Il problema sociale dell’emergenza abitativa, pur reale e gravissimo, viene oggi utilizzato strumentalmente per portare a compimento lo smantellamento di quel poco di ruolo di indirizzo pubblico nella costruzione di un assetto sostenibile della città e del territorio sopravvissuto al trentennio di deregulation avviatosi nel 1977 con l’introduzione degli Accordi di Programma e coronatosi con l’art. 16 della L. n. 179/92 sui Programmi Integrati di intervento e con la loro dilagante diffusione nell’ultimo quindicennio.
Le vicende del Piano Nazionale di Edilizia Abitativa e l’uso che ne prospetta il Comune di Roma per mettere immediatamente in discussione un Piano Regolatore pur di per sé discutibile, ma comunque di recentissima approvazione, sono quanto mai istruttivi a proposito degli effetti di una governabilità senza progetto strategico.
Ma la strada era già stata aperta lo scorso anno con una legge della Regione Lombardia che consente ai Comuni di offrire ai privati la realizzazione di edilizia sociale convenzionata per un decennio su aree già destinate a servizi pubblici ancora inattuate.
Il principio sarebbe quello di considerare l’edilizia residenziale sociale al pari di servizi pubblici, consentendone l’attuazione ai privati per un periodo determinato, dopo di che quell’edilizia tornerebbe ad uso interamente privato.
E’ chiaro che in questo modo si incrementa il peso insediativo del fabbisogno di edilizia sociale (che dopo un certo periodo si riproporrebbe non essendo il vincolo permanente), anziché sottrarlo dalla quota di edificabilità totale sostenibile e si decurta la quantità di aree a servizi pubblici che la legislazione regionale dal 1975 ad oggi aveva consolidato attorno al parametro di 24-28 mq/abitante.
Vorrei ricordare che è stato il dilagare dell’urbanistica contrattata attraverso i Programmi Integrati di Intervento e gli Accordi di Programma per eventi eccezionali ormai divenuti ripetitivi (Colombiadi, Giubileo, Mondiali di calcio, Olimpiadi, ecc.; quella che Francesco Indovina ha icasticamente denominato “la città occasionale”) ad aver fatto sì che si potesse di fatto aggirare l’obbligo - tuttora vigente - di destinare dal 40 al 70 per cento del fabbisogno abitativo decennale ad edilizia economico popolare senza nemmeno sentire il bisogno di abrogare le leggi 167/62 e 865/71 che istituivano quell’obbligo.
E la sinistra ha talmente cancellato il senso di quell’esperienza del centro-sinistra storico, in cui si legava l’edilizia abitativa sociale ad una quota dell’edificabilità complessiva ammessa dagli strumenti urbanistici, da portarla nell’ultima campagna elettorale a rispolverare il populismo demagogico del Piano Fanfani-INA Casa degli Anni Cinquanta (non tanto dissimile dai mirabolanti orizzonti dell’housing sociale che ci vengono ammanniti oggi dai cantori del neo-liberismo urbanistico), come ultimo intervento in materia da prendere ad esempio !
A Milano, la vicenda di Expò 2015 vede Fondazione Fiera, egemonizzata da Comunione e Liberazione/Compagnia delle Opere grazie alle nomine formigoniane, offrire all’evento (che durerà un semestre) un patrimonio di 1 milione di mq di aree agricole acquisite in fregio al Nuovo Polo Fieristico di Rho-Pero, purché dal 2016 siano rese edificabili.
Quella di Fondazione Fiera non è un’operazione di pura valorizzazione immobiliare: questo va bene quando il Comune tratta con Ligresti o Cabassi sull’uso delle ultime aree agricole milanesi da questi egemonizzate o con Ferrovie dello Stato sull’uso edificatorio del milione e mezzo di metri quadri di scali ferroviari in dismissione. Lì di edilizia popolare non si parla proprio. Lì si tratta, semmai, di indurre Ferrovie dello Stato a comportarsi da coerente immobiliarista, anziché da erogatore del servizio ferroviario regionale, chiedendogli di reinvestire i proventi immobiliari a sostegno infrastrutturale (Secondo Passante Ferroviario) della densificazione edilizia nel capoluogo anziché sulla Gronda ferroviaria Novara-Malpensa-Orio al Serio o sul collegamento ferroviario di Milano al progetto elvetico TransAlp che convoglia le merci su ferro.
