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Ugo Mattei
Le pubbliche fortune dell'individuo proprietario
28 Dicembre 2007
Capitalismo oggi
“L’irresistibile ideologia dominante che fa della privatizzazione la propria bandiera sventolante a destra e a sinistra”. Da il manifesto del 1° dicembre 2007

Il potere delle grandi imprese transnazionali si esprime nella capacità di legittimare la proprietà privata. In Italia, dopo il tramonto della stagione riformista degli anni Settanta, il modello giuridico dominante è quello che proviene dagli Usa Le trasformazioni in atto nel capitalismo possono essere meglio comprese a partire dai cambiamenti avvenuti nel diritto di proprietà

Ripercorrere le trasformazioni e gli itinerari culturali intorno ad un istituto giuridico-politico centrale come il diritto di proprietà, per cogliere il senso delle trasformazioni radicali dell'attuale contesto capitalistico, impone drastiche scelte. Il regime dell'appartenenza delle risorse aventi valore economico è infatti la spina dorsale di ogni economia politica in qualsivoglia stato di sviluppo. Per questo motivo, ogni trasformazione sociale è prodotta da e a sua volta produce mutamenti, formali o informali, nel regime della proprietà. A causa dell'interdipendenza dei sistemi economici, e delle grandi trasformazioni della sovranità possiamo assumere il modello interpretativo del «sistema-mondo» offerto da Immanuel Wallerstein e considerare così l'Italia come una «semiperiferia». Le questioni politicamente rilevanti in Italia sono dunque da un lato determinate da quanto si sviluppa al «centro» (che possiamo assumere, ancora forse per poco tempo, coincidente con gli Stati Uniti d'America); dall'altra, esse sono capaci di determinare mutamenti sociali nella «periferia», ossia in contesti di più limitato potere (soprattutto nel Sud del mondo), con tutte le responsabilità che ciò comporta.

Un privilegio rinnovato

Discutere di proprietà oggi richiede dunque un'impostazione «internazionalista». Impostazione che ha il pregio di delimitare la prospettiva temporale al periodo di più intensa trasformazione delle coordinate giuridiche del capitalismo contemporaneo, quello che va dalla crisi e conseguente caduta del sistema bipolare della guerra fredda fino ai nostri giorni. Un periodo in cui si sono prodotte trasformazioni tanto profonde quanto quelle che nei secoli passati hanno portato all'abbandono in Occidente di sistemi di appartenenza collettiva a favore della proprietà individuale borghese, trionfante, come noto, nei codici napoleonici (1804). Tuttavia le tendenze trasformative oggi in atto possono apparire contraddittorie (ad esempio, la grande società di capitali che oggi domina la scena è soggetto collettivo). Per coglierne il senso, bisogna quindi rinunciare a modelli interpretativi monistici, cercando di cogliere l'istituto della proprietà nella sua viva storicità.

Scriveva Censor nel suo Rapporto veridico sulle ultime possibilità di salvare il capitalismo in Italia, (Mursia), pamphlet situazionista attribuito alla destra più prestigiosa, addirittura a Guido Carli: «La Costituzione della Repubblica Italiana aveva abolito tutti i secolari privilegi e distrutto tutti i diritti esclusivi, lasciandone sussistere uno fondamentale, quello della proprietà privata nella prospettiva utopistica di estenderla a tutti. Ma non bisognava che i proprietari, in un'epoca in cui gli stati di mezza Europa dovevano affrontare un crescente malcontento dei lavoratori e della giovane generazione in genere, si facessero troppe illusioni sulla forza della loro situazione...... oggi che il diritto di proprietà a molti sembra essere l'ultimo resto di un mondo aristocratico distrutto de iure et de facto, ...appare con maggior evidenza come l'unico privilegio isolato in una società livellata, allorchè tutti gli altri... ben più contestabili e giustamente odiosi, non gli fanno più da paravento, lo stesso diritto di proprietà si trova ad essere messo in discussione con maggior pericolo e con violenza contagioisa: non più chi lo attaccava ma chi lo difendeva sembrava chiamato a giustificarsi».

L'alleanza tra rendita e profitto

Sono parole lontane anni luce dalla realtà contemporanea. Chi contesta più oggi, in Italia ed in generale nell'Occidente opulento, la proprietà privata? Chi discute più i privilegi dei «padroni»? Quale potente forza sembra aver spazzato ogni dissenso di fronte al Terribile diritto, come ancora poteva essere descritto da Stefano Rodotà agli albori della rivoluzione reaganiana e tatcheriana? Che fine ha fatto oggi la matrice comunitaria di quell'Altro modo di possedere cui dedicò pagine indimenticabili il decano degli studi sul diritto medievale e moderno Paolo Grossi? Sembra quasi che a partire dai primi anni Ottanta il dibattito sull'appartenenza, individuale o collettiva, privata o pubblica, si sia spento, soffocato dall'irresistibile ideologia dominante che fa della privatizzazione la propria bandiera sventolante a destra e a sinistra.

