Ho partecipato di recente a un convegno di economisti, e non ho potuto tacere il mio stupore. Ho ascoltato e apprezzato con partecipazione gli sforzi di tanti studiosi di valore di immaginare un nuovo corso economico, non asservito alle vulgate dominanti, pensato per realizzare interessi collettivi e non per celebrare le magnifiche sorti della crescita. E tuttavia - ecco il mio stupore - in tante dotte ed anche appassionate elaborazioni nessuno si è ricordato dell’esistenza dell’ambiente. La rimozione del nome e della nozione della natura è stata totale.
Ora, voglio precisare che qui non rivendico la menzione ad honorem di un problema. Ormai all ’evocazione del tema ambiente, in qualunque circostanza pubblica, non rinuncia più nessuno. Non c’è, si può dire, discorso politico, da quello del capo dello Stato fino al sindaco del più minuto e sperduto paese, che non aggiunga il richiamo all’ambiente come componente corrente del proprio armamentario retorico.
Non è dunque questa la recriminazione. Nè rivendico la necessità di inserire il tema come un ingrediente necessario a completare un quadro di razionalità a suo modo completo. Non è il basilico necessario a rendere profumata l’insalata di pomodori. Solo l’enorme distanza che ancora separa alcuni saperi del nostro tempo - tra questi l’economia, oltre, naturalmente, la cultura media corrente - dai problemi e dalle conoscenze racchiusi nel temine ambiente, può indurre a percepirne la rivendicazione come il segno di una subalterna petulanza.
In realtà col termine natura e ambiente si evoca una diversa interpretazione dell’economia: più precisamente un suo più o meno completo capovolgimento. Quando si lamenta l’assenza di un qualunque orizzonte che includa le risorse naturali all’interno del calcolo economico si allude a un fatto oggi sempre meno occultabile: il processo di produzione della ricchezza non avviene soltanto grazie alla combinazione di lavoro e capitale. C’è un tertium, a lungo negletto, rimosso, che si chiama natura, risorse. Il linguaggio economico ha cancellato il ruolo e l’esistenza stesso di questo terzo soggetto, chiamandolo materie prime.
La realtà di quest’ultime viene esaurita in un costo, rappresentata e subito affondata nell’insignificanza di un prezzo. Ma oggi le materie prime disvelano la loro reale natura economica: esse sono in realtà risorse finite.Parti di un patrimonio che è esauribile. E tale realtà ha due esiti teorici di straordinaria portata. Essa, semplicemente, viene a imporre una verità, che dovrebbe già appartenere al senso comune: la crescita non può essere un processo infinito. Mentre al tempo stesso la finitezza delle risorse disvela il loro carattere di patrimonio comune dell’umanità. Il rame, il ferro, l’acqua, le foreste sempre meno appariranno proprietà e dominio dei privati e dei singoli Paesi detentori, e sempre più appariranno beni comuni universali, perché ad essi è affidata la sopravvivenza collettiva del genere umano. Risorse esauribili e proprietà privata diventano in prospettiva inconciliabili.
Di fatto, la grande maggioranza degli economisti continua ad ignorare questo terzo attore che è la natura, in parte perché l’esauribilità delle risorse è assunta come una questione dell’avvenire, e in parte per la fede implicita nella potenza dell’innovazione tecnologica che, prima o poi, troverà una soluzione alla finitezza delle materie prime. Per la verità tale fede ha trovato anche una formulazione teorica autorevole. Facendo la felicità degli economisti ambientali il premio Nobel Robert Solow ha valicato la misura del buon senso affermando: « non c’è in linea di principio alcun problema: il mondo può, in effetti, andare avanti senza risorse naturali». In realtà egli ha onestamente detto ciò che pensa la maggioranza degli economisti, quando pensa. E ha comunque dato formulazione ai comportamenti economici reali dominanti. Non ha avuto grandi difficoltà Mauro Buonaiuti a coprire di gentile scherno uno simile pretesa. "Se, come affermano i neoclassici, la funzione di produzione altro non è che una ricetta" egli ha scritto - allora Solow implicitamente afferma "che sarà possibile, riducendo la quantità di farina, cuocersi un pizza più grande semplicemente utilizzando un forno tecnologicamente più avanzato, oppure due cuochi al posto di uno" (M. Buonaiuti (a cura di ) Obiettivo decrescita, EMI, Bologna 2004, p. 26)
Tuttavia, pur avendo l’ambito teorico un’ovvia rilevanza, la riflessione deve essere trascinata sul terreno delle questioni concrete.Uno dei limiti di comunicazione dell’ambientalismo è sempre stato un eccesso di proiezioni dei problemi nel futuro, mentre la politica e l’economia vivono solo di presente. E’ facile che chi ammonisce sul deserto che rischiamo di lasciare alle nuove generazioni venga osservato come una petulante Cassandra. Ora è invece già oggi che il consumo di natura ai fini dello sviluppo mostra il suo lato irrazionale e distruttivo.E’ già oggi che la crescita economica è sempre meno produttrice di benessere sociale e sempre più dissipatrice di risorse scarse, generatrice di danni collettivi, di malessere reale.
