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Stefano Miliani
Le grandi mostre fanno male ai musei
2 Ottobre 2008
Beni culturali
Nell'intervista al Direttore della National Gallery di Londra il perverso meccanismo delle mostre d'arte da strumento culturale a mezzo politico. Da l'Unità, 2 ottobre 2008 (m.p.g.)

«Chilometri e chilometri sopra le nostre teste gli aerei sfrecciano carichi di quadri di Tiziano e Poussin, Van Dyck e Goya... Gli amministratori calcolano quale sarà il probabile impatto sul deficit del bilancio annuale, rammaricandosi che la scelta non sia caduta su Monet o Van Gogh. Intanto gli editori fanno gli straordinari per far uscire in tempo i loro voluminosi cataloghi».

Con queste parole l'inglese Francis Haskell (1928-2000), indagatore della storia sociale dell'arte, docente a Oxford, introduceva nel 2000, poco prima di spegnersi, la raccolta

postuma di saggi ora tradotta in italiano (La nascita delle mostre. I dipinti degli antichi maestri e l`origine delle esposizioni d'arte, Skira editore, 222 pagine illustrate, 25

euro). Da allora la girandola europea e nordamericana di rassegne d'arte antica ha contagiato il Giappone, sta contagiando la Cina, arriverà nei paesi degli sceicchi, là dove portano soldi e

potere. Una pratica planetaria che per Haskell non significava affatto una democratizzazione della cultura. Lo prova il libro di saggi che ha sistemato, con una cura anche affettiva, Nicholas

Penny, direttore di uno dei musei più ricchi di dipinti e più visitati al mondo, la National Gallery di Londra (4 milioni 160 mila ingressi nel 2007).

Mr. Penny, nel volume Haskell scriveva che le mostre d'arte antica crescono a danno dei musei.

«Sì, e probabilmente fu il primo a capirlo. È solo negli ultimi 20-30 anni che tutti i musei hanno iniziato ad allestire mostre».

Cosa li ha scatenati? Perché?

«L'ossessione di dover fare mostre di successo. I musei sono tenuti sotto pressione dai media, dall`amministrazione locale, dal ministero, e se una rassegna riesce o meno lo si misura solo dal numero dei visitatori».

L'unico metro di giudizio, nella cultura, nei libri, nello spettacolo, sembra diventato quanta gente compra, vede, c'è. Anche i musei si sono assogettati a questo pensiero unico?

«Sì, purtroppo. A Londra il British, la National Gallery o la Tate ogni anno vogliono avere più visitatori di quello precedente. E oggi quando si pensa a una mostra su un artista non ci si chiede se è davvero valido e va fatto conoscere, bensì quanto sarà apprezzato: è paralizzante».

Ma le mostre non sono proliferate anche perché un visitatore comprende, o pensa di capire, meglio un artista o un movimento in una selezione circoscritta che in un museo dove deve spaziare nei secoli e stili restando magari disorientato?

«E' verissimo. Ma un'esposizione ti impacchetta cosa vedi, ti dice cosa dovresti vedere dandoti la sensazione di aver capito. Invece in una raccolta devi inventarti un tuo percorso, metterlo

in relazione con il resto: è un'esperienza più impegnativa eppure più libera, più autonoma».

Le esposizioni continueranno a livello esponenziale?

«Non è detto. Ora i costi sono schizzati come razzi, le spese di assicurazione sono fuori controllo, è più difficile trovare sponsor, e poi le opere non sono più così disponibili. Anni fa

la National Gallery di Londra allestì in un quinquennio seguitissime mostre su Raffaello, Tiziano, Caravaggio e Velazquez generando due effetti: il pubblico ne voleva altre analoghe, il

che era impossibile, e per avere quei maestri il museo dovette promettere molte opere in prestito negli anni. Il fenomeno è chiaro: non ricevi grandi dipinti se non presti i tuoi in cambio.

Danneggiando chi viene al museo».

Nel saggio «Botticelli al servizio del fascismo» Haskell parla della mostra d`arte italiana del 1930 che portò a Londra, via nave superando una tempesta al largo della Bretagna, la Venere di Botticelli, la Tempesta del Giorgione, capolavori di Masaccio, Carpaccio, Tiziano e molti altri capolavori. Mussolini intendeva la mostra come utile propaganda. Pochi anni fa il ministro della cultura Buttiglione pensò di spedire, invano, Botticelli in Giappone, l'anno scorso Rutelli, su parere dei tecnici, inviò l'Annunciazione di Leonardo a Tokyo nonostante l'opinione contraria del direttore degli Uffizi Natali.

«Per me Natali aveva completamente ragione ma il punto più interessante sollevato da Haskell è che anche da un punto di vista politico spedire tesori all'estero serve a poco. Mussolini

prestò la grande arte italiana credendo di dimostrare quanto era grande l'Italia, alla fine si rese conto di non aver avuto l'impatto politico desiderato. Prestare arte all'estero anche diplomaticamente è un'idea pessima, in realtà è un omaggio alla potenza che ospita le opere.

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