Eppure in Italia la discussione sulla legittimazione della proprietà privata, sulla responsabilità dervianti dal detenere risorse a titolo individuale e sui limiti giuridici che vanno apportati ai poteri del proprietario è stata «alta» e ha oltrepassato la sede costituente, vedendo all'opera protagonisti illustri, tanto sul versante «accademici» (Pietro Rescigno, Ugo Natoli, Pietro Barcellona, Stefano Rodotà fra gli altri) che giudiziario (Corte Costituzionale) che, soprattutto, politico, se si pensa alla quantità di significative riforme volte a «limitare» la proprietà privata per adempiere il mandato costituzionale (gli articoli 41 e 42) di immaginare un modello a capitalismo misto, sociale e responsabile. Uno sforzo ancora assai vivo negli anni Settanta. Dal cosiddetto equo canone alla riforma agraria, dalla legge urbanistica alla legge sulla casa, gli interventi di uno stato sovrano, basato sì sul modello di proprietà privata individuale e borghese, questi interventi legislativi erano caratterizzati da una «matrice» nettamente ridistributiva.

Iniziative legislative ottenute, va ricordato, a dispetto di resistenze significative. Così annotava il leader socialista Riccardo Lombardi, commentando la prima importante conquista del secondo decennio delle riforme sociali, la «Legge sulla casa» del '71: «La resistenza (alle riforme) ha visto permanentemente associati i settori così detti avanzati del capitalismo con quelli arretrati e con quelli agrari, cioè l'alleanza del profitto con la rendita». Un'alleanza peraltro ricorrente in Italia (e non solo) dove, in una certa fase dello sviluppo capitalistico, come si può leggere nella prefazione al libro di Michele Achilli Casa: vertenza di massa (Padova, Marsilio Editore 1972) «la interconnesione fra posizioni di rendita e posizioni di profitto, fra forme tecnologicamente avanzate e forme arretrate di sfruttamento singolo e collettivo, interno ai luoghi di produzione ed esterno, è tale da aver costituito fino ad oggi la base più solida di unità delle clasi dominanti, sia durante il fascismo che nel pre-fascismo e nel post-fascismo».

Un fraseggio costituzionale non ambiguo e largamente favorevole ad un modello solidaristico e sociale (caro tanto al cattolico Dossetti quanto al cominista Togliatti) non consegna alla proprietà privata praterie illimitate di accumulo capitalistico. Cerca semmai di «civilizzare» gli «umani» rispetto ai propri appetiti acquisitivi, limitando la proprietà privata con attribuzioni molto significative al settore pubblico tanto in funzione di godimento collettivo quanto di impresa di stato (ed è fin troppo ovvio evocare qui i nomi di Beneduce, Menichella e Mattei).

A dispetto di ciò, abbiamo assistito a partire dagli anni Ottanta al trionfo anche ideologico di un processo di privatizzazione «all'anglo-americana», accompagnato da una crociata contro lo Stato proprietario e alla conseguente insofferenza per i «limiti costituzionali» alla proprietà privata. Questo mutamento di clima culturale, che ha travolto l'intero Occidente, ha partorito in Italia perfino la damnatio memoriae della proprietà sociale, simboleggiata dall'ambizioso progetto delle «case Fanfani» dileggiate come un esempio degli sprechi e dei privilegi ingenerati dallo Stato proprietario.

Passata la ventata riformista, a partire dai primi anni Ottanta, la questione proprietaria è stata dunque accantonata nella riflessione italiana e, nella disattenzione generale degli addetti ai lavori (prigionieri di gabbie disciplinari incrollabili), un altro soggetto collettivo e potentissimo, la corporation, ha potuto occupare gran parte degli spazi pubblici dismessi dallo Stato. In pochi anni, il ritardo culturale accumulato a causa di questo abbandono e dell'accettazione di uno status quo di primazia del capitale sul lavoro (in gran parte spiegabile con la resa al padronato simboleggiata dalla famosa marcia dei 40.000 a Torino) ha reso la riflessione di casa nostra del tutto sprovvista di strumenti critici (necessariamente pluridisciplinari) volti a filtrare l'onda di ricezione proveniente dagli Stati Uniti.

L'Italia, messa in ginocchio dallo shock petrolifero e dall' inflazione a due cifre, è piombata in una crisi di sovranità politica da cui non si è ancora ripresa. A causa dell'indebitamento (oggi detenuto per oltre metà da corporate interests stranieri) ha così dovuto insistere per oltre vent'anni, senza porsi troppe domande, su quel processo di privatizzazione degli spazi pubblici che ha trovato nel pensiero economico dominante la potente retorica di legittimazione, al di là dei suoi evidenti e drammatici costi sociali.

