SÌ, HA RAGIONE Pietro Citati, dobbiamo andare a firmare per il referendum contro la loro "Mala Costituzione" (Giovanni Sartori), per sostenere la nostra "Costituzione aggredita" (Leopoldo Elia). Certo, il referendum si farà in ogni caso perché l’hanno già richiesto 13 regioni. Perché l’hanno già richiesto 359 parlamentari. Ma sarebbe importante che lo richiedessero anche 500 mila cittadini.
Ognuna di queste richieste costituzionali ha infatti una sua propria motivazione. Le regioni ci dicono che è possibile un altro regionalismo, un altro processo federativo secondo le comuni logiche europee. Logiche lontane dal progetto costituzionale del centrodestra che disgrega la stessa idea di un sistema italiano di governo coordinato e coerente ai vari livelli territoriali. L’opposizione parlamentare ci dice un’altra cosa: che non si cambia così una Costituzione. Forzando la procedura, prevista per singole modifiche, per travolgerne l’intero impianto; negando in Parlamento i tempi necessari per riflettere, dialogare, parlare sulla legge fondamentale del Paese.
La richiesta del cittadini ci dovrà dire invece che la cittadinanza vuole riappropriarsi della sua Costituzione. Non solo per difenderla ma per proiettarla come stella polare anche del suo futuro. I banchetti delle firme non sono banchetti di conservazione, ma garanzia per l’avvenire. Proprio nel momento in cui la cupa atmosfera da Oratore Unico, che viene giù da ogni televisione, ci spiega qual è la concezione di potere oppressivo che ci tocca contrastare ed allontanare.
2006: sono 50 anni dall’entrata in funzione della Corte costituzionale. Ci fu un ritardo di 8 anni causato da quello che allora si chiamò «ostruzionismo di maggioranza». E quando la Corte entrò in funzione, subito si accese una grande battaglia giuridica tra di essa e la Cassazione, tra «progressisti» e «conservatori». Una battaglia proprio sui valori costituzionali. Da un lato, si disse che le norme valoriali erano norme programmatiche che, per entrare in vigore, avevano bisogno di leggi attuative. Dall’altro lato, si disse invece che tutte le norme costituzionali di sostanza valoriale potevano e dovevano trovare immediata attuazione senza bisogno di leggi esecutive. La Corte costituzionale fece prevalere questa seconda tesi.
E, tuttavia, oggi vediamo con più chiarezza, con più serenità le cose. E capiamo, così, che la tesi delle norme programmatiche era infondata per quel presente. Ma coglieva e preservava per il futuro una preziosa proprietà dei valori costituzionali. Questa proprietà è la loro capacità di sviluppo, di progressivo adattamento ai tempi e ai fatti nuovi, insomma alla maturazione di una diversa modernità istituzionale. Ma se questo è vero, allora una severa autocritica si impone.
Oggi ci troviamo a rischiare la secessione dei diritti e la frattura fiscale tra nord e sud del Paese. È irresponsabile minimizzare. Competenze regionali esclusive più federalismo fiscale, significano proprio questo, nella impostazione leghista, finora sempre prevaricante. Vi è poi addirittura, nel progetto, una norma che facilita la frammentazione territoriale di regioni e comuni. Vi è ancora il rifiuto di un’Assemblea di confronto e di composizione tra governo centrale e governi territoriali per continuare l’esperienza partecipativa della Conferenza Stato-regioni. Vi è infine – come regalo per i suoi cinquantanni – l’inquinamento politico della Corte costituzionale.
Ebbene se tutto questo e molto altro ancora accade, è perché per troppi anni ci siamo addormentati sulla Costituzione. Perché non abbiamo sviluppato sino in fondo quel suo programma originario di vita e valori. Perché abbiamo messo la Costituzione sotto il mattone e non abbiamo investito i suoi valori come risorsa permanente di rinnovamento organizzativo della democrazia, nella maturazione dei tempi. Vogliamo qualche breve esempio?
