprenditoriale di tutt'ltalia osserva con incredulo stupore la prova di efficienza offerta da Napoli.
Nei termini previsti vengono intanto selezionate le imprese: il 18 giugno il sindaco-commissario pubblica sulla stampa nazionale un avviso con la specificazione dei requisiti richiesti (tra gli altri, 6 miliardi di fatturato nei tre anni precedenti per le imprese singole e 100 miliardi per i consorzi); il 22 giugno, alla scadenza del termine, rispondono quasi 150 operatori, dei quali circa 100 in possesso dei titoli richiesti; il 27 giugno viene disposto l'affidamento in concessione delle opere previste dal Programma a 12 raggruppamenti di imprese private, del movimento cooperativo e delle partecipazioni statali. Fra il 31 luglio e il 5 agosto successivi vengono stipulati i contratti di concessione. Intanto il Cipe ha stabilito i criteri di spesa, fissando in 500.000 lire (luglio 1981) il costo di un mq di nuova edilizia, mentre rinvia alle determinazioni a misura, sulla base di computi metrici estimativi, i costi delle urbanizzazioni e del recupero.
Ha inizio cosi «la più grossa operazione urbanistico-edilizia mai avviata nel nostro paese», scrive il «Corriere della sera». «Quasi un miracolo», commenta il quotidiano della Confindustria. E in effetti, in poco più di due mesi e mezzo, in una tremenda situazione sociale e di ordine pubblico (le Brigate rosse feriscono il consigliere democristiano Rosario Giovine e l'assessore comunista all'edilizia Uberto Siola) è stato svolto un lavoro che alla più efficiente delle amministrazioni ordinarie avrebbe richiesto non meno di un anno.
Le scelte urbanistiche del Programma straordinario si possono così riassumere:
- completamento dei Piani per l'edilizia economica e popolare di Ponticelli e Secondigliano, dov'è prevista la costruzione di oltre 4.000 alloggi e di servizi e infrastrutture per almeno 50.000 abitanti. Si tratta in sostanza di riorganizzare e attrezzare un intero settore urbano, la cosiddetta «Napoli orientale»;
-circa 50 interventi puntuali di restauro o di sostituzione, disseminati sull'intero centro urbano, dove si prevedono circa 800 alloggi e numerosi impianti pubblici. Sono interventi dichiaratamente sperimentali, con l'obiettivo di mettere a punto e verificare adeguate metodologie, in particolare per il centro storico di Napoli, per il quale non esistono proposte operative e che perciò è stato escluso dal Programma straordinario. Per alcuni di questi interventi è prevista la contestuale progettazione di «Piani di inquadramento», che si configurano, di fatto, come veri e propri Piani di recupero, il che estende il carattere sperimentale anche al versante urbanistico;
-attuazione del «Piano delle periferie», approvato dal Consiglio comunale nell'aprile del 1980, sette mesi prima del terremoto: un'ambiziosa iniziativa (illustrata in seguito da Elena Camerlingo), finalizzata alla riqualificazione -attraverso l'uso combinato della 167 e dei Piani di recupero - delle parti più degradate e mortificate del sistema insediativo napoletano. Le aree di intervento riguardano infatti 10 ex comuni che durante il fascismo furono aggregati al territorio del capoluogo. Il piano vi prevede opere di nuova edificazione, di recupero e soprattutto di attrezzature e servizi. Gli alloggi in programma sono 8.600, dei quali 3.000 da recuperare, ricavandoli da 6.000 alloggi esistenti, di dimensione minima.
Queste previsioni sono distinte nel Programma secondo due insiemi territoriali e procedurali, definiti ambiti: quelli di nuova edificazione, che comprendono gli interventi da realizzare su aree libere, e gli ambiti di riqualificazione, ubicati nel cuore del tessuto urbano periferico (prevalentemente dove il Piano delle periferie prevedeva il ricorso alla 167), che comprendono in particolare gli interventi di recupero. A questi primi due vanno aggiunti gli ambiti di recupero, (e gli equivalenti «Piani di inquadramento», di cui si è detto) le cui aree non sono soggette all'intervento pubblico, essendo stati incaricati i consorzi concessionari della sola progettazione urbanistica. Si dovrebbe in tal modo garantire omogeneità e continuità tra il Programma straordinario di iniziativa pubblica e la successiva azione ordinaria su aree private.
Accanto ai 13.578 alloggi (i rimanenti sono localizzati dal commissario straordinario-presidente della Giunta regionale della Campania in 17 comuni della provincia), il piano prevede: 30 scuole dell'obbligo e superiori, 33 scuole materne, 30 asili nido (per un totale di oltre 15.000 posti alunno); 15 sedi per attrezzature collettive, culturali e sociosanitarie; parcheggi pubblici per circa 20.000 posti auto; 20 ettari per attrezzature sportive; centinaia di locali destinati a esercizi commerciali e artigianali. Ma soprattutto interessa ricordare che quasi un quarto dei 400 ettari espropriati dal Programma sono destinati a verde. Forse più di ogni cosa i 21 parchi previsti nelle periferie, dei quali tre grandi quanto la «villa comunale» (che rappresenta un simbolo della città borghese), danno il segno dell'opera di riscatto avviata per le parti di Napoli più devastate dall' incuria e dagli abusi.
