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Duccio Canestrini
Le nuove frontiere della sicurezza
15 Agosto 2009
Capitalismo oggi
Riflessioni di un antropologo sul "turismo blindato". Da Yourself, Rivista mensile di psicologia, maggio 2004 (g.p.)

Sul sito internet del Dipartimento di Stato americano, in un documento intitolato A safe trip abroad, un viaggio sicuro all’estero, si legge una curiosa raccomandazione: non accettate cibo né bevande da stranieri. Nella sua semplicità, questo consiglio cancella millenarie tradizioni di ospitalità: è davvero possibile viaggiare senza accettare cibo da sconosciuti? Dunque in futuro viaggeremo con la valigia piena di cibo in scatola, autosufficienti come extraterrestri in missione spaziale?

Inutile negarlo: la paura di malattie, attentati e spiacevoli imprevisti ci ha fatto passare un po’ la voglia di compiere lunghi viaggi. Eppure - detto brutalmente - rinunciare a viaggiare per paura di morire è assurdo, visto che la grande maggioranza delle persone muore nel proprio letto. Combattuti da neofilia e neofobia, tra desiderio di novità e voglia di familiarità, quando ci avventuriamo “altrove” ci sentiamo comunque insicuri, precari, poco garantiti.

Viaggiare ha sempre comportato relative quantità di azzardo. Il rischio è sempre stato insito nel mettersi in cammino. Anche etimologicamente, chi dice travel dice travaglio. E non meraviglia che i verbi inglesi to fare, viaggiare, e to fear, temere, discendano da una radice comune. Nel 1865, l’agente di borsa inglese William Moens viene rapito dagli “indigeni” salernitani sulla via di Paestum. Già a quell’epoca le attrazioni turistiche – ritenute obiettivi a rischio – erano presidiate dai militari. Ma i carabinieri schierati a guardia delle antiche rovine per proteggere i visitatori stranieri, in questo caso vengono beffati dai briganti, i quali dopo qualche mese ottengono dalla moglie di William Moens un consistente riscatto. Per inciso, Moens svilupperà quella sindrome, detta poi di Stoccolma, che lega affettivamente il sequestrato ai suoi sequestratori, al punto che al momento della sua liberazione scorrono le lacrime, da entrambe le parti.

Negli ultimi decenni uno stillicidio di aggressioni a turisti di diverse nazionalità ha funestato meravigliose destinazioni turistiche. I target sono stati scelti con cura: hotel, musei, siti archeologici, aeroporti, battelli da crociera. Le reazioni non sono mancate. Il primo industriale del turismo armato, o se vogliamo del turismo sicuro fai-da-te, è giapponese. Ai connazionali in partenza per l’estero, Katsuichiro Sato offre una linea di prodotti che costituisce una sorta di survival kit turistico: giubbotti antiproiettile, lanciarazzi fumogeni, tagliole da camera d’albergo, spray al peperoncino e cinture anti-stupro, sul modello di quelle di castità.

I controlli, le perquisizioni e in generale la security sono stati potenziati in tutto il mondo. Portare a casa la pelle è giustamente la priorità di ogni viaggiatore, e siamo grati a chi ce lo consente. Anche se è evidente che più ci si blinda, più ci si sente minacciati, e viceversa. Socializzare la paura è confortante. Purtroppo questa socializzazione è spesso accompagnata da un indebolimento dello spirito critico. In cambio dell’illusione della sicurezza, perché di un’illusione si tratta, siamo disposti a cedere sul piano della riservatezza e della libertà di movimento. Giungendo ad accettare perfino gli abusi. A questo proposito l’organizzazione londinese Privacy International ha lanciato un’ironica competizione a premi per la misura di sicurezza più stupida (Stupid Security Competition). Il concorso si basa sulle segnalazioni arrivate sia dal settore pubblico, sia da quello privato: circa cinquemila all’anno, provenienti da 35 nazioni. Si va dall’Australia alla Russia, ma la maggioranza delle segnalazioni riguarda gli Stati Uniti e non a caso le più numerose giungono dagli aeroporti. In questi non-luoghi ormai si assiste a scene grottesche. All’aeroporto internazionale di Philadelphia (tra i “premiati” nell’ultima edizione del concorso di Privacy International) l’acqua di Cologna di un giovane arabo saudita, scambiata per un pericoloso agente di contaminazione chimica, ha allarmato l’FBI al punto da allestire una camera di quarantena d’emergenza. Mentre all’aeroporto JFK di New York, una giovane mamma americana, in viaggio con il suo bebè, è stata costretta dalla security a bere il suo stesso latte, contenuto nei biberon che trasportava con il bagaglio a mano, poiché il liquido suscitava sospetti.