Le conquiste dei decenni precedenti, anche a causa dei limiti nella capacità pubblica di implementarle senza sprechi ed in modo imparziale, sono state in gran parte travolte ed il diritto di proprietà privata sui mezzi di produzione (ritrasformato in una retorica di libertà) ha potuto risorgere ed essere «ri-naturalizzato» nella sua concezione ottocentesca, senza tener conto della differenza abissale che intercorre fra l'individuo proprietario (piccolo o grande poco importa) e la corporation proprietaria, dotata di una forza economica e politica oggi ben più forte di quella di uno Stato, sempre meno proprietario e quindi sempre meno sovrano (mancandogli i mezzi economici per l'esercizio della sovranità stessa).

L'accumulo illimitato di risorse

La proprietà privata, con il suo contenuto di potere illimitato sui fattori di produzione (e quindi anche sul lavoro) è tornata ad essere la struttura fondamentale ed indiscutibile di un modello capitalistico sempre meno sociale e sempre più fondato sulla «scienza dello sfruttamento».

Vale la pena di interrogarsi su questa vicenda e sulle ragioni della paralisi di una discussione politico-culturale che aveva conosciuto punte di eccellenza a livello internazionale, anche per riaprire, in una nuova stagione di emergenza globale senza precedenti, la questione della legittimità della proprietà privata e dell'accumulo indiscriminato di risorse che essa consente. In sintesi: è giusto e legittimo che di fronte all'esaurirsi delle risorse energetiche (e dei costi umani del loro accaparramento) e all'emergenza ambientale, una minoranza possa disporre senza limiti di beni quali aerei, auto di lusso, yachts grandi quanto traghetti, godendo della protezione ideologica della proprietà privata e della crociata contro il comunitarismo? È possibile che un istituto giuridico quale la proprietà privata non debba portare alcuna responsabilità di una situazione globale in cui un miliardo di umani non lascia quasi nulla agli altri sei miliardi, con conseguente tragico destino per tutti? Non è proprio questo l'istituto giuridico che ha appiattito, dietro una forma comune (sono entrambi proprietari!), la situazione del piccolo-borghese e quella della grande corporation che controlla più risorse dello stesso Stato? E ancora: non è proprio il matrimonio di interesse fra la retorica della libertà proprietaria e la logica del profitto trimestrale della corporation ad aver eclissato qualsiasi capacità di programmazione di lungo periodo nell'attuale fase del capitalismo globale?

Sono domande che cominciano a riemergere nel dibattito critico più avvertito e che mettono sempre più vistosamente in crisi l'idea per cui la democrazia (politica) possa aver senso al di fuori dell'uguaglianza (economica).

L'articolo successivo è uscito sul manifesto il 28 dicembre 2007. In eddyburg è qui

Scaffali. Il terribile diritto

Un testo classico sul tema della proprietà privata all'interno della riflessione giuridica italiano resta la raccolta di Stefano Rodotà «Il terribile diritto» (il Mulino). Per gli successivi sviluppi, si vedano «La proprietà» di Antonio Gambar (Giuffrè) e «Il diritto di proprietà» di Ugo Mattei (Utet). Per una ricostruzione del clima culturale dell' ultimo periodo delle riforme progressiste, si veda il volume collettivo «Gli anni Settanta del diritto privato» curato da Luca Nivarra (Giuffrè). Un classico sulla questione della proprietà collettiva è il volume «Un altro modo di possedere» di Paolo Grossi (Giuffrè). Per qualche importante dato su alcune trasformazioni del contesto economico, va segnalato il volume di Gianmaria Gros Pietro, Edoardo Reviglio e Alfio Torrisi «Assetti proprietari e mercati finanziari europei» (Il Mulino). I riferimenti classici nella tradizione giuridico-politica sono P. J. Proudhon «Che cos'è la proprietà» (Zero in Condotta), nonché «Le origini della famiglia, della proprietà e dello stato» di Friedrich Engels (Editori Riuniti).

Nota - La questione della proprietà, dei suoi limiti e dei suoi attributi è sempre stata centrale per il destino della città, e presente nel dibattito urbanistico nei suoi momenti migliori. Si veda in proposito, oltre ai testi suggeriti dallo "Scaffale" del manifesto , il libro di Hans Bernoulli, La città e il suolo urbano , si cui in eddyburg trovate anche la prefazione all'edizione italiana integrale (2006).

L'icona nella Homepage è la locanbdina del film The Corporation, di Mark Achbar, Jennifer Abbott e Joel Bakan

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