Nei torridi giorni dell'agosto 1981 ha quindi inizio il lavoro dei progettisti incaricati dai consorzi; i tecnici impegnati aumentano con il passare delle settimane: alla fine sono quasi mille. La convenzione prevede tre fasi - schema urbanistico, progetto di massima e progetto esecutivo - ciascuna soggetta all'approvazione del sindaco-commissario. Si organizzano, infatti, gli uffici di questa singolare istituzione, che si avvale anche della consulenza di qualificati esperti e di istituti specializzati, distinti in strutture «orizzontali» e «verticali». Le prime, una per ciascuno dei 12 comparti territoriali, operano in corrispondenza degli altrettanti consorzi concessionari, di cui rappresentano la «controfaccia»: le strutture orizzontali operano invece per materia di competenza (nuova edificazione, recupero, urbanizzazioni, attuazione degli interventi, sicurezza antisismica, ecc.). Il lavoro consiste essenzialmente in incontri a tre -committente, progettisti e impresa - che consentono una rapida soluzione dei problemi. I progetti sono poi sottoposti a una commissione che raccoglie i rappresentanti delle amministrazioni pubbliche interessate e degli enti erogator i di servizi.
A regime, si riusciranno ad approvare ogni mese progetti per 40 miliardi (lire 1981), importo di tutto rispetto se confrontato con i 100 miliardi all'anno ordinariamente assegnati alla Regione Campania per l'edilizia pubblica e che in parte restano inutilizzati.
All'inizio dell'estate 1982 sono stati approvati gli schemi urbanistici, quasi tutti i progetti di massima, molti progetti esecutivi e sono in funzione i primi cantieri. È stato intanto messo a punto il capitolato speciale che, tra l'altro, fissa le norme di comportamento degli uffici e dei concessionari e regola, secondo un moderno sistema di codificazione, i requisiti cui devono rispondere le opere che si realizzano . E si attiva il sistema di controllo e vigilanza dei lavori, che prevede anche l'utilizzazione di circa 80 collaudatori in corso d'opera, coordinati dal direttore generale Michele Martuscelli. A ottobre, in occasione del Saie di Bologna -dove sono esposti i progetti di Napoli -si tira un primo bilancio positivo.
Resta da dire del bando per l'assegnazione degli alloggi, pubblicato all'inizio del 1983, sulla base di un'apposita delibera del Cipe che, accogliendo puntuali proposte del comune di Napoli, modifica sostanzialmente le tradizionali modalità di assegnazione. Sono privilegiati, accanto ai cittadini che hanno perso la casa a causa del terremoto (o per gli interventi di ricostruzione), gli abitanti di alloggi impropri, gli sfrattati, le giovani coppie, gli anziani e i «mononuclei». Al bando partecipano quasi 85.000 famiglie.
Ma è aperto il problema del recupero. In primo luogo, bisogna misurarsi con l'insofferenza e l'ostilità al concetto stesso di recupero diffuse in tutti gli strati della società (ma non solo a Napoli), poi con le difficoltà oggettive dell'operazione, sulle quali ci si sofferma nelle pagine che seguono. All'inizio, uffici e progettisti cercano di sperimentare le soluzioni possibili, senza pretendere di far capo a teorie indiscusse. Ma nel corso del lavoro, sollecitati in particolare dall'esigenza di criteri sicuri e omogenei nella determinazione dei costi, si approda ad alcune prime sistemazioni normative e procedurali relative alle operazioni di «manutenzione urbana» che si intendono sperimentare con il Programma straordinario. Si mettono così a punto (nel febbraio del 1983) i criteri che regolano gli interventi di recupero, distinguendoli secondo tre modalità: la conservazione, che comprende le tradizionali categorie della manutenzione, del risanamento e della ristrutturazione edilizia; la sostituzione, sia puntuale sia estesa a intere unità tipologiche; il completamento, da realizzare nelle aree non edificate strettamente connesse al tessuto edilizie esistente.
I criteri e i vincoli definiti per la progettazione degli interventi di sostituzione e di completamento riconoscono un valore primario alle preesistenti tipologie urbanistiche. Si richiede perciò il rispetto dei lotti che compongono il tessuto insediativo, della scomposizione interna alle corti, delle loro caratteristiche tipologiche, distributive e dimensionali. Questa impostazione rende, di fatto, sostanzialmente indifferente la scelta fra conservazione e sostituzione: prevale l'ultima modalità quando ragioni di costo, o irrimediabili condizioni statiche degli immobili, rendono impraticabile la conservazione. (Questi argomenti sono oggetto del saggio di Carlo Gasparrini, cap. Il, cui si rinvia per ogni approfondimento).
