L'interessante anticipazione di parte del dialogo sul tema “Democrazia e oligarchie” che si terrà lunedì 8 luglio all’Archiginnasio di Bologna (vedi in calce).
Singolare convergenza di diagnosi e terapia tra due intellettuali molto diversi, ma entrambi "radicali", che guardano cioè alla radice delle cose.
La Repubblica, 6 luglio 2013
GustavoZagrebelsky
Nell’ultima pagina dell’Intervista
sul potere,
a cura di Antonio Carioti, tu fai cenno al ritorno alla prevalenza delle oligarchie, dopo due secoli di lotte democratiche, come un problema molto grave del mondo in cui viviamo.
Mi piacerebbe partire da qui per questo nostro dialogo, di cui il tuo libro-intervista costituisce l’occasione. Anche a me sembra che questa sia la questione politica principale del nostro tempo. Qui c’è forse la chiave per comprendere l’incomprensibile, a iniziare dalla fine della politica e dal trionfo della tecnica, che nasconde alla vista il potere, le sue forme, i suoi attori. In un recente saggio apparso su
Micromega,
ho definito l’oligarchia come il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento: sempre gli stessi che si riproducono per connivenze, clientele.
Le forme della democrazia vacillano, ma non sono travolte. La sostanza, però, sta andando perduta. Questo mi pare il tempo dell’ipocrisia democratica, addirittura su scala mondiale.
Questa valutazione non nega quella che Michels definì la “legge ferrea delle oligarchie”. Non si può non convenire che gruppi dirigenti
esistono sempre e hanno un ruolo decisivo nei partiti così come negli Stati democratici di ogni tipo. Ma c’è una differenza tra
élites
aperte al ricambio e controllate da contropoteri forti come la magistratura indipendente e la libera stampa, e oligarchie chiuse.
Nell’intervista tu fai riferimento a un ritorno ai caratteri “primordiali” delle antiche oligarchie, fondate innanzitutto su ricchezza e discendenza aristocratica: in che modo si manifesta secondo te questo ritorno?
Luciano Canfora
Penso soprattutto a fenomeni macroscopici e istruttivi al tempo stesso. Facciamo un esempio. Il Presidente degli Stati Uniti viene eletto (e sia pure da una minoranza degli aventi diritto, dato l’assenteismo patologico dell’elettorato statunitense) ma le decisioni fondamentali le prendono altri: forze decisive e retrosceniche che possono in fondo infischiarsene dei riti elettorali. Ai fini dell’egemonia politico-militare è necessario un disinvolto e illegale spionaggio informatico? Il Presidente forse ne ignora persino l’esistenza, ma esso viene praticato, da chi ne ha il potere, senza scrupoli anche a costo di gravi crisi con i cosiddetti alleati europei non meno che con gli antagonisti russi o cinesi. Il Presidente predica contro il fiorente e libero commercio delle armi, i cui effetti sono atroci? Ma la potentissima lobby dei produttori di armi paralizza ogni decisione in proposito. Questa è la sostanza della macrorealtà americana, questo è, via via, il modello che si afferma per ogni dove.
Michels aveva intuito una “legge” ma la realtà da lui studiata era
piccola cosa rispetto a quella inquietante e brutale che è sotto i nostri occhi. L’analisi di Michels e dei suoi maestri elitisti si riferiva a formazioni politiche ottocentesche o protonovecentesche come i partiti politici o più in generale la classe politica. Il problema è che essa è stata soppiantata nel suo ruolo, pur restando al suo posto, da forze di ben altra dinamicità, consistenza e potenza, totalmente sottratte al “gioco” elettorale o alla “verifica”
popolare.
Sono queste le nuove oligarchie. L’imperativo del momento è riuscire a squadernarne la natura e la dominanza: prima di tentare di combatterle. Ci vorrebbe un nuovo Marx, capace di studiare il potere economico-finanziario del tempo presente e del prossimo venturo!
