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Massimo Lo Cicero
L’economista dei liberal
6 Luglio 2007
John Kenneth Galbraith
Su il Mattino del 1° maggio 2006 un articolo su Galbraith con riferimenti ad alcuni echi italiani delle sue opere

Galbraith è un economista che ha attraversato il ventesimo secolo. Nato in Canada nel 1908, si laurea in economia agraria all’Università di Toronto nel 1931, consegue il master (1933) e il ph.d (1934) nell’Università della California. Diventa cittadino americano nel 1937. Dal 1948, e fino al 1975, sarà un docente di Harvard. Militante appassionato del partito democratico, lavora alternando l’accademia alle responsabilità nella pubblica amministrazione con Roosevelt, Truman, Kennedy e Lyndon Johnson. Durante la seconda guerra mondiale dirige l’ufficio che controlla i prezzi industriali. Ripensando a quegli anni scriverà nei suoi libri che è facile controllare i mercati in cui agiscono pochi grandi attori, come venditori e compratori, ma è impossibile farlo quando i partecipanti agli scambi sono migliaia. Svolge anche altri incarichi legati al clima di mobilitazione imposto dalla guerra mondiale, e riceve dal governo americano la «medaglia della libertà», un’alta onorificenza. Testimonianza significativa di come la sua radicalità riformista non gli impediva di mettere le proprie capacità al servizio della nazione e di essere dalla nazione stessa ricompensato.

Dopo un lungo lavoro politico nel partito democratico durante la leadership di John Kennedy, viene nominato ambasciatore degli Stati Uniti in India. Agli inizi del ventunesimo secolo circola sulla stampa americana la sua candidatura al premio Nobel, perché «è il più famoso economista vivente del mondo che non lo ha ricevuto» ma anche la constatazione che non potrà riceverlo perché molti ritengono il suo lavoro troppo legato a fatti contingenti, troppo politico e non abbastanza accademico.

In effetti la fama di Galbraith nel mondo è pienamente meritata. Ma egli ha subito lo strano destino di chi scrive troppo presto le cose più importanti della propria produzione intellettuale. La descrizione della affluent society, la società dei consumi opulenti, nel 1958 e la critica del potere impropriamente esercitato dalle tecnocrazie industriali nella vita pubblica - The new industrial state nel 1967 - rappresentano due pilastri importanti per un nuovo paradigma nel mondo dell’economia politica. Oltre dieci anni dopo, nell’Europa degli anni settanta, percorsa da movimenti di massa ostili alla dimensione fordista e alienante della grande industria, le idee di questo americano liberale diventano un linguaggio capace di restituire alle scienze sociali la forza della critica rispetto all'ordinamento sociale.

Non deve stupire che questi due libri di Galbraith vengano valorizzati anche nel nostro paese dagli ambienti culturali che erano alla ricerca di un radicale superamento del marxismo di stampo tradizionalmente europeo. Claudio Napoleoni e Franco Rodano lavorano sulla centralità dei consumi opulenti per offrire, dalle pagine della Rivista Trimestrale, una politica economica capace di cambiare i processi di riproduzione sociale a partire dalla forma dei consumi e non dai rapporti di forza nei luoghi di produzione. Edoardo Salzano scrive su quelle pagine una serie di articoli intriganti sul legame involutivo che si stabilisce tra la dinamica dei consumi opulenti e le forme dell’espansione urbana. Ne nasce un libro della Laterza, Urbanistica e Società Opulenta, che verrà, purtroppo e spesso, frainteso come una sorta di elogio del pauperismo. La dimensione dell’alienazione dell’individuo, in una economia che smarrisce i valori collettivi, viene proposta come la radice della critica sociale.

La riduzione della complessità necessaria per lo sviluppo della persona umana, del resto, è una costante della stagione culturale alla quale appartengono le due opere principali di Galbraith: ricordate l’uomo di Marcuse, ridotto ad una sola dimensione? Scrive Galbraith nel Nuovo Stato Industriale: «La conformità dell’identificazione degli individui e delle organizzazioni con i fini sociali è possibile grazie alla presenza, quale forza motivante, dell’adattamento, che corre come un filo parallelo dall’individuo ai valori della società passando attraverso l’organizzazione... (grazie a) questo processo di adattamento acquista valore sociale ciò che è utile agli obiettivi dei componenti la tecnostruttura». Alla fine degli anni ottanta la Nuova Italia pubblica un volume di Ricciotti Antinolfi, economista dell’Università di Napoli, che offre la ricostruzione dell’impatto delle analisi di Galbraith sulla politica e la cultura del nostro paese.

In un pamphlet del 1990 - A short history of financial euphoria: financial genius is before the fall, tradotto in italiano da Rizzoli - si ritrova, invece, la grande paura della crisi finanziaria che, dal 1929, attraversa gli Stati Uniti, da Galbraith a Bernanke, passando per Greenspan: «Una normativa che bandisca la credulità finanziaria o l’euforia di massa non è in pratica possibile... il risultato sarebbe un sistema di leggi imponente, forse oppressivo e certamente inefficace. Quando avverrà il nuovo grande episodio speculativo ed in quale campo?.. non c’è risposta a queste domande; nessuno lo sa e chiunque pretenda di darla (la risposta) non sa di non sapere. Ma una cosa è certa, ci sarà un altro di questi episodi ed altri ancora... Gli sciocchi, presto o tardi, vengono separati dal loro denaro». Forse, nel giorno in cui Galbraith ci lascia, sarebbe utile ricordare ai giovani che la sua straordinaria capacità di navigare tra la politica, la pubblica amministrazione e l’accademia gli ha impedito di ricevere un Nobel ma ha offerto una enorme energia intellettuale al suo paese. Grazie alla sua militanza appassionata in un partito. Non sarebbe facile ripetere questa performance nell'Italia di oggi e nel suo sistema politico.

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