Contemporaneamente alla definizione delle tecniche di intervento, si lavora, insieme ai consorzi, alla proposta di determinazione parametrica dei costi del recupero (cfr. il saggio di Ferruccio Orioli, cap. III), per superare le insormontabili difficoltà e, quindi, l'enorme impegno di tempo imposto dalle valutazioni a misura. Proprio l'esperienza in corso a Napoli dimostra l'incongruenza di un rapporto di concessione quando non sia rigorosamente predeterminato il costo (ovvero il meccanismo sintetico per la stima del costo) delle opere da realizzare. E infatti, mentre gli interventi di nuova edificazione, regolati dal sistema di pagamento a forfait stabilito dal Cipe, hanno rapida ed efficiente attuazione, non si riesce invece ad assicurare speditezza alle opere di recupero e di urbanizzazione, da valutare a misura. Essendo la proposizione dei progetti, e quindi dei costi, di esclusiva competenza dei concessionari, all'atto dell'istruttoria e dell'approvazione ci si trova di fronte al seguente dilemma: o accettare nella sostanza (secondo un'interpretazione «estremistica» dell'istituto concessorio) le proposte delle imprese, con evidenti, incontrollabili, lievitazioni dei costi; oppure (come avviene) impegnarsi in estenuanti trattative per la revisione dei progetti e dei dati economici.
Si sconta in sostanza, nonostante tanto parlare di recupero, l'assoluta carenza di dati ufficiali e di regolamentazioni, specialmente in materia di costi. È indispensabile perciò elaborare e presentare al Cipe (nell'estate del 1983) una proposta di meccanismo parametrico (necessariamente complesso) per la valutazione degli interventi di recupero e dei costi unitari per le attrezzature scolastiche. Così, finalmente, nel febbraio scorso, viene approvata una apposita delibera del Cipe che dà facoltà di adottare la proposta del sindaco-commissario, in alternativa al sistema del computo metrico estimativo. Ci sono quindi tutte le condizioni per il concreto avvio dell'opera di riqualificazione. Intanto il Programma subisce le inevitabili conseguenze della crisi del comune di Napoli. Nel settembre 1983, Valenzi è sostituito, come sindaco e commissario straordinario del governo, dal consigliere di Stato Giuseppe Conti. Poi, all'inizio del 1984, per tre mesi, dal nuovo sindaco Franco Picardi (che in precedenza, come assessore all'urbanistica, aveva attentamente seguito lo sviluppo del Programma) e dal sindaco dei cento giorni, Enzo Scotti(che si era molto impegnato –come ministro del governo Forlani - nel primo avvio della ricostruzione nella primavera-estate del 1981).
Il lavoro, nonostante tutto , procede abbastanza linearmente. Sono stati completati, e in gran parte assegnati, quasi 800 alloggi; 7.000 circa sono in avanzata fase di realizzazione; il recupero -come si è detto -è allo starter di partenza; sono pubblicati i primi elenchi dei vincitori del bando per l'assegnazione degli alloggi. Il problema più grave è rappresentato dalla carenza di opere di infrastrutturazione generale (acquedotti e fognature), cui devono allacciarsi gli edifici del Programma. Qui si scontano in particolare le inadempienze e i ritardi della Cassa per il Mezzogiorno. Se non si provvede con energia e tempestività, si rischia, specialmente nella zona di Ponticelli, di produrre alloggi per lungo tempo inagibili, come è purtroppo nella storia dell'edilizia pubblica meridionale.
II dibattito sul recupero
Si è già detto che, a un anno circa dall'avvio del Programma (estate-autunno 1982), gli interventi di nuova edificazione erano concretamente partiti; il meccanismo concessorio efficiente; le strutture tecniche (quelle pubbliche e quelle dei consorzi) all'altezza della situazione. In alto mare erano invece i progetti relativi agli ambiti di riqualificazione, cioè ai circa 3.000 alloggi da recuperare.
Inadeguata e insufficiente -ai fini del rapporto concessorio -appariva innanzitutto la normativa allegata alle concessioni, in buona misura riproducente quella del Piano delle periferie e perciò finalizzata a un’attuazione ordinaria, direttamente gestita dall'amministrazione. Se infatti espressioni come «edificazione a tessuto», esprimevano concettualmente bene il rifiuto di soluzioni ordinarie, basate sulla prevalenza di edifici in linea multipiano, mancava però qualsivoglia indicazione «in positivo», per orientare univocamente la progettazione urbanistica ed edilizia affidata ai consorzi.
La lacuna era stata solo in parte colmata dalla Direttiva commissariale n. 7, che precisa metodi e criteri di rilevazione degli immobili ricadenti negli ambiti di riqualificazione, con l'obiettivo essenziale di «recuperare» le regole formative originarie degli insediamenti oggetto dell'intervento, per riutilizzarle nei progetti di riqualificazione. Purtroppo, anche il più scrupoloso rispetto dei requisiti richiesti per i rilievi era fine a se stesso e non aveva seguito coerente in fase di progettazione. In altre parole, non si era riusciti ad assicurare una finalizzata continuità nella procedura rilievo-progetto.
