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Bernardo Secchi
Le forme della città
18 Maggio 2008
Un'analisi efficace, una proposta scoraggiante. Il testo della conferenza al primo CittàTerritorioFestival, Ferrara, 17 aprile 2008

1.Debbo confessare un ceto imbarazzo nell’introdurre un festival della città e del territorio. Nonostante le apparenze cosa sia oggi la città, non questa o quella città, ma la città in generale, in Europa come in altri continenti, cosa sia la città e quali siano i suoi rapporti con il territorio non è facile a dirsi; tanto più è difficile a dirsi cosa saranno le città ed i territori nel futuro.

Non delle sue sole pietre, dei suoi monumenti o dei suoi edifici, delle sue strade e dei suoi giardini è fatta la città, ma anche dei suoi abitanti, di chi la frequenta, delle attività che vi si svolgono, delle relazioni che abitanti, visitatori ed attività intrattengono tra loro, con il resto del mondo e con lo spazio fisico che quotidianamente praticano, delle regole e delle istituzioni che per governare queste stesse relazioni si sono dati e di continuano modificano, dei discorsi e delle idee che la percorrono.

Ma d’altra parte, è anche importante ed urgente che si parli della città, specie in Italia ed in Europa, ma non solo qui; perché la città, luogo magico da sempre considerato luogo dell’incontro, della mescolanza e dell’integrazione di popolazioni, di pratiche, di idee e di culture differenti, sede di ogni innovazione tecnica e scientifica, sociale e politica, è anche e sempre più sembra divenire luogo ove si costruiscono profonde disuguaglianze, sempre più sembra divenire anche luogo della separazione, della emarginazione e della distinzione tra ricchi e poveri, ove sono all’opera sistemi di incompatibilità e di opposizione fisica, sociale e culturale ed è sotto la pressione di queste opposte tendenze che la città nel tempo cambia la propria forma.

2. Anche forma è termine difficile da trattare. In un bel saggio degli anni 70 W. Tatarkiewicz ne mostrava le diverse declinazioni. La forma, ad esempio la forma di una città, non si rappresenta solo nella figura che si staglia su di uno sfondo. Parliamo spesso e del tutto legittimamente di forme letterarie, ad esempio della forma romanzo, di forme musicali, ad esempio della forma sonata o della forma sinfonia, di forme istituzionali, politiche, di forme del discorso e delle relazioni con gli altri ed è a questo intero fascio di concetti che occorre fare riferimento quando si parla delle forme della città o di alcune sue parti, delle forme del paesaggio e del territorio, delle forme della società che li abita, delle relazioni sociali che vi si vengono a costruire o si può immaginare di costruire, delle forme delle istituzioni, dell’economia, del politico e del potere; delle forme delle espressioni artistiche, del discorso e dell’immaginario, senza stabilire tra le diverse forme alcuna gerarchia e priorità.

2. due tesi: ne vorrei parlare alla luce di due principali tesi:

- la prima è che la storia della città è storia di forme e del loro mutare nel tempo, del loro sovrapporsi, intersecarsi e contaminarsi. Lento il movimento delle forme fisiche, più veloce quello dell’organizzazione sociale ed economica, volatile quello delle idee e dei discorsi; l’opposto di Baudelaire.

In una prospettiva né evoluzionistica, né escatologica, criticamente lontani da una concezione lineare del tempo e dallo storicismo ottocentesco, ma lontani anche dall’organicismo e dallo strutturalismo che a lungo hanno dominato negli ultimi due secoli il pensiero sulla città, lontani dai presupposti riduttivi loro sottesi, la città ed il territorio sono il terreno ove forme diverse e con una differente genealogia più che con una diversa storia, competono tra loro; alcune dalla competizione essendo eliminate e divenendo desuete, altre godendo di improvvise, temporanee o durature fortune; molte, se non tutte, però permanendo, con diversi gradi di seduzione ed inerzia, non solo come tracce e testimoni della competizione, ma anche disponibili ad un ritorno.

La città ed il territorio sono luogo ove ogni forma esercita un attrito sull’altra impedendone, rallentandone o facilitandone il mutamento, con ciò ostacolando la fine della competizione ed impedendo anche la fine della storia in un suo generale compimento.

Tra le diverse forme non si dà una irreversibile selezione naturale: il passato può tornare, seppure sotto diverse sembianze, ciascuna forma migliorando qualcosa del passato, ma lasciandone aperte alcune contraddizioni. Ed è questa la ragione per la quale ogni progetto di città è da sempre destinato a divenire un progetto interrotto.

