N el 1999 proposi a Eric Hobsbawm, l'inventore del «secolo breve», un'intervista sul nuovo secolo che stava per cominciare. Il mio era un tipico giochetto giornalistico: chiedere a uno storico una previsione sul futuro basata su un'analisi del passato. Poiché a Eric piaceva giocare, accettò.
Ne nacque una conversazione di cui l'editore Laterza vendette i diritti in tutto il mondo (in Inghilterra, Usa, Germania, Francia, in lingua spagnola e portoghese, giapponese, turco, romeno… In alcuni Paesi ci furono addirittura delle aste per aggiudicarsi il libro).
A testimonianza della fama planetaria che circondava uno storicoglobal, come si direbbe oggi: per niente eurocentrico, sempre perfettamente a conoscenza degli eventi nei più sperduti posti del mondo, e soprattutto in grado di cogliere i nessi, anche i più singolari, «ciò che legava la nascita del rock and roll, il disfacimento del matrimonio, la bancarotta dell'avanguardia artistica, il declino dell'etica puritana del lavoro o quello del regime parlamentare». Diciamo che era uno al quale non sarebbe sfuggito un battito d'ali di farfalla in Brasile capace di produrre un tornado in Texas.
L'intervista si svolse nell'arco di una decina di giorni, in unafull immersionnella sua casa londinese ai margini del parco di Hampstead Heath. Dalla mattina alle 9 alla sera alle 5,nine to five, ascoltando musica jazz (di cui era recensore professionale) e Bbc Four, facendoci il caffè e i panini da soli. Questo incontro ravvicinato con Eric, fisicamente la più perfetta descrizione dell'aggettivo allampanato che io conosca, fu un'occasione per studiare un personaggio vissuto anche più a lungo del suo secolo breve (era nato nell'anno della Rivoluzione bolscevica) e che in qualche modo ne aveva incarnato ilGeist. Il prodotto era un uomo straordinario e complesso quanto la sua era.
Intanto era difficile definirne l'identità. Si trattava di un ebreo, che la famiglia aveva allontanato con lungimiranza da Vienna e da Berlino per spedirlo lontano dalle camicie brune, cioè di un esule? O era ormai un inglese, perfettamente a proprio agio nelle sue pantofole e nella sua patria d'elezione? Oppure un apolide, come si addiceva a coloro che avevano fatto parte di un movimento di palingenesi internazionale quale era il comunismo mondiale? Oppure ancora un prototipo di europeoante litteram, come poteva far supporre la sua perfetta padronanza del francese, dell'italiano, del tedesco, e la sterminata rete di conoscenti e amici che gli telefonavano ogni giorno da tutto il continente?
Penso che la descrizione migliore di Hobsbawm non fosse nessuna di queste. Egli apparteneva in realtà a una nazionalità sconosciuta sui passaporti: era unlondoner, un cittadino di Londra, di questa specie di città-stato cresciuta lungo il Tamigi tra la City e il West End, che per secoli ha idolatrato la libertà attraendo a sé il moderno. Anzi, per essere più precisi, Hobsbawm era un cittadino di Hampstead, il villaggio collinare dove si erano concentrate alcune tra le migliori menti del Novecento, spesso in fuga dai loro Paesi. Gente strana, erudita, informale, con le case piene di libri e gli armadi pieni di vecchi maglioni con le toppe, arroccatasi intorno a un bosco, su un'altura dove per secoli mercanti, geografi, scienziati avevano scrutato il globo dalla sommità dell'impero.
Poi c'era l'altra grande domanda che la sua vita provocava: Hobsbawm era ancora, o almeno poteva ancora definirsi, un comunista? Da ragazzi lo leggevamo su «Monthly Review», era un intellettuale chiave per chi negli anni 70 coltivava l'illusione che si potesse restare comunisti in Occidente senza accettare la realtà del comunismo sovietico. Lui filosovietico di certo non era, al punto che in Urss non erano mai state tradotte le sue opere. Nel 1956 era cominciato il suo grande freddo con il Partito comunista britannico: «Dissi ai dirigenti — raccontò nella nostra intervista — che non avrei rotto i rapporti con coloro che erano stati espulsi e aggiunsi che, se a loro non stava bene, potevano cacciarmi». Non lo cacciarono, ma lui non lasciò. Cominciò allora quel limbo di ambiguità in cui tanti comunisti occidentali — italiani innanzitutto — si logorarono per decenni, cercando una via al socialismo che fosse diversa. Alla «via italiana» Hobsbawm dedicò anche un saggio, in nome di Gramsci e in ammirazione di Berlinguer, allora protagonista della effimera stagione dell'eurocomunismo.
Non volle riconoscere, nemmeno quando ne parlammo ad Hampstead alla vigilia del Capodanno 2000, che il comunismo era «il passato di un'illusione», per dirla con il titolo di un fortunato e ben più radicale libro di François Furet, che uscì quasi in contemporanea al suoThe Age of Extremes. Con quel lavoro, in italiano tradottoIl secolo breve, per la prima volta nella vita di studioso aveva finalmente scritto del comunismo: fino ad allora si era appositamente tenuto alla larga dal Novecento, diventando paradossalmente il grande storico dell'età della borghesia. Ma la sua utopia non la rinnegò mai. Fu l'orgoglio intellettuale a non permettergli abiure né allora né dopo: «Perché sono rimasto? Perché non volevo finire in compagnia di tutti quegli ex comunisti che erano diventati anticomunisti.
Per lealtà a una grande causa, a tutti coloro che per essa avevano sacrificato la propria vita, agli amici e compagni morti per quella causa, che hanno sofferto carcere e tortura, da parte dei regimi comunisti come di quelli capitalisti. Me ne pento? No. Non penso. So bene che la causa che ho abbracciato ha dimostrato di non funzionare. Forse non avrei dovuto sceglierla. Ma, d'altra parte, se gli uomini non nutrono un ideale di un mondo migliore, perdono qualcosa. Mi sembra che l'umanità non potrebbe funzionare senza le grandi speranze, le passioni assolute».
Rimase così uno storico comunista senza il comunismo. L'ultimo. Orgoglioso al limite della testardaggine, ma pronto a pagarne il prezzo. Una volta mi diede di sé, ridacchiando, una fulminante definizione che solo un inglese può apprezzare fino in fondo: «Io faccio parte della ristretta schiera dei comunisti Tory», che è un po' come dire in Italia «comunisti conservatori». Il suo quasi secolo di vita è stato molto lungo. Solo ora che se ne è andato si può davvero dire che il Novecento è finito.