Ammesso che fosse chiaro (ma in effetti lo era in termini tecnico-formali assai labili) l'obiettivo del committente, essendo però la progettazione di competenza dei concessionari, era inevitabile la situazione di impasse nella quale ci si trovò all'atto della consegna dei primi progetti. In più circostanze, l'esigenza di far capo all'impianto strutturale preesistente veniva interpretata in termini scenografici e ambientalistici. Su questo argomento ci sarà occasione di tornare.
In sostanza, nella situazione data, rischiava di andare in crisi, per gli interventi di recupero, la stessa filosofia del rapporto concessorio. Il progressivo chiarimento che si era raggiunto, a seguito di lunghe, appassionate e faticose discussioni con esperti e operatori, anche estranei al Programma straordinario, in ordine alla metodologia del recupero , pretendeva infatti la piena «disponibilità» della progettazione da parte del committente. E non che non ci fossero progettisti interessati, convinti e disponibili ad approfondire la linea che a mano a mano si metteva a punto negli uffici del commissariato e che aveva il punto di partenza nelle analisi storico-tipologiche di cui tratta l'esemplare saggio di Gianfranco Caniggia pubblicato in questo volume, (nel cap. Il). Anzi, proprio il contributo di più architetti e tecnici professionalmente impegnati nell'iniziativa è stato determinante per verificare la concreta praticabilità dei metodi che si definivano. Il problema era perciò essenzialmente di natura contrattuale in quanto la più precisa definizione della domanda da parte del concedente poteva entrare in conflitto con le «libertà già garantite agli operatori, in particolare attraverso la determinazione a misura del costo degli interventi .
I problemi di metodo (se si vuole, «culturali») erano insomma aggrovigliati a quelli economico-giuridici, il tutto condizionato dalla già ricordata, pesante situazione di ostilità pregiudiziale all'idea stessa del recupero, che continua a essere prevalente nell'opinione pubblica e nei quadri dirigenti della politica e dell'amministrazione (non solo a Napoli). Trascurando qui gli aspetti più manifestamente strumentali ai fini della lotta politica, è utile ricordare in breve gli argomenti più diffusamente utilizzati nell'opposizione al recupero e che attengono a questioni di costo e di modello abitativo.
Quanto ai costi, Ferruccio Orioli in questo fascicolo elimina una serie di incomprensioni, che finora hanno complicato le discussioni in proposito. Innanzitutto è vero che, coeteris paribus, il recupero «pesante», in particolare in zona sismica, costa di più di una nuova edificazione su area libera (un di più peraltro contenuto, che Orioli ha stimato pari a un maggior costo del Programma non superiore allo 0,89%). Questo però significa soltanto che ci sarebbe convenienza a costruire case nuove solo se si abbandonassero a un destino di progressiva accelerata degradazione l'antico patrimonio edilizio e i suoi abitanti. Non c'è invece nessuna convenienza se, in alternativa al recupero, si pensa a operazioni di cosiddetto rinnovo urbano, e cioè di radicale demolizione e sostituzione di interi segmenti urbani fittamente abitati.
Senza chiamare in causa questioni di storia e di cultura, in sintesi di qualità urbana, è facile calcolare che la rinuncia al capitale infrastrutturale e sociale esistente e le immense spese di sistemazione temporanea degli abitanti e delle attività insediati sono nettamente superiori al costo delle operazioni di «cuci e scuci» urbanistico distribuite nel tempo (Ovvero di manutenzion eurbana) che si stanno sperimentando con il Programma straordinario. AI recupero, allora, non c'è alternativa se non si vuole imboccare il vicolo cieco di un'espansione illimitata degli insediamenti (ma a Napoli, per esempio, dov'è lo spazio?), le cui parti più antiche continuano a marginalizzarsi socialmente ed economicamente.
Quanto al modello abitativo ci si limita qui a ricordare che la parola d'ordine più diffusa, con la quale deve fare i conti chiunque affronti l'argomento, almeno da Roma in giù, è la seguente: «l'antica edilizia va eliminata, perché rappresenta la testimonianza di un passato di miseria dal quale vogliamo riscattarci». A questa logica non estranea certa cultura di sinistra che, proponendo per la classe subaltema gli stessi valori e gli stessi comportamenti In precedenza assunti dai ceti borghesi, condanna di fatto alla subordinazione permanente della prima ai secondi. Nei decenni trascorsi sono state infatti le famiglie benestanti ad abbandonare per prime le vecchie residenze, ad esse preferendo i requisiti «moderni» dei pentacamere-termo-ascensori offerti dalIa speculazione nelle nuove espansioni (al Vomero-Arenella, o a Monte Mario, o altrove). Quest'offerta standard ha finito con il rappresentare lo status sociale più ambito e ad essa si è in qualche modo uniformata la stessa produzione dell'edilizia pubblica.