Ecco, quando la Costituzione parla con le parole delle origini, all’art. 3, di «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», quell’aggettivo «effettivo», quel sostantivo «partecipazione» significavano che l’organizzazione concreta dei partiti, del parlamento, dei sindacati non potevano restare immobili per sempre, come furono concepiti nell’800. E che si dovevano cambiare per tempo i rapporti e le procedure tra eletti e rappresentanti, tra iscritti e delegati, da sindacalisti e lavoratori. Ma i regolamenti parlamentari, gli statuti dei partiti, le strutture dei sindacati non si sono mai veramente aperti e aggiornati secondo questo programma fondato sul valore della partecipazione. Lo scossone del 16 ottobre scorso ce l’ha ricordato con la forza sbalorditiva della spontaneità delle elezioni «primarie» per il centrosinistra. Ma le primarie sono solo un aspetto della necessità di partecipazione per ristrutturare le istituzioni della politica.
Ancora. Quando la Costituzione all’art. 5 dice che la Repubblica adegua i «metodi» della sua legislazione alle esigenze delle autonomie territoriali, dice qualcosa di diverso dalla semplice separazione delle competenze. Indica una maniera di fare le leggi che già prefigurava una compartecipazione legislativa. Quella che oggi viene rinnegata con l’idea di legislazione «esclusiva»: una legislazione di separazione tra le regioni, e per le imprese, da regione a regione. Questo mentre la più matura esperienza federalista tedesca tenta, con gli accordi della Grosse Koalition, una via completamente nuova.
Ancora. La Costituzione, all’art. 11, nello stesso contesto del principio pacifista - e non è un caso - consente limiti alla sovranità dello Stato. Era la prima volta al mondo che una Costituzione statale prevedeva questo. Ebbene, quando questo avvenne, significava non solo che l’ordinamento sovranazionale non poteva fermarsi ai confini statali. Significava, positivamente, una Costituzione aperta che si proponeva una compartecipazione con le Costituzioni degli altri europei, con un superamento radicale della stessa idea federalista. Abbiamo fatto tutto quello che si doveva fare in questo senso per costruire una vera cittadinanza europea?
Infine, quando la Costituzione all’art. 2 dice che la Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell’uomo e del cittadino, significa che i diritti fondamentali non possono essere disciplinati con le stesse regole delle comuni situazioni giuridiche. Ma che quei valori devono essere tutelati con un progressivo adeguamento dei procedimenti di garanzie alle nuove mutanti minacce di tirannie.
Si potrebbe continuare. Ma bastano questi quattro esempi per confermare due cose. La prima è che è stato trascurato un programma vasto e intenso di attuazione, manutenzione, adeguamento della Costituzione, che è cosa ben diversa dal concetto di riforme secondo astratte ingegnerie costituzionali. La seconda cosa è che nessuna difesa della Costituzione può esaurirsi nella logica conservativa. E questo perché ogni difesa di valori costituzionali è naturalmente collegata a quel programma originario di sviluppo e progresso e che ora si deve riprendere: per democratizzare la Costituzione, per costituzionalizzare la democrazia.
Hegel una volta dette la più bella definizione del Parlamento che si conosca. È il porticato, scrisse, tra le istituzioni e la società civile. Il porticato, né strada, né palazzo. Ma strada e palazzo insieme. Ecco: il compito del costituzionalismo del nostro tempo è quello di fare di ogni istituzione un porticato, di connettere la democrazia diretta con la democrazia rappresentativa, di democratizzare – con la partecipazione, con la concertazione – ogni procedura di decisione. Forse questo è proprio il nucleo portante del programma per modernizzare veramente l’Italia.
È dunque, in questa fedeltà dinamica al piano delle origini la specifica modernità dei valori costituzionali. Accanto ai banchetti per le firme, in questi giorni si moltiplicano i «comitati Dossetti» per la difesa della Costituzione, per il no al referendum. Ebbene, non dobbiamo mai dimenticare che la sentinella biblica evocata da don Dossetti non aveva nulla di conservatore, vigilava ma guardava all’avvenire. Alla domanda: «Che cosa vedi nella notte profonda?» rispondeva: «Vedo brillare le prime luci dell’alba».