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Tomaso Montanari
L’educazione al patrimonio come arma di resistenza civile
20 Novembre 2012
Beni culturali
Il discorso tenuto dal vincitore del Premio Bassani 2012: un appello appassionato per contrastare il degrado delle nostre istituzioni. A partire dal Mibac. Scritto per eddyburg, 20 novembre 2012 (m.p.g.)
Il discorso tenuto dal vincitore del Premio Bassani 2012: un appello appassionato per contrastare il degrado delle nostre istituzioni. A partire dal Mibac. Scritto per eddyburg, 20 novembre 2012 (m.p.g.)
Sono profondamente onorato per questo premio.
Onorato per quello che rappresenta Italia Nostra, e per quello che rappresenta l’altissima poesia civile che informa i romanzi e gli scritti militanti di Giorgio Bassani.
Sono – permettetemi di confessarlo – anche molto sorpreso. Questo premio si riferisce, infatti, al segmento più recente e più breve della mia vita intellettuale: quattro anni in cui sono diventato profondamente diverso dal quieto studioso che avrei pensato di essere per sempre.

Tutto è cominciato quando, una sera del dicembre 2008, ho visto apparire in televisione, al Tg1, il ministro dei Beni culturali e un alto funzionario di quel Ministero con un piccolo Cristo scolpito nel legno. Essi spiegavano che si trattava di un capolavoro di Michelangelo, che era stato appena acquistato dallo Stato, e che questa mirabile acquisizione compensava il taglio da un miliardo e oltre 300 milioni di euro che era appena stato inflitto al bilancio dei Beni culturali. Il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione erano condannati alla rovina: ma avevamo un capolavoro di Michelangelo. Per di più facilmente trasportabile in grandiose mostre all’estero.

Era tutto falso, tutto sbagliato, tutto distruttivo. Ma non tanto per quei soldi gettati, e non certo per l’attribuzione sbagliata: semmai per il valore diseducativo, intellettualmente desertificante, di quella propaganda. Era come se, in un attimo, quello stesso Stato che mi paga ogni mese per insegnare nelle aule universitarie distruggesse i valori e i contenuti di quello stesso insegnamento: il senso critico, la ricerca storica della verità, l’educazione al patrimonio contestuale.

Ed ecco, quella sera ho pensato che se io avessi taciuto, avrei perso il senso della mia stessa vita di studio e di ricerca. Lo Stato, la comunità dei cittadini mi aveva permesso di studiare storia dell’arte (e di farlo alla Normale di Pisa): in quel momento ebbi la percezione che se avessi scelto di chiudermi dentro la mia biblioteca, la mia tranquillità, la mia serena e appagata vita di studioso, avrei tradito quei cittadini, e la mia stessa coscienza. Così cominciai – io che non l’avevo mai fatto – a scrivere articoli sui giornali, e poi libri di denuncia.

Una sola bussola ha guidato questi scritti, e la dico con le parole di un bellissimo intervento di Giorgio Bassani sui Sassi di Matera: «ho un obbligo solo, quello di fare il ‘pazzo’. Cioè di dire tutta la verità, a tutti costi». «La parte che tocca a noi – ripeteva Bassani, parlando come presidente di Italia Nostra – è quella del ‘pazzo’, e siamo decisi a non assumerne altra».

In questi anni ho cercato di raccontare soprattutto l’agonia delle città italiane: a partire da Firenze, dove vivo, e da Napoli, dove insegno. Città diverse solo in apparenza, ma condannate entrambe: la seconda ad una rovina materiale più evidente, con uno dei patrimoni artistici più importanti del mondo che va letteralmente a pezzi, e l’altra condannata ad una rovina morale, perché ridotta a feticcio turistico alienante, a «macchina da soldi» come teorizza il suo sindaco-format. E se il declino terribile di Venezia (tra torri faraoniche, grandi navi e privatizzazione della città) è il futuro di Firenze, il destino tragico dell’Aquila terremotata rischia di sommare Napoli e Firenze: un grande centro distrutto che nessuno ricostruisce, ma che già si immagina come una sorta di enorme centro commercial-turistico, trasformandosi letteralmente in ciò che molte delle nostre città d’arte sono moralmente, e cioè città senza cittadini.