Ma negli anni più recenti, a partire dalla città e dai ceti con più solido assetto economico-intellettuale, la «moda» si è ribaltata, con la rivalutazione degli elementi di pregio (tecnici, urbanistici) degli insediamenti più antichi. E, proprio per contenere gli effetti socialmente negativi di questa tendenza, si è sviluppata la «via italiana» al recupero dei centri storici. Niente meglio dello slogan coniato circa quindici anni fa a Bologna, «il centro storico è la gente», illustra la chiarezza dell'obiettivo della duplice e contestuale salvaguardia dei manufatti edilizi e dei loro originari abitanti. Ma si tratta, evidentemente, di un'indicazione che stenta ad affermarsi, se prevale ancora (a Napoli, per esempio) una pregiudiziale insofferenza alle politiche di recupero cui si contrappongono i valori un po' stantii della nuova edilizia dovunque e comunque realizzata.
A impedire che questa mentalità prevalente raggiungesse lo scopo -da taluni esplicitamente dichiarato -di modificare il Programma alla radice, depurandolo degli interventi in ambito di riqualificazione, è stata soprattutto l'intesa che si è realizzata con i consorzi concessionari. Quest'intesa non è stata determinata da considerazioni di immediata e indiscriminata convenienza economica. Anzi, quei ragionamenti maturati all'inizio dell'operazione, circa l'appetibilità di interventi, qualitativamente e quantitativamente indeterminati, da compensare a misura, sono stati superati da una più evoluta concezione imprenditoriale, che ha fatto i conti con le rilevanti prospettive che il recupero offre nel nostro paese e, quindi, con le opportunità, il know how, che l'occasione napoletana consente.
Se infatti le esperienze finora condotte altrove avevano indotto a ritenere quello del recupero un comparto comunque secondario, i problemi della realtà napoletana hanno viceversa dimostrato la dimensione smisurata delle cose da fare e contribuito quindi a convincere che l'intervento sull'esistente rappresenta gran parte del futuro dell'attività edilizia. E questo spiega -ed è uno dei meriti indiscutibili dell'azione, anche formativa, svolta dal Programma straordinario- la netta modifica di posizione assunta dai costruttori in ordine ai temi del recupero. Basti confrontare le dichiarazioni dell'immediato terremoto (quando, evidentemente, l'emozione per l'immane tragedia indusse i costruttori a proporre di radere al suolo quasi l’intero centro storico di Napoli) con i più recenti documenti e interventi sulla stampa della categoria, favorevoli nettamente all'opera di riqualificazione. La disponibilità degli operatori è insomma un «patrimonio» in via di formazione, che sarebbe irresponsabile disperdere.
D'altra parte, il recupero del mondo dell'impresa a impegni carichi di valenze culturali e sociali stata una decisione consapevolmente assunta all'inizio dell'operazione. Non è stato certo facile rimuovere quell'insieme di ragioni (tutt'altro che infondate in un non lontano passato) che spingevano a ritenere definitiva l'estraneità degli imprenditori a farsi carico di responsabilità d'interesse pubblico. In effetti questo è stato possibile anche perché si sapeva di poter contare su livelli di qualità, di competenza e di lealtà degli uffici pubblici operanti in sede commissariale che garantivano da ogni rischio di involuzione. E si è in tal modo dimostralo, contrariamente a quanto molti di noi pensavano, che la concessione non comporta affatto un'automatica mortificazione e depressione dell'apparato pubblico, ma può esserne anzi occasione di crescita e di rinnovamento: sempre che ci siano i presupposti, in termini di «questione morale».
Tornando al recupero, l'approvazione della delibera Cipe per il forfait rappresenta la svolta decisiva. La portata del risultato raggiunto può essere apprezzata pienamente se si osserva che l'enorme lavoro preparatorio condotto dagli uffici e dai concessionari ha dovuto essere esplicato, contemporaneamente, in materia di metodi di progettazione e di definizione dei costi. E su entrambi gli argomenti sono del tutto insufficienti, se non addirittura assenti -come si è detto -i riferimenti normativi e i dati confrontabili di altre situazioni nazionali. Era perciò obbligatorio misurarsi con un impegno rilevante di carattere sperimentale - in assenza delle istituzioni che avrebbero il dovere di promuoverlo - impegno cui non si poteva supplire, per le dimensioni dell'intervento, con la pratica del buonsenso o con soluzioni volta a volta estemporanee.
Che questi risultati siano stati raggiunti mentre era in pieno svolgimento un'opera di dimensioni inusitate, e sotto la spinta di un'emergenza sempre trionfante dovrebbe essere un titolo di merito. Invece ad alcuni osservatori politici e giornalistici sembra che il non aver subito il ricatto della congiuntura sia una colpa di leggerezza, un cedimento all'effimero. In luogo di fare case comunque e dovunque si fa «filosofia del restauro» e, orrore!, si vorrebbero costruire parchi pubblici.