CL coi suoi rappresentanti in Regione, in Comune di Milano, in Fondazione Fiera ha, invece, un obiettivo ben più ambizioso di egemonia nel campo dell’housing sociale con le Cooperative di Compagnia delle Opere, cui bisognerà presentarsi genuflessi se a Milano si vorrà accedere a case a costo mediamente accessibile. Non è un caso che in Fondazione Fiera siano stati amabilmente cooptati alcuni rappresentati di CoopLombardia (Gianni Beghetto) e che fra i più strenui difensori del ruolo di Consorte nella vicenda Unipol/Banca di Lodi siano scesi in campo con ferventi articoli di stampa esponenti CL storici quali Cesana e Amicone o acquisiti dal migliorismo comunista milanese quali Ferlini e Scalpelli. Il piatto è così ricco che ci saranno contentini anche per chi si acconcia a riconoscere a CL il ruolo di maestro delle danze.
Ora, vi è un punto che vorrei sollevare. Ed è che sia nel caso delle aree per Expò 2015 che in quelle dell’Agro Romano non c’è emergenza occasionale o sociale abitativa che tenga per evitare che i Piani di intervento relativi debbano essere sottoposti per normativa europea a Valutazione Ambientale Strategica (VAS), che tra le proprie procedure ha quella di verificare di aver esperito ogni possibile soluzione per limitare il consumo di territorio, utilizzando ad esempio aree dismesse da usi edificatori pregressi. E sarà bene che qualcuno ricordi a Lor Signori che in carenza di ciò si può far ricorso alla tutela giurisdizionale dei TAR e della Corte di Giustizia Europea.
Vi è un altro aspetto che vorrei sollevare, ed è che l’asserita necessità di contrattare coi privati dove realizzare l’edilizia sociale anche in deroga ai PRG sarebbe resa inevitabile dalla carenza di risorse pubbliche. Io dico che in realtà vi è una risorsa pubblica che i Comuni colpevolmente disperdono, ed è il contributo commisurato al costo di costruzione, introdotto dalla L. 10/77 (oggi agli artt. 16-19 del DPR n. 380/2001- TU Edilizia), che ammonta mediamente al 4-6% del costo corrente di costruzione dell’edilizia residenzale e al 10% del costo reale dell’edilizia direzionale e commerciale.
La L. 10/77 prevedeva che tale contributo non fosse pagato da chi convenzionava i prezzi di affitto e vendita dell’edilizia residenziale (cosa che i privati si sono ben guardati dal fare) e che se pagato dovesse prioritariamente essere destinato al risanamento del patrimonio edilizio esistente e degradato e solo in subordine alla realizzazione di ulteriori opere di urbanizzazione. I Comuni in realtà, a loro volta, ben volentieri lo hanno incassato e tuttora incassano destinandolo – come ormai gran parte degli oneri urbanizzativi, dopo il trattamento che la Legge ha subìto nella conversione in TU dal duo Bassanini/Tremonti con la illegittima scomparsa del suo art. 12 che obbligava le Tesorerie a versarli in un conto vincolato – a spese correnti di bilancio.
Insomma, il patrimonio legislativo lasciatoci in eredità dal centro-sinistra storico degli Anni Sessanta-Settanta ci aveva consegnato un meccanismo che legava l’intervento sociale in campo abitativo alle previsioni insediative pubblicamente determinate e alle risorse economiche che esse generano. Ce lo siamo di fatto lasciato smontare pezzo a pezzo senza che neanche fosse ufficialmente abolito (le leggi che ho citato sono tuttora in vigore !), e ora ci sorprendiamo che la pressione dell’irrisolta e a lungo trascurata emergenza sociale abitativa ci venga rivolta contro per scardinare ulteriormente il controllo pubblico del territorio, in nome di un neo-liberismo che pretende di curare i difetti di regole il cui difetto è stato di non essere state più o mai adeguatamente applicate !
