In un famoso, vecchio racconto di fantascienza di Arthur C. Clarke, una razza aliena di giganti buoni, anche se dall’aspetto piuttosto sinistro, arriva sulla Terra per pilotare l’umanità fuori dall’infanzia, ovvero per uscire dal proprio localismo terrestre, guardarsi attorno e pensare a cosa fare da grande. Il titolo del racconto è Le Guide del Tramonto, e quel tramonto a ben vedere sembra più riguardare le guide che non i guidati: sono loro che a un certo punto devono farsi da parte, augurare buona fortuna, e sedersi ad aspettare la fine di qualcosa.
Farsi da parte, augurare buona fortuna, sedersi ad aspettare la fine. Niente di molto diverso ad esempio di quello che succede nelle ultime battute di un anno scolastico o accademico, o di un dibattito pubblico pensato su un modello non solo teatrale-televisivo, cioè con un ruolo centrale e protagonista del cosiddetto pubblico.
C’erano tutti questi ottimi presupposti nell’evento organizzato da Cambiamo a Pavia sul tema del Consumo di Suolo. Presupposti rispettati visto che la grande aula dell’Università era quasi del tutto piena, martedì 26 gennaio, quando verso le 21.00 sono iniziate le relazioni introduttive.
Se è consentita una piccola classificazione (discutibile, speriamo anche concretamente discussa) del tipo di interventi, del resto correttamente eterogenei come si addice a un evento del genere, si possono distinguere le relazioni “informative” da quelle a carattere più “programmatico”. Ecco, va detto che almeno da questo punto di vista dal palco si sono ascoltati in maggioranza, per una volta, discorsi a carattere prevalentemente (prevalentemente) informativo, lasciando in secondo piano (in secondo piano, non fuori dalla porta) certe sfuriate alla Savonarola che forse solleticano alcuni palati, ma alla fine risultano poco utili a raccogliere consensi veri e nuovi su temi come quelli del rapporto città campagna, degli stili di vita che fatalmente induce, e a cui siamo tutti abituati sino a non rendercene più conto.
Cosa che introduce il secondo aspetto sostanziale delle relazioni introduttive: quasi (quasi) tutte fortemente orientate alla denuncia dei misfatti dell’urbanizzazione, ma altrettanto quasi tutte piuttosto vaghe nel distinguere gli aspetti propriamente suburbani e dispersi da altre - e per nulla necessariamente patologiche - forme di trasformazione del territorio, ovvero quelle di trasformazione /riqualificazione urbana, opere puntuali varie, infrastrutture magari discutibili ma non in assoluto. Va precisato che alcuni aspetti di questa distinzione erano comunque precisamente elencati nel “manifesto” della serata, che cercava una sorta di approccio sequenziale a temi come la densità, il riuso, la tutela ecc. Curioso però come le due relazioni del sottoscritto e di Maria Cristina Gibelli, arrivati a rappresentare il sito eddyburg.it (oltre che sé stessi of course) tutte concentrate sui temi dell’urbanità, apparissero lievemente discordanti rispetto al tono. Forse è il caso di riassumerne brevemente temi e tesi.
La mia, che seguiva immediatamente quella sulla cosiddetta “decrescita felice” di Maurizio Pallante, proponeva una specie di traiettoria di collisione con quest’ultima, dai toni vagamente ruralisti ed elegiaci dell’utopia regressiva. Il tema proposto e declinato storicamente era: per tutelare la campagna bisogna promuovere (e far crescere) la città. Dalla formazione delle prime periferie industriali dopo l’obsolescenza funzionale delle fortificazioni urbane infatti, proprio la progressiva confusione ambientale e ideologica dell’urbano col rurale (il suburbano, l’esurbano, ecc.) ha favorito il degrado ambientale e sociale che oggi definiamo sprawl, ma che in fondo ha alla radice un legittima e positiva tendenza proprio al miglioramento dei rapporti diretti fra le due entità, nel segno del’equilibrio tanto ben riassunto (e poi transustanziato anche dall’ideologia) delle Tre Calamite di Howard.