Ben più seria e impegnativa è la polemica che si è sviluppata fra studiosi e operatori della materia. Esempi autorevoli di critiche ricorrenti li forniscono Giancarlo De Carlo e Pietro Barucci. II primo, sul n. 22 di «Spazio e società», se la prende con le prescrizioni, regole e norme che tengono a freno l'immaginazione architettonica e urbanistica e scrive a un certo punto, che «alle opere che saranno realizzate a Napoli è stata negata la trasgressione dai luoghi comuni che garantiscono la mediocrità urbana». Con una splendida espressione , De Carlo si allinea perciò alla schiera, che il «riflusso» rende ogni giorno più nutrita, dei sostenitori della deregulation .
In altre sedi, per esempio a proposito del dibattito sull' abusivismo a Roma , sono stati denunciati i rischi del «trasformismo urbanistico» che si annida sotto spoglie libertarie. Qui preme sottolineare soprattutto l'errore in cui inciampano De Carlo e altri quando pensano che a tenere a freno l'immaginazione architettonica e urbanistica (e altri valori) siano prescrizioni, regole e norme, assunte a categoria indiscriminata. Come se una moderna civiltà industriale potesse sopravvivere senza una montagna di prescrizioni e di regolamenti. Come se potesse aversi giustizia fiscale senza enormi e complessi apparati di controllo. Come se, in tutta l'Europa occidentale, l'attività edilizia non fosse subordinata a sistemi di indirizzo e di verifica ben più elaborati di quelli vigenti in Italia. Il bersaglio allora non può essere la normativa in quanto tale, ma la viltà, la pigrizia, l'incompetenza e la corruzione che si nascondono dietro il paravento della norma, o il garantismo che deborda in degenerazioni burocratiche.
Si individui allora correttamente il bersaglio nel modo d' essere prevalente della pubblica amministrazione nel nostro paese. Da questo punto di vista, il funzionamento esemplare degli uffici è stato uno degli obiettivi specifici dell'azione del commissariato. E un risultato di quest'impegno sta proprio nella normativa messa a punto per il recupero. Questa, Pietro Barucci la definisce «manuale Valtur»: l'ironia non riesce a temperare l'insensibilità e l'insofferenza dell'architetto moderno» di fronte ai problemi e ai vincoli della storicità del territorio. Anche Barucci, eccellente architetto (e lo dimostra proprio la lettura in serie dei progetti per il recupero di Barra, successivamente elaborati per avvicinarsi alle prescrizioni degli uffici; progetti che non si apparentano affatto ai villaggi turistici sulle rive del Mediterraneo, cfr. cap. IV), non si sottrae all'ambizione corrente di chi vuole lasciare un segno vistoso sul corpo della città dove ha operato. La sua critica non è perciò a quella normativa o a quel comportamento degli uffici, ma a qualsiasi tentativo di coerente organizzazione della committenza pubblica.
Inevitabile perciò il conflitto con la struttura commissariale, che ha invece l'ambizione di orientare, con riferimenti precisi e oggettivi una complessa procedura di trasformazione urbana. Il modello di quest'azione non può essere l' Hansavirtel di Berlino dove, negli anni Cinquanta, architetti di ogni nazionalità furono invitati a cimentarsi, ciascuno costruendo un edificio in assoluta libertà: la città come fiera campionaria. Modello degli uffici di Napoli sono state -e lo ha rilevato più volte Tommaso Giura Longo -le organizzazioni pubbliche e private che hanno consentito le straordinarie realizzazioni urbanistiche ed edilizie della grande socialdemocrazia europea, del primo e secondo dopoguerra. Quelle organizzazioni per le quali hanno operato tanti maestri dell'architettura moderna, dando il meglio della propria professione, proprio in quanto non hanno preteso di misurarsi in gare di monumentalità, affrontando con rigore il tema dell'edilizia media.
Certamente gli obiettivi perseguiti dagli uffici solo in minima parte possono, oggi, ritenersi acquisiti; sono evidenti, per esempio, le differenze fra la «teoria» e la pratica espressa dai progetti finora messi a punto. Ma non è questo che può indurre a giudizi negativi. Una linea strategica, quale è quella che si sta perseguendo, può essere valutata solo su lunghi archi temporali, a mano a mano precisando e perfezionando metodi e procedure.
È di tutta evidenza, infatti, che il carattere sperimentale dell'intervento di recupero (e, per quanto si è detto, nella situazione data, il recupero in tanto è in quanto sperimentale) è stata una scelta assunta all'inizio dell'operazione: quando si è deciso di avviare subito la nuova edilizia su aree libere (il 75% del totale), per avere il tempo di approfondire metodi e criteri per gli interventi nelle aree edificate. Anche perché solo la disponibilità dei nuovi alloggi avrebbe consentito la sistemazione temporanea degli sventurati abitanti che continuano a vivere negli immobili da recuperare (come si può allora parlare di ritardi nel concreto avvio degli interventi di recupero?). Importante è perciò, ora, non solo la garanzia che il Programma vada avanti, ma che i metodi acquisiti possano svilupparsi altrove e ovviamente, innanzitutto, nell'affrontare gli enormi problemi dell'area metropolitana di Napoli.
