C'è qualcuno che non si limita a essere solidale solo con le chiacchiere: magari sa che alla predica occorre coniugare la pratica. La Repubblica
, 12 agosto 2015
LA VITA è strana, e nel mio caso anche in vacanza mi porta sempre lo stesso messaggio, «il popolo siriano ha bisogno di aiuto, non girarti dall’altra parte ». Faccio la volontaria da un anno al mezzanino della stazione Centrale perché non potevo più stare a guardare questa tragedia umana dei siriani in fuga dalla guerra, e anche qui mi sono ritrovata in una sorta di mezzanino sul mare del Dodecanneso. I primi segnali li ho avuti a Kalimnos e a Leros, vedendo i gommoni degli scafisti, sgonfi, abbandonati dopo aver traghettato centinaia di povere anime siriane. Qui sbarcano 100/200 profughi al giorno su ogni isola, e la Grecia non è preparata ad accoglierli.
Poi, sabato scorso alle quattro di mattina, nel buio pesto dell’isoletta di Pserimos (poche miglia a nord di Kos) siamo entrati in prima persona nell’incubo. Urla, pianti di bambini, parole in arabo. Non ho avuto dubbi, erano siriani spiaggiati. Io e mio marito ci siamo guardati e subito ci siamo messi un costume, preso alla rinfusa acqua, biscotti, pane e siamo saliti sul nostro gommoncino a remi per andare verso le urla. Non sbagliavamo. Con le torce abbiamo visto un gommone di una decina di metri bianco mezzo sfasciato sulle rocce, e lì un brulicare di ombre che si inerpicavano verso la montagna dalla parte sbagliata dell’isola, anziché costeggiare le rocce a pelo d’acqua e raggiungere la spiaggia a poche centinaia di metri da noi, e da lì, con un cammino di mezz’ora sulla montagna, arrivare al paesino di Pserimos.
Sapendo bene cosa vivono in questi sbarchi e con quanta paura arrivano in una terra che non conoscono, ho cominciato a chiamarli: « Yalla yalla , venite, scendete verso di noi, siamo italiani, fidatevi, vogliamo solo aiutarvi, fate scendere le donne coi bambini ». Ho parlato in inglese, ho usato le poche parole di arabo imparate alla Centrale e così ho convinto i primi giovani a scendere. Poi gli abbiamo passato acqua, biscotti, e molti sorrisi.
Siamo andati in fila indiana, io davanti con la torcia, dietro i ragazzi, poi le donne e i mariti coi bambini (11, di cui molti sotto l’anno di età). Ci siamo ritrovati sulla spiaggia increduli. Mio marito è tornato a bordo a prendermi un pareo per coprirmi e altri viveri e acqua. Con lui sono tornati anche i nostri due bambini (9 e 11 anni) svegliati dal trambusto a bordo e dalle grida dei siriani.
Ripreso fiato, ci siamo incamminati sulla collina che dalla baia di Ormos Vathi porta a Pserimos, dove attracca il piccolo ferry che collega con Kalimnos e Kos. Mio marito è tornato in barca con i bambini, io ho cominciato la mia giornata di mezzanino greco per aiutarli a organizzarsi il viaggio, orientarsi e capire cosa potevano e dovevano fare per continuare il loro viaggio.
Non abbiamo fatto niente di speciale, solo quello che qualunque marinaio farebbe, ma è vero che nella baia c’erano altre 15 barche alla fonda, e solo il nostro gommone è partito in soccorso ai profughi. E questo la dice lunga sulla paura dello straniero.
In tutto erano una cinquantina. Una trentina di uomini sui 25/30 anni, 11 bambini molto piccoli con genitori sfiniti e giovanissimi anche loro, due fratellini di 9 e 11 anni che “viaggiavano” soli con il fratello di 18 anni perché madre e padre sono morti sotto le bombe. C’era anche una coppia tenerissima sui 65 anni, lui con femore malandato, stampella e cuore malconcio. Ci siamo incamminati come una carovana unita, e insieme siamo sbarcati sull’altro versante, dove loro pensavano ci fosse un campo profughi, la prima cosa che mi hanno chiesto insieme alla stazione di polizia. Invece c’erano quattro ristoranti, due bar chiusi e una spiaggia bianchissima con il molo e i venditori di spugne. Un schiaffo quasi insopportabile, questa Grecia da cartolina.
Sono stata con loro quasi 12 ore, assicurandomi che trovassero tutti posto con regolare biglietto sul ferry delle 17 per Kalimnos. Il capitano è stato splendido: prima ha fatto salire donne, bambini e i due anziani, poi i turisti e poi tutti, fino all’ultimo, i siriani che nel frattempo erano diventati 80 con quelli che sono arrivati da altri punti dell’isola. I greci hanno portato pannolini di ricambio per i bambini, ceste di uva e fichi, hanno offerto le loro docce, il patio di una casa, il cortile della scuola.
Mille e 300 euro a testa, il prezzo della traversata da Bodrum in Turchia a qui. Pagati a delinquenti più disgraziati di loro, come il driver, un iracheno di 22 anni più spaventato di loro che nessuno voleva indicarmi.Nessuno lo denuncerà, perché se non li aiutano gli scafisti, chi li salva dall’inferno?