La terra trema, 20 luglio 2018. Le riflessioni di un pescatore-urbanista a proposito delle nefaste conseguenze dell'attuale modello di sviluppo, predatorio e estrattivista, sul Mediterraneo.
Il Mediterraneo odierno è un mare geologicamente molto giovane, figlio della “crisi di salinità” del Messiniano, quando si chiuse il collegamento con l’Atlantico tramite lo Stretto di Gibilterra, che si riaprì definitivamente cinque milioni di anni fa a seguito di eventi sismici. Esso bagna ventitrè Stati con circa 450 milioni di abitanti.
Il significato etimologico del nome deriva dalla parola latina Mediterraneus, che significa in mezzo alle terre.
L’antichità del Mediterraneo è datata seimila anni, quando nei territori costieri si diffusero agricoltura e allevamento e cominciarono a fiorire le prime civiltà. Da quella Cretese Minoica ai Fenici fondatori di Cartagine. Dai Greci, con le loro propaggini siciliane e nel Sud Italia (la Magna Grecia), all’Impero Romano e poi Bisanzio sede di intensi scambi commerciali con l’oriente. Dagli Arabi musulmani che raggiunsero le coste spagnole alle Repubbliche marinare italiane di Venezia, Pisa, Amalfi e Genova che rinvigorirono la presenza cristiana nel vicino Oriente fino al XII secolo. E poi ancora, gli Aragonesi, i Turchi Ottomani e il declino derivante dalla scoperta dell’America e dalla perdita di peso da parte sia di Venezia che della Spagna a scapito, sempre in oriente, degli Ottomani. La Sicilia in oltre seimila anni ha avuto oltre quindici dominazioni e il mare Mediterraneo era l’autostrada su cui viaggiavano, si scontravano e poi si incontravano popoli, culture, storie, economie, abitudini alimentari ed alimenti stessi, dapprima diversi, poi patrimonio comune e di interscambio.
Nel lungo periodo del Medioevo, per più di mille anni, il Mediterraneo, luogo di conflitti ma anche di scambi e di incontro è stato sede del fiorire della lingua Sabir, altrimenti detta lingua franca-mediterranea, un peculiare linguaggio parlato in tutti i porti del Mediterraneo, un misto di italiano, francese, spagnolo ed arabo diventato indispensabile per chi lavorava sul mare o con il mare, che fossero pescatori o naviganti, commercianti o soldati. E nel 1830 viene pubblicato un dizionario di questa lingua del mare.
Da noi, in tempi recenti e contemporanei, i pescatori del Golfo vivevano e vivono in maggioranza nei borghi marinari delle lave etnee: Ognina, Acitrezza, Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo, Riposto. Gli altri, i rimanenti, erano e sono gli abitanti della Civita e della Sciara, i due quartieri catanesi che cingendolo come una cintura custodiscono il grande porto di Catania, divisi l’uno dall’altro dalla Piscaria, il mercato storico di Catania.
Nelle marinerie del Golfo di Catania e delle Lave Etnee, le varie comunità di pescatori praticavano da sempre alcuni mestieri e si specializzavano in altri.
Ognina e Catania, nel dopoguerra, si specializzavano nella pesca con il cianciolo a lampara e mantenevano a fatica quella della menaide (per la masculina da magghia).
Acitrezza si concentrava nella pesca del pesce spada. Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo e Riposto nella pesca dell’alalunga e del pesce spada.
In tutte le marinerie il resto della piccola pesca artigianale praticava anche la pesca con il tremaglio, il palangaro, le nasse e stagionalmente con altri sistemi di pesca storicamente praticate per pescare singole specie ittiche.
La genesi dell’attuale pesca prende avvio con la fine della Seconda Guerra Mondiale quando, con l’avvento del motore diesel, si passò dalla pesca removelica e quella meccanica. Da questo processo di “industrializzazione” nasce un rapido e, successivamente, feroce sviluppo. Si passa dalla pesca del territorio costiero e dei grandi saperi marinari a quello degli orizzonti marini illimitati e del sopravvento della tecnologia sempre più invasiva ed eticamente insostenibile. Il paesaggio costiero Etneo, dagli anni Ottanta, passa da una variopinta biodiversità “marinara” e biologica ad una specializzazione sempre più monotematica del mestiere del pescatore. Dalla stagionalità polivalente del piccolo pescatore costiero a quella sempre più unica e lunga del pescatore “mediterraneo”. Dalle barche in legno di piccolo tonnellaggio, ai grandi pescherecci di venti, trenta metri, a quelli grandissimi in ferro. E i grandi e grandissimi pescherecci sono quelli che, più di tutti, hanno distrutto e stanno continuando a distruggere importanti risorse ittiche quali il pescespada, il tonno, parte del pesce azzurro (alici, sarde e sgombro) e tutte le specie ittiche demersali vittime della pesca a strascico, specie nei fondali entro i cinquanta metri ed entro le tre miglia.
I grandi predatori dei nostri mari, negli ultimi quarant’anni hanno nomi precisi: lo strascico, specie quello sottocosta come avviene nel Golfo di Catania. Questa tipologia di pesca produce oltre l’80% del pescato in rigetti a mare perché sottotaglia e invendibile; rete a ciancioli con lampare, che avviene soprattutto in autunno e inverno quando il pesce azzurro è ancora piccolo e sottotaglia; le spadare, anche se ormai sono state abolite; a reti volanti, costituite da grandi reti a strascico trainate da due pescherecci che pescano il pesce azzurro; tonnare volanti a circuizione, un tempo libere da limiti di pesca oggi con quote molto più limitate di cattura, restano in attività tredici nobili lobby, salernitane (con dieci natanti) e siciliane (con tre natanti) al servizio di multinazionali per il mercato giapponese del tonno rosso. Forse il Ministero sta pensando di aumentarle di altre quattro unità, dopo averne fatte dismettere una trentina con un bel corrispettivo economico, pagato dalla collettività, appena dieci anni fa. Cancellate, invece, le poche storiche tonnare fisse esistenti.