Programma straordinario e area metropolitana di Napoli
Da un punto di vista socio-urbanistico -lo si è già detto -quando si parla di Napoli, non ha alcun senso riferirsi al territorio comunale del capoluogo. In proposito, basta ricordare che la provincia di Napoli (ivi comprese le isole del golfo) ospita quasi lo stesso numero di abitanti della città di Roma, ma misura una superficie nettamente inferiore a quella della capitale.
I problemi dell'urbanistica della casa, a Napoli, non possono quindi che essere affrontati in termini, come si dice, metropolitani. Questa non è, come sembra, un'osservazione del tutto ovvia. Mentre, infatti, in altre più o meno analoghe situazioni territoriali (per esempio, Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, ecc.) è dall'immediato dopoguerra che si sperimentano, con alterne vicende, ipotesi e istituti diversi di aggregazione fra i comuni; mentre, comunque, negli anni più recenti, in quelle situazioni si pratica una politica urbanistica ed edilizia coordinata, a Napoli l'esigenza di un'azione intercomunale resta un auspicio generico o un tema di esercitazione teorica. Da questo punto di vista, per le ragioni già esposte, è andata finora persa l'occasione offerta dalla ricostruzione.
Vediamo alcuni dati relativi alla condizione residenziale di quest'area, dati tratti dai primi risultati della ricerca che l'Ufficio tecnico del commissariato sta conducendo in materia. Napoli capitale dell'affitto è il più vistoso dei risultati acquisiti. A Napoli, infatti, oltre il 68% delle abitazioni risulta occupato in locazione, a fronte del 35% della media nazionale (Censimento 1981). E mentre nel decennio precedente lo spostamento medio nazionale verso il godimento in proprietà è stato di 9 punti percentuali, a Napoli lo è stato di solo 4 punti. Il dato è ancor più significativo se confrontato con l'evoluzione di altre grandi città italiane: nel 1971, per esempio, Milano e Torino presentavano lo stesso tasso di abitazioni in affitto di Napoli (72%), che però, in dieci anni, nelle due città del Nord si è ridotto di ben 12,4 e 11 punti percentuali.
Perché si può considerare questo dato decisamente rappresentativo del degrado edilizio? Per il paradossale, e patologico, assetto del mercato delle abitazioni in Italia, dopo l'equo canone. Presa in sé, un'alta percentuale di affitto è elemento positivo, è segno di mobilità sociale e territoriale, è una condizione per lo sviluppo economico: cosi è, infatti, nelle grandi aree metropolitane europee (specialmente in Germania e in Olanda). Da noi, invece, come si sa, l'equo canone ha fatto sparire gli alloggi in affitto (non è colpa della legge, ma del modo in cui non viene governata) e la mobilità residenziale è garantita solo a chi può accedere alla proprietà. A Napoli, la netta prevalenza dell'affitto si spiega perciò soltanto con l'esiguità del numero di inquilini con disponibilità economiche sufficienti per procedere all'acquisto dell'abitazione e con le condizioni così cattive del patrimonio in affitto da non provocare una significativa domanda di acquisto. D'altra parte, è noto che i parametri dell'equo canone incentivano il mantenimento della condizione di degrado. Ecco perché, nella particolare situazione napoletana, può sostenersi l'equazione: affitto = degrado. Napoli capitale dell'affitto significa perciò anche: capitale della degradazione urbana.
La diagnosi è confermata da un insieme di altri dati. A Napoli spetta ancora il primato di«vetustà» degli alloggi: il 39% del patrimonio edilizio è stato costruito prima del 1924, rispetto a una media nazionale del 23,3%. Napoli e Catania presentano ancora il più alto numero di alloggi in scadenti condizioni (35,4% e37,6%) con un forte salto rispetto ad altre situazioni negative (Palermo, con il 26,5%; Bari 26%; Venezia 20%). Lo scadente stato di conservazione delle abitazioni in affitto raggiunge a Napoli il 42,6% (e il 47% a Catania). L'esame dei dati consente insomma di affermare con sicurezza che sul patrimonio abitativo di Napoli (e della sua area metropolitana) si sovrappongono tutti i fattori negativi: si tratta di un patrimonio sostanzialmente vecchio e assai deperito, sia in generale sia, e soprattutto, per quanto riguarda lo stock in locazione.