_La seconda tesi, che tratterò più a lungo, è che da qualche decennio stiamo forse assistendo ad un passaggio epocale, un passaggio quale quelli che si sono dati più volte nella storia della città. Un mutamento che potrebbe portare verso forme più avanzate di città, ma che non avviene simultaneamente e con eguali modalità in ogni luogo ed in ogni parte del pianeta e che, come tutti i cambiamenti, suscita reazioni opposte: di nostalgia del passato e di acritica adesione al nuovo ed è a questo passaggio che vale forse la pena di riflettere con calma abbandonando il chiacchiericcio quotidiano. E’ questo passaggio che vale forse la pena di cercare di capire e governare entro una visione di lungo periodo.

3. il senso del mutamento: più di dieci anni fa, introducendo Modelli di città, un bel libro da lui curato, Pietro Rossi si chiedeva se non fossimo “giunti al termine del ciclo storico della città, di un ciclo che ha preso le mosse, tra il quarto ed il terzo millennio a.C., nelle pianure fluviali del Vicino Oriente, dell’India e della Cina con quella che è stata definita la rivoluzione urbana”; se non fossimo “cioè prossimi alla scomparsa della città come forma caratteristica di insediamento e di organizzazione sociale”.

Io non penso questo, ma penso che si possa essere prossimi non tanto alla scomparsa, quanto al mutamento delle forme della città così come per un lungo periodo, per un tempo in ogni modo assai più breve di quello evocato da Rossi, le abbiamo conosciute. Penso che da questo mutamento occorra prendere una certa distanza critica. Contrariamente a molti di quelli che si sono verificati entro il lungo periodo evocato da Rossi, esso non contiene in sé alcun aspetto drammatico, ma nondimeno non deve in alcun modo essere sottovalutato, perché dalla sua comprensione, dalle politiche e dai progetti che esso suggerirà può dipendere il benessere di gran parte della popolazione.

Nella storia della città si sono avuti mutamenti subitanei ed altri più lenti, mutamenti che hanno cancellato, con grande fatica e mai completamente, il passato ed altri che lo hanno incorporato, lo hanno fatto proprio assegnandogli nuovi ruoli e significati. Quello cui stiamo assistendo è, molto probabilmente, di questo secondo tipo ed è l’emergere negli ultimi decenni in tutti i paesi ed in tutti i continenti di ciò che Robert Bruegmann, in un recente libro, peraltro assai ma malamente contestato, indica come il “più importante fatto nello sviluppo urbano della nostra era”. L’emergere cioè di una forte dispersione della città su territori di inusitata dimensione; il rapido formarsi, in ogni parte del pianeta, di vaste Megacities o di ciò che molti si sono oramai abituati ad indicare con i termini di “città diffusa”.

Megacity o Città diffusa sono termini più generali di sprawl. Ma occorre dire chesi riferiscono a situazioni spesso tra loro molto differenti.Diversamente declinata nelle diverse situazioni, nel Veneto, piuttosto che in Lombardia, nelle Marche o nel Salento, nelle Fiandre piuttosto che in Bretagna o nel nord del Portogallo, a Taiwan piuttosto che nelle aree costiere e nelle aree interne della Cina, nel subcontinente indiano od in quello africano, la megacity ingloba spesso entro sé non solo i suburbicui lo sprawl si riferisce o le più moderne favelas, la città dei ricchi e la città dei poveri, ma anche le tracce di una antica antropizzazione del territorio, la città antica come il villaggio con una sua altrettanto lunga storia, la città moderna e le sue periferie, gli insediamenti reclamizzati dal “vivere nella campagna, vicino alla grande metropoli ed al piccolo centro urbano”, la gated community, come l’edificazione delle lunghe file di casette unifamiliari con giardino, la piccola officina annessa all’abitazione, come la fabbrica di medie e grandi dimensioni, la zona industriale come l’area agricola, la casa rurale come la serra. Tutto accostato paratatticamente senza un ordine apparente entro territori sempre più porosi.

La dispersione, non solo nella città diffusa europea, non è sempre il risultato di un movimento centrifugo, di una esplosiva fuoriuscita dalla città, ma all’opposto è spesso l’esito di una progressiva densificazione di una ben più antica forma insediativa ed è indice di un mutamento radicale della condizione moderna; un mutamento che investe le forme di organizzazione sociale e politica, dei rapporti tra società e mondo degli oggetti, tra società e territorio.