Il caso più evidente che può esemplificare una tale situazione è quello che riguarda l’automobile. Nell’età dello sviluppo questo mezzo ha rappresentato simbolicamente e di fatto uno strumento di emancipazione, di movimento agevole nello spazio, di libertà individuale. Oggi una tale situazione appare esattamente rovesciata. Ogni nuova auto che entra nel mercato toglie un’ulteriore frazione di spazio a quello già ridotto oggi disponibile, rende più lento il traffico di una qualche unità di tempo, accresce l’inquinamento e il danno alla salute dei cittadini, dà il suo contributo alle piogge acide, accresce il danno agli alberi, agli edifici, e ai beni monumentali.E’ vero che una parte delle auto nuove svolge una funzione di sostituzione, con una sua utilità, perché attenua l’inquinamento. Ma essa non ferma l’aumento inarrestabile del parco macchine complessivo. Dunque, mentre è sempre più insignificante il soddisfacimento soggettivo e funzionale prodotto dal bene nel consumatore, appaiono sempre più crescenti le difficoltà e i danni sociali che esso scarica sulla collettività. L’automobile, d’altro canto, sempre più tradisce il suo fine originario, quello di accrescere la mobilità individuale sul territorio, anche in un altro modo.I suoi costi di acquisto e soprattutto di gestione sono infatti crescenti. Per una mobilità sempre più lenta, l’utente deve spendere sempre più in tassa di circolazione, assicurazione, parcheggio - chi ha girato in auto per le città americane o del nord Europa è bene informato - carburante, olio, riparazioni, sostituzioni di pezzi, multe sporadiche, ecc. Dunque egli è costretto a spendere una misura crescente di tempo di lavoro per poter godere di un mezzo sempre meno risparmiatore di tempo. Paradossalmente è costretto a rimanere fermo più a lungo al lavoro per poter pagare i costi crescenti della crescente immobilità del suo mezzo di trasporto.
Ma questa è solo una parte della riflessione. L’ industria automobilistica è la più vorace consumatrice di materie prime esistente al mondo.Secondo un calcolo della fine del secolo scorso tale settore assorbiva il 20% della produzione mondiale dell’acciaio, il 10% dell’alluminio, il 35% dello zinco, il 50% del piombo, il 60% della gomma naturale. E da questo calcolo sono naturalmente esclusi i cosiddetti flussi nascosti, una dimensione dei costi calcolata di recente dagli economisti ambientali. Noi siamo soliti infatti valutare la quantità delle materie prime nel loro stato finale di merce. Ma prima che esse divengano tali, in realtà, si realizza un processo nascosto e spesso grandioso di distruzione di natura vivente. Quando si consuma 1 litro di benzina occorre mettere nel conto 18 litri d’acqua necessaria per la sua depurazione. Per estrarre un q. di rame, o di un qualunque altro minerale, in realtà, si distruggono estesi territori, si alterano gli habitat circostanti, si consumano ingenti quantità di acqua, talora si inquinano fiumi, ecc. Finora, queste «esternalità» come le chiamano pudicamente gli economisti, non venivano considerate, perché i territori, la natura senza padrone, veniva considerata res nullius.
Naturalmente, questo genere di considerazioni vale per qualunque altra merce.Poichè i teorici dello sviluppo vedono nella crescita dei consumi un fattore della crescita generale della ricchezza, oggi occorre saper vedere quanta produzione di ricchezza fittizia e quanta distruzione di ricchezza reale si realizza, di fatto, attraverso l’atto del consumo. Valga per tutti l’esempio dei capi d’abbigliamento. C’è un consumo che appaia più innocuo ed economicamente positivo dei capi d’abbigliamento in cotone ? Eppure pochi sanno che l’uso di una maglietta ha alle spalle una lunga storia di inquinamento. Si comincia dai campi, dove il cotone, in quasi tutti i Paesi, riceve trattamenti intensivi di pesticidi - il 10% del totale consumato nel mondo - che inquinano le falde idriche, danneggiando fiumi e laghi, colpiscono la biodiversità delle campagne circostanti, consumano spesso ingenti quantità di acque, danneggiano gravemente la salute dei coltivatori. Ma anche quando è diventata materia prima, pronta per l’uso industriale, il cotone continua, in realtà, una seconda storia di degradazione di risorse, attraverso il consumo di acqua e la lavorazione chimica connessa ai processi di colorazione.
Dunque si comprende bene che il processo di produzione di merci non può più contare, com’è avvenuto sino a oggi, sulla rimozione dei costi fatti gravare sulla natura e sulla collettività.Un consumo sempre più forzato, artificiale e indotto, che distrugge masse crescenti di risorse naturali scarse, è una dissennatezza non più occultabile..E le dissennatezze - se mai il mondo sarà orientato da qualche senno - non andranno molto lontano.