A tutto questo dobbiamo aggiungere un’insensata gestione delle risorse giovanili di sarde e alici, il cosiddetto “bianchetto” o “neonato”, che fino a quattro anni fa è stato permesso di pescare, sia a natanti con autorizzazione che a moltissimi non autorizzati e perciò illegali. Questa volta sono piccole imbarcazioni, anch’esse dotate di potenti ecoscandagli, tutte localizzate nella regioni costiere del Sud Italia. Quella che potremmo indicare come “la strage degli innocenti”.
Tutta questa è storia dei pregi e dei difetti della pesca catanese e siciliana, ma anche di molte altre marinerie italiane, dove spesso le stesse istituzioni locali e nazionali preposte al governo e alla sicurezza del settore, hanno strizzato l’occhio ad interessi corporativi e settoriali, mancando nel loro ruolo istituzionale super partes ed omettendo i necessari controlli dovuti.
Insomma, il modello che si è affermato e che sostanzialmente continua ad essere perpetrato è tutto improntato alla soddisfazione immediata ed egoistica del bisogno individuale e/o di piccolo gruppo con la cancellazione assoluta di una prospettiva di equa distribuzione delle risorse e a una loro gestione che guarda al mantenimento futuro della risorsa ittica. E la risorsa ittica, specie quella pelagica e migratoria è un “bene comune universale” patrimonio dell’umanità.
In tal senso sono state decisive le politiche di implementazione che i fondi, inizialmente nazionali e poi quelli europei, hanno dato al sostegno del settore, dove l’idea di uno sviluppo illimitato durerà fino alla fine degli anni Novanta. Non c’è stata la consapevolezza, spesso in malafede, che le risorse ittiche, come tutte le risorse naturali, fossero limitate e quindi suscettibili di politiche di salvaguardia. E questo non solo in alcune fasce di pescatori, ma anche e direi soprattutto nelle istituzioni di governo del settore. è mancata la volontà di gestire il settore in maniera integrata, dando gli indirizzi e le regole giuste per governare un mondo complesso quale è quello dell’interazione tra l’uomo e il mare, nel senso più ampio che questa interazione può significare.
Sembrerò un nostalgico del mondo che fu, ma l’unica via che oggi ci può fare ritornare ad una pesca compatibile e rispettosa dei cicli biologici del pesce è il modello della piccola pesca costiera che i nostri padri praticavano ancora negli anni Sessanta. Lì per millenni, attraverso la trasmissione orale e quotidiana dei saperi, attraverso l’esperienza di ogni notte e di ogni giorno, il piccolo pescatore costiero diventava architetto del mare, costruendosi un atlante della memoria diveniva al tempo stesso meteorologo, biologo, astronomo, geografo ed economo del suo stesso destino. E qui “le mani e l’acqua salata”, diventano simbolo ed emblema di un mestiere limpido, trasparente e dolcemente pesante. Ma estremamente “Bello”. Le mani sono il mezzo che guida l’azione quando si cala e si tira la rete, quando si smaglia l’alice, una ad una e poi quando si salano le stesse alici che diventano acciughe. L’acqua salata è quella che, nel freddo inverno marino, ti sbuffa in faccia dall’impatto della barca con le onde agitate e ti gela le dita quando tiri la rete e smagli il pesce. Ma le mani sono dell’uomo e l’acqua salata dell’universo mondo, in un incontro ancestrale.
E di questo mondo fu degno interprete mio padre Carmelo. A ottantasei anni, lui che da quando aveva undici anni andava per mare, diceva così: «il nostro mestiere è ancora il più bello e affascinante fra quelli che si praticano nel Golfo di Catania. Perchè è un mestiere dove veramente le nostre conoscenze, quello che abbiamo imparato e che ci hanno trasmesso le generazioni di pescatori prima di noi, restano punti di riferimento di cui non si può fare a meno. Per chi usa la menaide (piccola rete per pescare le alici, “le masculine” come le chiamiamo nel catanese – n.d.a.) sono i cicli naturali di vita del pesce, in questo caso della masculina, a guidare il tempo delle attività di pesca. E più che l’ecoscandaglio contano e bisogna conoscere i venti, le correnti marine, i diversi fondali. Per fare una grande pescata di masculina è importante sapersi regolare con l’apparizione di alcune stelle nell’orizzonte durante le notti di primavera e d’estate, interpretare i movimenti della luna, cogliere i momenti giusti all’alba o al tramonto. Tutte queste cose non s’imparano sui manuali ma ogni giorno o notte che sia, di anno in anno. Così noi, piccoli pescatori costieri, ci costruiamo un libro della memoria che poi ci serve per il lavoro quotidiano e nel corso della vita».
Gaetano, detto Tano, Urzì, pescatore da generazioni, racconta di una scelta di vita drastica e faticosa, ma colma di felice poesia in una degustazione dei prodotti della tradizione marinara, con sott’oli e salati lavorati artigianalmente.
La Cooperativa del Golfo, porta avanti una lunga tradizione marinara che si svolge prevalentemente nel Golfo di Catania che va da Capo Mulini, sotto Acireale, a Capo Santa Croce in Provincia di Siracusa, con Pescherecci operanti nel pieno rispetto delle norme di tutela ambientale e con l’obiettivo di valorizzare il pescato locale, eseguono una rigorosa selezione del pesce fresco di volta in volta disponibile nelle diverse stagioni.