La Repubblica, 4 luglio 2015
Vi è in primo luogo la vicenda euro-greca, giunta ormai al suo drammatico parossismo con il referendum. Come si è potuto arrivare a questo punto? Come spiegare che non siamo riusciti a trovare un terreno d’intesa con le autorità di un’area economica che incide solo per il 2 per cento del Pil dell’Unione? Al tempo stesso, è giocoforza constatare che le politiche messe in atto negli anni scorsi dalla “troika” — Commissione europea, Banca Centrale europea, Fondo Monetario internazionale — sono fallite. Guardando ai risultati, si potrebbe anzi affermare che siano state attuate a svantaggio della Grecia: il Pil greco, che nel 2008 era solo 7 punti percentuali sotto la media Ue, nel 2013 è crollato a meno 28. Come si fa, in questo contesto, a chiamare “aiuti” degli interventi dagli effetti così devastanti sulla vita dei greci? Il medico ha sbagliato terapia, ma si accanisce sul paziente, e poco importa se il suo assistito rischia la vita! Non è solo un modo di dire: il numero di bambini abbandonati negli orfanotrofi greci è triplicato in pochi anni, un terzo della popolazione non ha copertura sanitaria e il potere di acquisto è diminuito del 40 per cento. Non è ammissibile che la consapevolezza di queste cifre non influisca sulle politiche economiche dell’Ue. E questi dati rendono altrettanto inammissibili le dichiarazioni di certi responsabili europei, che fingono di stupirsi che gran parte della popolazione greca respinga il regime che le viene imposto.
C’è poi la sfida dell’immigrazione, che ha ormai preso posto nel dibattito continentale come un tema ineludibile, che cristallizza le tensioni e lascia campo libero a ogni sorta di fantasmi. Anche in questa materia, se si analizzano oggettivamente i numeri, c’è da rimanere sconcertati. L’Unione europea viene descritta come assediata per aver ricevuto l’anno scorso, nei suoi 28 Paesi, 626mila domande d’asilo. Un continente che, nonostante la crisi, rappresenta l’economia più ricca del mondo, sarebbe messo in ginocchio — secondo campagne politiche di cui non serve svelare i secondi fini — dall’un per cento, o poco più, di quei circa 60 milioni di persone che sono costrette all’esilio da guerre e persecuzioni. Questo popolo senza terra e senza nome, il cui numero è pari a quello degli abitanti dell’Italia e di poco inferiore a quelli della Francia, l’Europa la lambisce appena, e invece si riversa in modo massiccio sui Paesi più vicini alle aree di crisi. Sono il Libano, la Giordania e la Turchia, che ospitano milioni di rifugiati siriani, a poter parlare legittimamente di emergenza. Possono farlo l’Iran e il Pakistan, che accolgono milioni di afghani. Ma come possiamo, noi qui, gridare all’invasione? Il dramma sono i migranti a conoscerlo, non certo noi. Che le migrazioni rappresentino una sfida per i nostri paesi è indiscutibile; ma abbiamo anche tutti i mezzi per affrontarla. Invece di assumerci serenamente le nostre responsabilità, rimaniamo inerti, afflitti e imbarazzati davanti alle immagini che ci arrivano da Ventimiglia: poche centinaia di persone sono diventate — incredibilmente — materia di tensione tra Italia e Francia, mentre basterebbe che ogni Stato dell’Unione accettasse di fare la sua parte.
Vedendoci lacerare, ripiegarci su noi stessi e rimanere fermi, che cosa penserebbero di noi Spinelli, Schuman e Adenauer? Come reagirebbero, scoprendo che su quegli scogli di confine si è incagliata, schiantata l’idea che loro seppero concepire in anni d’autentica tragedia, e far crescere tra le macerie del dopoguerra? Ricordiamoci che l’Europa esiste anche attraverso i principi che essa fa vivere: perché è il continente dei diritti, del rispetto della dignità umana, della solidarietà verso chi è in difficoltà. Questo ci ha resi grandi nel mondo, questo è un punto di riferimento per tutti coloro che abbiano a cuore libertà e giustizia sociale.
Dimenticare questa storia, non sentirne l’orgoglio, non è soltanto un tradimento. È anche una clamorosa dimostrazione di miopia e autolesionismo. Perché in un mondo globalizzato le questioni irrisolte — che si tratti dell’economia greca o dei conflitti dai quali fuggono i rifugiati — hanno e continueranno ad avere su di noi ripercussioni dirette, che ci piaccia o no. Sta a noi decidere se vogliamo affrontare queste sfide governandole con lucidità, lavorando sulle soluzioni, e dunque investire su un’Unione più solidale, al proprio interno e verso l’esterno, un’Unione politica, pienamente politica. Oppure se intendiamo seguitare ad agitarci senza andare avanti. Il che significa cedere di fronte ai tanti populismi che sulla crisi economica e la retorica xenofoba stanno costruendo le proprie fortune, e accettare che sulle rovine dell’ideale europeo volteggino soddisfatti i costruttori di muri. Siccome siamo degli ottimisti irriducibili, crediamo che sia possibile imboccare con decisione la prima strada. Speriamo che le due prove cui è sottoposta oggi la nostra Unione spingeranno ciascuno degli Stati membri a cogliere la misura dell’emergenza europea.
Laura Boldrini è Presidente della Camera dei Deputati Claude Bartolone è Presidente dell’Assemblea Nazionale francese