Se questa è la situazione oggettiva degli edifici, ancor più deprimente è il quadro delle condizioni abitative soggettive, cioè riferite ai nuclei familiari. Basti citare le informazioni relative allo stato di affollamento. Il 38,2% del complesso delle abitazioni di Napoli città presenta un indice superiore a 1,5 (quasi il 40% nei comuni dell'hinterland) . Particolarmente elevata è la percentuale di alloggi collocata nella classe di maggiore affollamento (oltre 1,99 abitanti/stanza): il 24% a Napoli e il 22,3% nei comuni dell'area. Il distacco di Napoli e dei comuni della sua area metropolitana dalle altre situazioni è ancor più evidente se l'affollamento è riferito al patrimonio in locazione: il 44% degli alloggi in locazione a Napoli e il 48% nei comuni di cintura ricadono nelle due classi di maggiore affollamento (fino a 1,5).
L'indice di affollamento, come si sa, è uno degli elementi essenziali per la determinazione del fabbisogno di nuovi alloggi. L'altro elemento è la crescita della popolazione: si consideri al riguardo che -come risulta dalla citata ricerca -circa un terzo dell'incremento demografico registrato nell'insieme delle aree metropolitane italiane nel decennio 1971-1981 è concentrato nell'area napoletana.
Non si intende certo affrontare ora la questione delle nuove abitazioni necessarie. Tra l'altro, una valutazione astratta di siffatta quantità è impossibile, per definizione, se disgiunta da concrete ipotesi di politica del riuso. L' ordine di grandezza dell'incremento necessario a colmare il deficit sarà almeno pari a 1/ 4 dello stock abitativo esistente nella provincia di Napoli; ma, ovviamente, non importano tanto le cifre complessive, quanto gli obiettivi quantitativi prioritari su cui dimensionare la ricerca di risorse e gli strumenti programmatici e territoriali d'intervento. Quale che sia l'entità del fabbisogno abitativo di Napoli e dintorni in pratica esaudibile, non c'è dubbio, comunque, che avrà dimensioni molto rilevanti e non potrà essere soddisfatto da nuove edificazioni nell'ambito del territorio comunale.
I dati finora illustrati sono noti agli specialisti della materia e da un po' di tempo se ne occupa anche la stampa quotidiana. Ma c'è un elemento profondamente negativo e singolare della situazione abitativa napoletana finora sfuggito a ogni indagine: a Napoli, l'attività e il mercato edilizio o sono pubblici o sono abusivi; manca del tutto l'iniziativa privata regolare. Più ancora che nel mercato del lavoro, è in quello della casa che si esplica l'assistenzialismo indiscriminato, nei cui interstizi si annida la produzione nera. Il ripristino di condizioni in qualche modo ordinarie di mercato si pone, quindi, fra gli obiettivi prioritari dell'azione politico-amministrativa locale (e nazionale). Un sistema urbano non può infatti crescere e trasformarsi solo grazie all'edilizia sovvenzionata. Non solo mancano le risorse, ma si andrebbe incontro a deprimenti esiti sociali, già ampiamente verificati.
In conclusione, la situazione napoletana fin qui descritta può riassumersi come segue:
-un patrimonio esistente in avanzato stato di degradazione;
-un forte bisogno di nuovi alloggi;
-un mercato edilizio anomalo, privo di regolari iniziative private;
-una doppia e parallela disponibilità (effetto del Programma straordinario in corso) delle strutture imprenditoriali e dell'apparato pubblico per nuove prospettive di impegno.
Una situazione, come si vede. che solo in parte può essere affrontata localmente e che presuppone, in ogni caso, che sia risolto il problema del rapporto intervento pubblico-intervento privato. Una situazione sulla quale può essere di grande interesse proiettare l'esperienza fin qui condotta con il Programma straordinario, innanzitutto verificando le effettive possibilità di estensione del rapporto concessorio ad altre ipotesi di contesto istituzionale. Non c'è dubbio che, nel caso di intervento a totale carico pubblico, è abbastanza agevole -ma non certo scontata -la trasposizione di certe procedure dall'azione straordinaria a quella ordinaria. Molto più complesse simulazioni sono invece necessarie ove non si tratti di concessioni di sola costruzione, ma anche di gestione del patrimonio costruito ex novo o recuperato.
Sappiamo tutti che sono in corso riflessioni e ricerche su nuove forme di società immobiliari, sulle quali dovrebbe svilupparsi un dibattito più ampio di quanto non ci sia stato finora. Da questo punto di vista, dovrebbero sfruttarsi «in positivo» le stesse caratteristiche negative della situazione napoletana. Per esempio, a una così alta percentuale di alloggi in affitto dovrebbe corrispondere -nel rispetto di determinate condizioni -una più agevole manovra della mobilità abitativa, che è un presupposto essenziale per affrontare rilevanti problemi di riqualificazione urbana.
La riqualificazione urbana resta infatti il problema cruciale della futura attività urbanistica ed edilizia. L'esperienza di cui si dà conto in questo fascicolo può essere certamente, senza presunzioni, di rilevante importanza. Ma per tradursi in una diffusa politica abitativa ha bisogno -come altri ha sostenuto -di una convergenza di impegni (in termini concettuali, normativi, finanziari, operativi, progettuali, ecc.) equivalente a quella che si è esplicata per l'edilizia di nuovo impianto, a partire dalla legge 167 del 1962.