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Le persone e gli esuberi
Ho letto mercoledì su «l’Unità», in un editoriale di un economista che stimo, Paolo Leon, che gli «esuberi» (questa è la parola usata) alla Olivetti italiana sono quattromila. Gli esuberi: cioè quelli o quelle che all’Olivetti dovranno lasciare il lavoro. Gli esuberi: cioè le quantità esuberanti. Quelli che devono lasciare il lavoro sono una quantità esuberante. A conoscerli direttamente quelli che devono lasciare il lavoro sono – a seconda dei casi – biondi o bruni, irosi o calmi, alti, bassi. Si chiamano Giulio, Antonio, Luisa, Marco. Giovanna. Un giorno, un mattino, improvvisamente, essi diventano degli «esuberi».
Questi Giulio, Luisa, Marco sono non soltanto alti, o biondi o bruni: sono anche una determinata capacità lavorativa, e – alla Olivetti – un sapere molto qualificato: un sapere umano, fatto di mente, occhio, mano, tecnica, memoria, emozione, volontà. Un mattino si svegliano e si trovano quantità. Il loro essere bruni o biondi, il loro sapere – pure così moderno – si dissolvono. L’azienda non sa più che farsene. L’Ingegnere dice: non dipende da me. Essi sono un «esubero». La sorte che tocca a Giulio, Antonio, Luisa sta fuori di loro stessi: li trascende. Altri dicono invece: c’è stato nell’azienda uno sbaglio di strategia. Se è così, uno sbaglio di strategia dell’azienda porta esseri umani ad alta qualifica lavorativa a diventare degli esuberi. Altri invece dice che la causa è il «mercato». Se è cosi, la fonte che rende esuberi è ancora più lontana, spostata fuori, indifferente alla sorte di Giulio, Luisa, Antonio. E Giulio, Luisa, Antonio non hanno nemmeno la possibilità di prendersela con qualcuno, perché gli rispondono: è la congiuntura, o – come diceva l’articolo de «l’Unità» – la fase di recessione.
Si potrebbe dire che Giulio, Luisa. Antonio, di fronte alla congiuntura e all’azienda dell’Ingegnere, diventano «cosa». Qualcuno, esterno a loro, li riduce a «cosa». Oppure è come se venisse una pioggia, o un temporale che si è accumulato. Ma la pioggia e i temporali oggi i meteorologi sanno prevederli. Era prevedibile il temporale alla Olivetti? Forse sì. Allora, in questo caso, ricorriamo a un’altra immagine: potrebbe esserci stato un sisma di non si sa quanti gradi. In ogni caso: una irruzione esterna a Giulio, Luisa, Antonio, che li riduce a «cosa». Attenti però. Ci assicurano che gli esuberi non si troveranno senza un soldo. Ci sarà, pare, forse il prepensionamento. E lasciamo da parte da dove verranno i soldi per prepensionare.
Gli esuberi potranno quindi tornare a casa: riposare, portare a spasso i nipotini. O anche lavorare altrove o per proprio conto, con quella abilità del tecnico, dell’impiegato, dell’operaio qualificato che io non ho. E quindi anche, forse, guadagnare qualche quattrino in aggiunta alla pensione. Che si vuole di più? Perché allora – come sembra – alcuni di questi tecnici od operai sono in collera? Perché si sono sentiti, appunto, bruscamente, violentemente, «esuberi»; perché non hanno scelto loro di andare a casa. Altri ha detto: non servite più; siete esuberi. Cioè: cosa, quantità, numeri.
Non è così semplice apprendere da un giorno all’altro che uno è cosa, quantità, numero. Al mattino, gli uomini quando si fanno la barba, si guardano allo specchio. Cercano di scrutare il proprio viso. È una storia curiosa questa di farsi la barba: uno guarda la sua faccia. Io mi faccio male la barba: quasi tutte le volte. Mi restano sempre dei peli non rasati, perché mi distraggo a guardare nello specchio me stesso, domandandomi: che razza di tipo sono? Temo che alcuni di quei prepensionati – almeno per un po’ di tempo – si faranno male la barba. Essi, che si sono sentiti esuberi, si guarderanno negli occhi; e quindi alcuni peli, distrattamente, non verranno rasati. Quello che provano le donne diventando esuberi, e non facendosi la barba, lo possono raccontare solo loro. Ma alcuni pensieri – proprio di loro: donne che tornano a casa – qualcuno può anche immaginarli.
Io potrei invece raccontare delle testimonianze di «cassintegrati » FIAT degli anni Ottanta, che ho letto e che ho presentato in un libro. Il fatto che più colpiva, leggendo quelle testimonianze, era il tentativo angoscioso di restare aggrappati alla fabbrica. Eppure la FIAT non è dolce. Era per bisogno di lavoro? Sì. Ma mi sembra non solo per bisogno di pane: anche – e parecchio – per sentirsi parte di un fare e un sapere collettivo. Anche dopo, essendo in CIG (Cassa integrazione guadagni), volevano restare insieme. Sembravano avere una paura folle, proprio folle, di disperdersi: più esattamente di frantumarsi.
Esuberi. CIG. Che strano vocabolario. Non già Giulio, Antonio, Luisa, Laura: esuberi, CIG. Un mio amico poeta, Cesare Viviani, ha scritto un bellissimo libro di poesie, che ha un titolo significativo: Preghiera del nome. Perché, di fronte agli «esuberi», non dovrei sentirmi comunista? Io speriamo che me la cavo, come diceva quel bambino napoletano, nel libro di Dall’Orta. Ma non posso lamentarmi. Io posso firmare questo articolo col mio nome.