Invece non avrei mai immaginato, da studioso del barocco romano, di scrivere autentici pezzi di inchiesta: uno dei quali (quello sul saccheggio della Biblioteca napoletana dei Girolamini, apparso sul Fatto) ha innescato un’inchiesta che ha portato in carcere dodici persone, tra cui un consigliere del ministro per i Beni culturali e braccio destro di Marcello Dell’Utri.

Ma oltre alla sacrosanta denuncia del disastro del patrimonio e del paesaggio italiani, credo che uno storico dell’arte che parla ai cittadini, abbia un altro principalissimo dovere. Mi riferisco al dovere di provare a dire a cosa serve davvero il patrimonio storico e artistico della nazione. Questa è la cosa che mi sta più fortemente e più profondamente a cuore.

Dopo la rivoluzione epocale dell’articolo 9 della Costituzione repubblicana il patrimonio ha cambiato funzione. E la sua nuova funzione non è più la legittimazione del potere dei sovrani degli antichi stati italiani, ma è la costruzione sostanziale della nuova sovranità, quella dei cittadini. Il patrimonio appartiene oggi al popolo italiano. Che lo mantiene con le proprie sudatissime tasse non perché sia ‘bello’ e non perché sia il nostro petrolio, cioè una fonte di ricchezza materiale. Il novanta per cento della nostra fatica quotidiana, ventitré ore delle nostre ventiquattro, nove decimi delle nostre città, la quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario sono asserviti al potere del mercato e del denaro. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame.

Il patrimonio, invece, è come la scuola: è un potentissimo strumento di educazione alla cittadinanza e di innalzamento spirituale. L’articolo 3 della Costituzione affida alla Repubblica il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Il patrimonio storico e artistico della nazione è precisamente uno degli strumenti che permettono alla Repubblica di rimuovere quegli ostacoli, e di rendere effettiva la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Ma perché questo sia vero occorre che gli storici dell’arte come me facciano il loro lavoro. Nel dicembre del 1944 Roberto Longhi, scriveva al suo più caro allievo, Giuliano Briganti: «il primo bombardamento di Genova dovrebbe risolversi in un interminabile esame di coscienza per noi storici dell’arte. Anche noi, gli anziani soprattutto, siamo responsabili di tante ferite al torso dell’arte italiana, almeno per non aver lavorato più duramente, e per non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere. Anche se il desiderio era di lavorare per molti, di esser popolari (e tu ricorderai che il mio proposito era quello di arrivare un giorno a scrivere per disteso il racconto dell’arte italiana a centomila copie per l’editore Salani) si è lavorato per pochi, e anche voi giovani siete sempre in pochi, direi anzi che andate diradandovi: proprio oggi che ci bisognereste a squadroni. Di qui, del resto, si risale ad altre vecchie carenze della nostra cultura: la storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva (se vuole avere coscienza intera della propria nazione): serva, invece, e cenerentola dalle classi medie all’università; dalle stesse persone colte considerata come un bell’ornamento, un sovrappiù, un finaletto, un colophon, un cul-de-lampe di una informazione elegante». Oggi, nel 2012, a settant’anni di distanza possiamo fare nostre le parole di Longhi. Il patrimonio storico e artistico della nazione, quello che – secondo il rivoluzionario articolo 9 della Costituzione – la Repubblica dovrebbe tutelare, è sottoposto ogni giorno ad un bombardamento di degrado materiale, sfruttamento morale, abbandono culturale.

Oggi come nel 1944 gli storici dell’arte, gli intellettuali in generale, devono farsi l’esame di coscienza di cui parlava Longhi: abbiamo fatto tutto quello che potevamo per spiegare «quanti e quali valori si trattava di proteggere»? Abbiamo provato ad essere davvero ‘popolari’, cioè a parlare al popolo sovrano, che del patrimonio è l’unico padrone? Abbiamo fatto in modo che la storia dell’arte non serva solo agli storici dell’arte?