La relazione di Maria Cristina Gibelli, consequenziale (concordatamente consequenziale) si soffermava poi brevemente sulle specifiche politiche attuative degli obiettivi di distinzione fra ambiti rurali e ambiti urbano-metropolitani. In primo luogo i processi governati di densificazione, riqualificazione, infill development, a costituire quartieri e settori urbani a funzioni composite in grado al tempo stesso sia di ricostruire un ambiente socialmente ricco e stimolante, siadi rispondere in modo trasversale ai bisogni contemporanei di un’elevata qualità degli spazi, privati, pubblici, aperti e verdi. Sul versante della tutela degli ambiti rurali, Cristina proponeva la variante del modello di fascia di interposizione nota come Urban Growth Boundary, che si distingue dal paradigma originario britannico di greenbelt proprio per la sua funzione specificamente orientata alla tutela di territori rurali-naturalistici, anziché di antidoto alla conurbazione di aree metropolitane.
Tutte tematiche, quelle urbano-rurali e delle relative sensibilità sociali diffuse, molto ben evidenziate dai documenti programmatici pubblicati dall’associazione Cambiamo in preparazione della serata, ma che un po’ stentavano ad emergere dall’insieme delle altre relazioni, molto focalizzate sulla denuncia del degrado territoriale in corso a causa della dispersione insediativa, ma contemporaneamente in assenza di modelli propositivi e positivi, con la lodevole eccezione di Domenico Finiguerra e dell’ormai abbastanza nota esperienza amministrativa nel segno della tutela ambientale a Cassinetta di Lugagnano. Un caso che però pare assai difficile da proporre come modello tout-court, viste le numerose particolarità (e contraddizioni) che emergono dal suo rapporto col contesto territoriale, con la società locale, coi meccanismi di consenso.
Ma come si diceva all’inizio, un buon modo di recitare il ruolo di “Guida” è quello di sapersi mettere da parte, o nel caso specifico starsene zitti ad ascoltare gli interventi della sala. Che, va detto, a parere di chi scrive sono stati la parte più interessante della serata: nessuno a denunciare nuovi scempi, raccontare drammi o additare alla pubblica indignazione alcunché. Molti invece a porre questioni in positivo, di carattere sociale, economico, territoriale: come si fa a mantenere un sistema dinamico che risponda ai bisogni nuovi e pregressi, ma al tempo stesso tutelare le preziose risorse che ci restano? Quali modelli di vita e comportamento, quali aspettative sono ragionevolmente proponibili e praticabili per produrre più città e proteggere più campagna?
Qualcuno ha storto il naso. Era venuto a predicare e fustigare costumi, non a interloquire. Ma stare nel bel mezzo di un centro storico magnifico e al tempo stesso un po’ desertificato dall’invasione della solita specializzazione funzionale (in questo caso nel suo piccolo proprio quella universitaria che ci ospitava), circondato da un territorio rurale dove anche per motivi colturali (il sistema delle risaie) abbondano nuclei di piccole dimensioni dotati (anche) di tutte le caratteristiche di compattezza proposte dalla nuova cultura del progetto urbano, ha aiutato non poco a portare qualche esempio, a interloquire come sempre con difficoltà, ma credo produttivamente.
Era piuttosto ovvio che molti fra i presenti in sala, relatori compresi, di lì a poco sarebbero usciti con poche eccezioni dalla città antica, per disperdersi verso autostrade, lottizzazioni, capannoni, villette, ecc. Gli stessi spazi che quel pomeriggio, e poi tutti i giorni successivi, avrebbero chiamato “casa”. E che è un po’ difficile solo coprire di improperi indignati, chiamarla orrenda babilonia eccetera. Meglio ragionare, e riflettere su come sistemarla, salvando il meglio e lasciando i brontoloni in un angolo. Magari poi gli passa.
Nota: presto l'Associazione Cambiamo renderà disponibile sul sito dell'Associazione Consumo di Suolo il filmato dell'intera serata - un testo che riassume in modo strutturato il mio intervento a Pavia, è disponibile su Mall col titolo "Città e Campagna. Distinguere è meglio che confondere" - per gli appassionati di coincidenze, il racconto di Arthur C. Clarke citato nel titolo è quello che rievoca anche Neil Young in "After the Gold Rush", quando in un passaggio dice "I saw the silver space-ships flyin', in the yellow haze of the Sun, there were children cryin' and colors flyin', all around the chosen ones" (f.b.)