Esistono studi scientifici sulla accettazione delle misure di controllo da parte degli utenti. Se n’è parlato per esempio al BioSecurity Summit di Las Vegas, dove il “benessere” provocato dalle misure di sicurezza sui mezzi di trasporto e nei luoghi di transito - misure sempre più fantascientifiche - è stato paragonato all’effetto placebo di certi farmaci. In molti casi, infatti, non si tratta di provvedimenti realmente efficaci, ma solo rassicuranti. Nella prevenzione del rischio di attentati, per esempio, i limiti etici, gli errori e gli enormi costi dell’identificazione individuale sono temi controversi.

Dal punto di vista antropologico, l’insicurezza del turista, come quella dei prodi viaggiatori del passato, è l’atavico terrore nei confronti della diversità. Ma è anche l’insicurezza della nostra civiltà, al contempo innocente e prevaricatrice, che, da opulenti e un po’ svagati turisti occidentali, rappresentiamo giocosamente. In un mondo che non se la passa troppo bene. Oltre gli orizzonti della nostra civiltà, e fuori dalle nostre regole, chi ci sta? Sunt leones, rispondevano i latini. Che avevano ben definito il significato di questa parola: non solo leoni, ma anche mostri, barbari e spaventatori di viaggiatori. Ma attenzione. I leones hanno abbandonato le loro plaghe esotiche e oggigiorno si aggirano anche tra di noi. O, perlomeno, così sembra. Converrà dunque vivere in allarme, precauzionalmente. Tutti belli spaventati.

A ben vedere, non è soltanto quando siamo in viaggio che cerchiamo sicurezza. Dal punto di vista psicologico, infatti, è facile accorgersi quanto il bisogno, se non la retorica della sicurezza dilaghino ben oltre la vacanza e l’attività turistica. Le nostre abitudini e persino il nostro linguaggio tradiscono un’ansia di sicurezza e di certezze, di cui spesso non siamo neppure consapevoli. Si va dall’ambito delle assicurazioni a quello dell’informatica, dalle automobili ai trattamenti economici previdenziali, dalla sanità all’alimentazione, ai rapporti affettivi e sessuali.

L’ossessione per la sicurezza, a casa e in viaggio, oltre che costarci cara, sta mangiando una bella fetta di piacere e di semplicità nel fare le cose. Mi chiedo: non staremo esagerando?

Ho l’impressione che il mondo delle garanzie, delle vaccinazioni, delle omologazioni, delle standardizzazioni, delle certificazioni, questo mondo ben temperato e fiscalizzato, abbia sconfinato. I suoi criteri, ormai sdoganati da ogni parte politica, hanno invaso la nostra vita quotidiana. In breve, sembriamo davvero appartenere a quella che lo psicoanalista americano James Hillman ha chiamato la “civiltà dell’airbag”. Dove il feticismo delle assicurazioni e della security ci solleva dal ragionare in maniera responsabile sulla correttezza del nostro modo di capire la realtà e sulla necessità dei nostri comportamenti. La cosa più importante, ci dicono, è non andare a sbattere. E ognuno provveda come meglio può. Va da sé che le certezze, come gli airbag e le porte blindate, abbiano un certo costo. Altissimo, quello della abolizione del “sale” del viaggio (e della vita). L’imprevisto.

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