Nell’XI canto del Purgatorio Dante parla della lingua degli italiani: quella di Guido Guinizzelli, di Guido Cavalcanti e di lui stesso che la stava elevando all’altezza di una vera lingua nazionale. Ma pochi versi prima Dante parla dell’altra lingua degli italiani: quella di Cimabue e Giotto. Una lingua di figure, ma soprattutto di palazzi, chiese, strade, campagne, coste, montagne. E oggi è vitale bisogno che gli italiani del futuro, i bambini e i ragazzi di oggi, imparino (e possibilmente reinsegnino ai loro genitori) questa nostra seconda lingua nazionale: che reimpariamo tutti che il patrimonio storico e artistico che ci appartiene in quanto cittadini sovrani è la forma dei nostri luoghi, è una indivisibile fusione tra arte e ambiente, è un tessuto continuo di chiese, palazzi, strade, paesaggio, piazze. Non una specie di contenitore per ‘capolavori assoluti’, ma proprio il contrario, e cioè la rete che congiunge tante opere squisitamente relative, e che hanno davvero un significato (artistico, storico, etico, civile) solo se rimangono inserite in quella rete.

Per uno storico dell’arte, scrivere sui giornali significa dunque poter allargare il pubblico a cui è destinata quella «resurrezione del passato» (per usare una frase di Jules Michelet molto amata da Francis Haskell) che è l’obiettivo del suo lavoro.

Leggendo la motivazione del premio, Alessandra Mottola Molfino ha detto che i miei articoli hanno sottoposto a dura e radicale critica anche il Ministero dei Beni Culturali. È vero: in questo drammatico momento il patrimonio artistico italiano va difeso anche dalle deviazioni dei vertici del Mibac.

Pochi giorni prima di sapere che Italia Nostra mi aveva conferito il Premio Bassani ho appreso che il ministro Lorenzo Ornaghi ha chiesto i danni al «Fatto quotidiano» e al sottoscritto perché il ministero sarebbe stato diffamato in un mio articolo dello scorso luglio dedicato all’insensata, dannosa e mio parere illegittima mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino.

In quell’articolo, infatti, scrissi che uno dei problemi del Mibac è la «corruzione della burocrazia». Il contesto del pezzo (tutto tessuto con brani di Antonio Cederna e Roberto Longhi) era chiarissimo: non si parlava di mazzette, o illeciti. Sostenevo, invece, la tesi che il corpo dirigente del Mibac sia corrotto, letteralmente: putrefatto, disfatto, dissolto. Una specie di 8 settembre del patrimonio storico e artistico della Nazione.

E d’altra parte, le prime vittime di tutto questo sono le centinaia di funzionari irreprensibili abbandonati in prima linea. La maggior parte dei miei articoli di denuncia di casi di malatutela scaturisce da accoratissime email di soprintendenti e funzionari, che ogni giorni chiedono a me (come a Salvatore Settis, a Gian Antonio Stella e a un pugno di altri volenterosi) di aiutarli nella loro battaglia quotidiana: una battaglia in cui si sentono traditi da una burocrazia ‘corrotta’ nei princìpi, cioè immemore della sua missione e piegata alla volontà della classe politica. Ed è anche per dare voce alla grande maggioranza del Mibac che si deve criticare con durezza la minoranza corrotta che lo tiene in scacco.

È una situazione davvero grottesca: Ornaghi è il più acceso sostenitore dello smantellamento del ministero (vuole, per esempio, conferire Brera ad una fondazione), io sono invece convinto che lo Stato-collettività debba continuare a mantenere per tutti un patrimonio di tutti. Ma sarebbero le mie argomentate critiche, e non la sua pessima politica, a colpire la tutela pubblica!

Se promuovendo questa intimidazione il ministro Ornaghi ha inteso mettermi un bavaglio, otterrà il risultato esattamente opposto. Non desidero entrare in politica, non desidero alcun incarico nel ministero, non rispondo che alla mia coscienza: desidero continuare a fare per tutta la vita il professore universitario di storia dell’arte. E credo che tra i diritti e i doveri che la Costituzione mi garantisce e mi impone ci sia anche quello di denunciare pubblicamente la rovina delle opere che studio, e di investigarne le cause. Anche quelle che riguardano una burocrazia e una politica che non servono più quella stessa Costituzione.

Oggi, grazie ad Italia Nostra e al Premio Giorgio Bassani, queste idee sono un poco più forti.
Grazie.

Il testo costituisce un ampliamento del discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Bassani 2012 di Italia Nostra, svoltosi a Ferrara il 18 novembre 2012.

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