Di fatto stiamo tornando al periodo delle convenzioni senza Piano Regolatore complessivo che caratterizzò in modo caotico lo sviluppo urbano degli Anni Cinquanta e Sessanta e si concluse con l’evento simbolico della frana di Agrigento del 1966 e l’approvazione l’anno successivo della Legge Ponte che subordinava ogni accordo coi privati ai limiti localizzativi e quantitativi predefiniti dai Piani Regolatori.
Vi è solo da sperare che non occorra attendere una nuova frana di Agrigento (magari questa volta non più edilizia, ma ecologico-ambientale e socio-economica) per renderci conto della strada su cui siamo tornati a metterci.
Non dovrebbe, quindi, sorprendere che, in questa legislatura, a promuovere l’evoluzione dell’urbanistica in economistica - nello spirito dell’invincibile attrazione fatale tra i deputati milanesi Lupi (CL/PdL) e Mantini (PD) già estensori nelle scorse legislature di inusitate proposte bipartisan di legislazione sul territorio che smantellavano completamente quell’eredità e nuovamente eletti in Parlamento in schieramenti dai programmi politici virtualmente alternativi su tutto eccetto le regole istituzionali -, ancor più che la riproposizione convergente dei loro nuovi recenti ddl sul governo del territorio, sia il Documento Economico Programmatico Finanziario di Tremonti, approvato dal Governo per decreto-legge nel giugno scorso e i cui effetti perversi sulla questione urbanistica e abitativa abbiamo discusso stamane.
Non si tratta, tuttavia, solo di singoli episodi degenerativi: i Comuni, quasi senza più differenza tra amministrazioni di destra o di sinistra e sempre più diffusamente di fronte alle ristrettezze di bilancio, sembrano ritenere di poter ricorrere “ad libitum” alla modifica dei PRG tramite lo strumento dei PII, degli Accordi di Programma, a patto di dimostrare che una quota stabilita discrezionalmente del vantaggio economico che ne deriva al privato venga devoluta loro e che dell’utilizzo di tale quota possano poi disporre a piacimento. Il territorio è visto un supporto “corvéable à merci” rispetto alle esigenze di valorizzazione economica richieste dal mercato, visto che le ricadute negative si vengono a manifestare molto più in là nel tempo rispetto a quelli della congiuntura economica e delle scadenze politico-amministrative.
Ad esempio, i Comuni di Milano e di Sesto S.G., pur con maggioranze amministrative alternative, competono allegramente tra loro nel proporre previsioni edificatorie di 1 mq/mq di indice territoriale, con il quale è impossibile non solo attuare i 26,5 mq/abitante di spazi pubblici della gloriosa Legge Regionale del 1975 (la prima ad essere approvata dopo l’avvento delle Regioni nel 1970; tutte le altre, poi, si sono attestate su standards pubblici tra i 24 e i 28 mq/ab.), ma quasi neppure i 18 mq/abitante del DM del 1968; e, comunque, i 17,5 mq/abitante di servizi pubblici generali dei PRG si attuerebbero così a carico dei cittadini, tramite l’aumento del carico edificatorio, anziché dei promotori fondiario-immobiliari, come voleva la Legge Ponte del 1967.
Ma c’è ancora qualcuno che voglia davvero dar seguito coerente alle parole d’ordine di “città e territorio come beni comuni”, risorsa strategica da sottrarre, quindi, alla dominanza univoca del mercato ?
Il testo riproduce sostanzialmente l’intervento svolto dall’autore al convegno promosso dall'associazione Asset, che si è tenuto il 12 novembre 2008 alla Sala delle Colonne della Camera dei Deputati col titolo "Case senza gente, gente senza case".