Purtroppo per ora ci dobbiamo accontentare dei talmudisti (invero sempre meno numerosi), protesi alla chiosa del Marx “antico”, laddove la realtà che ci sta di fronte e ci sovrasta domanda ormai di essere “disvelata” sin dalla radice. E senza la compiacente e reticente benevolenza dei “tecnici”, competenti certo, e però complici dei nuovi poteri che reggono le fila degli organismi decisivi.
Platone aveva sognato, nei libri centrali della
Repubblica,
che al vertice dello “Stato ideale” giungessero dei “filosofi-reggitori”, assurti con ascetica dedizione alla comprensione e contemplazione del sommo bene e del giusto e perciò legittimati a governare tutti gli altri. Al posto dei filosofi-reggitori, il nostro onnipotente, ricco e armatissimo «primo mondo» ha collocato i grandi conoscitori protagonisti della finanza. Essi sanno quello che vogliono, ma è
da temere che non vogliano né il sommo bene né la giustizia.
Dunque la domanda da porsi, per intanto (poiché non è possibile attendere inerti e passivamente l’avvento del nuovo “grande analista” della modernità) è la seguente:
in una situazione di questo genere quale possibilità vi è di riappropriarsi, come cittadini comuni, del potere di poter contare?
Gustavo Zagrebelsky
Parli di “forze retrosceniche”. Sono sempre esistite. Che la politica “sulla scena” delle istituzioni sia una messinscena per distogliere gli occhi del pubblico dalla realtà del potere (che “sta nel nucleo più profondo del segreto”, ha scritto Elias Canetti) è un’idea realistica. Un tempo, il retroscena era visto come il luogo dell’oscurità, degli intrighi, dei complotti, delle cose indicibili: tutte cose negative,
da combattere in pubblico, attraverso istituzioni veritiere. Pensiamo, per esempio, alla 'glasnost’ di Gorbacëv che, per un certo periodo, ha coltivato quest’idea. Oggi? Oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo. Le conseguenze sulla vita delle persone sono evidentissime, la matrice anche: il predominio dell’economia sregolata e manovrata dalla finanza speculativa. Ma è una matrice incorporea che, per ora, sembra inafferrabile, non stanabile “sollevando un velo”.
Constatiamo il declino della politica, fino alla pantomima dei suoi riti: personaggi inconsistenti, che talora si presentano come “tecnici”, rivelandosi così esecutori di volontà altrui; “posti” come posta d’una lotta che, usurpando la parola, continua a chiamarsi politica; nessun progetto dotato d’autonomia; parole d’ordine
tanto astratte quanto imperiose: lo chiedono “i mercati”, la “Europa”, lo “sviluppo”, la “concorrenza”. Questo degrado, che si manifesta macroscopicamente come immobilismo e consociativismo, è la conseguenza di quello che è oggi il vero “nucleo del potere”. Per poter essere contrastato con i mezzi della democrazia, deve essere innanzitutto compreso, senza fermarsi solo a deplorarne le conseguenze, scambiandole con le cause.
Tu poni la domanda cruciale: che fare affinché ci si possa riappropriare di almeno un poco dell’espropriata nostra capacità politica?
Noi apparteniamo alla cerchia di chi esercita una professione intellettuale. Il nostro compito primario (non voglio dire esclusivo) è cercare di capire, non di cambiare il mondo. Sarà pur vero, come tu dici, che non sono alle viste nuovi Marx o Tocqueville. Ma il nostro compito, nel piccolissimo che è alla nostra portata, è di questa natura. Il che significa innanzitutto rifiutare il ruolo di consulenti che con tanta abbondanza questo sistema di sterilizzazione della politica offre a chi ci sta. Sarebbe
già una bella rivoluzione.
Lunedì 8, ore 20.00, all'Archiginnasio, BolognaDEMOCRAZIA E OLIGARCHIE. Luciano Canfora dialoga con Gustavo Zagrebelsky. Coordina Giuseppe Laterza. Luciano Canfora è autore di Intervista sul potere (Laterza), curato da Antonio Carioti; Gustavo Zagrebelsky ha pubblicato con Ezio Mauro di La felicità della democrazia. Un dialogo (Laterza).