In Europa, come negli Stati Uniti, la dispersione è da molto tempo all’origine di inquietudini, si accompagna a speranze e suscita malintesi. Da secoli l’Europa è un continente fortemente antropizzato, costituito da una fitta rete di insediamenti dispersi. La costruzione, ancor prima del ‘500, di “ville” con propri parchi e giardini disperse nella campagna, ad esempio nell’area veneta o nelle Fiandre, segna una prima fase di appropriazione e densificazione di un territorio disperso. Le più ricche famiglie londinesi lasciano la città entro le mura disperdendosi nel West End già prima del grande incendio del 1666, ma soprattutto a partire da quell’evento dando inizio alla tradizione della English Country House. Marcel Roncayolo mostra come, dopo Colbert, le politiche urbane di Parigi e di Marsiglia oscillino tra le esigenze d’allargamento della compagine urbana ed il tentativo di frenare la dispersione delle classi più agiate nei territori circostanti. Alla metà del diciannovesimo secolo la costruzione di suburbs diviene fenomeno diffuso sia in Inghilterra, sia negli Stati Uniti ed accompagna la crescita delle classi medie. Marcel Smets e Bruno De Meulder hanno mostrato come la dispersione nelle Fiandre, forse la regione in Europa nella quale il fenomeno ha assunto le dimensioni più importanti e pervasive, sia, dall’inizio del secolo ventesimo, esito in larga misura di esplicite politiche tese ad evitare la formazione di grandi concentrazioni proletarie nelle maggiori città; tra queste politiche la costruzione dei peasant tramways, cioè la densissima infrastrutturazione ferroviaria e tranviaria, è forse la più importante. Ettore Conti, il grande patron dell’industria elettrica italiana, nei primi decenni del secolo ventesimo portava come argomento a favore di una sempre più spinta elettrificazione le possibilità che essa avrebbe offerto alla dispersione della produzione e delle residenze con conseguenze analoghe a quelle che ci si attendeva nelle Fiandre. Tra la fine degli anni ’10 e sino alla legge Loucheur del 1928 si sviluppa in Francia una periferia pavillonnaire, spesso abusiva, che darà luogo ai cosiddetti mal-lotis, famiglie che avendo acquistato un lotto di terreno senza sufficienti conoscenze del luogo si trovano poi a lottare con inondazioni e mancanza di infrastrutture adeguate alla stessa conservazione del loro investimento. Peter Hall interpreta la dispersione come inevitabile conseguenza della più elevata mobilità consentita dalla diffusione delle tranvie prima e dell’automobile poi. Come le tranvie, le “gondole del popolo”, avevano prodotto negli anni ’20 e ’30 le plotlands, lottizzazioni abusive che avevano invaso vaste parti del Sud-Est dell’Inghilterra e le regioni limitrofe alle maggiori città , l’automobile diviene, secondo Peter Hall, secondo molti studiosi e secondo un’opinione diffusa, la maggior responsabile della dispersione nell’ultima parte del secolo. Ma come per il telefono alcuni decenni prima occorreva che concreti attori ritenessero utile e conveniente separare gli uffici dalle fabbriche, così l’automobile ha consentito la dispersione perché nella società già operavano tensioni che portavano molti gruppi sociali a preferire l’abitazione dispersa a quella delle più dense aree urbane. Basti ricordare le pagine inziali di Living City di Frank Lloyd Wright e la politica a favore della abitazione unifamiliare del New Deal. Nel 1932 Thomas Sharp e la pubblicistica conservazionista del tempo descrivevano il Bungaloid growth con parole ed immagini identiche a quelle utilizzate cinquant’anni dopo per le Fiandre o per l’area veneta, ma “una ciminiera per ogni campanile” è stato uno slogan fortemente condiviso nel Veneto degli anni ’50 e ’60, una sorta di guide line per politiche del territorio che hanno trovato un largo consenso e che hanno fatto sì che ancor oggi ogni comune della regione, per piccolo che sia, preveda una o più aree industriali e che le norme urbanistiche siano costrette a regolarizzare le innumeri industrie sorte “fuori zona”.

Negli anni ’90 Francesco Indovina prima, Stefano Boeri, Arturo Lanzani e Edoardo Marini poi descrivono le modifiche della struttura e dell’immagine del Veneto e del territorio metropolitano milanese prodotte dagli intensi fenomeni di decentramento produttivo, di dispersione delle attività e della popolazione prodottisi nei due decenni precedenti; Stefano Munarin e Chiara Tosi analizzano in dettaglio storia e caratteri della dispersione nel Veneto, una delle regioni italiane che, a partire dagli anni ’70, è all’origine dello studio dei nuovi caratteri del fenomeno urbano; Paola Viganò analizza storia, caratteri ed opportunità offerte dalla dispersione nel Salento, regione dell’estremo Sud dell’Italia, per la costruzione di una nuova forma di spazio abitabile, di una nuova modernità; Antonio Calafati studia la dispersione produttiva ed urbana nelle Marche e nell’Italia centrale, fenomeno che già aveva suggerito a Giorgio Fuà uno stretto legame con uno “sviluppo senza fratture” che si contrapponeva a quello della città industriale; Paola Viganò ed io stesso, in una ricerca in corso presso l’Università di Venezia, mostriamo come in un territorio costruito dall’acqua come quello veneto, la dispersione sia l’esito di un’infrastrutturazione basica del territorio costituitasi nel lunghissimo periodo e fatta di una fittissima rete di canali, canalette e scoline in parte destinate all’irrigazione, ma in gran parte al drenaggio di terreni poco permeabili, da una capillare rete viabilistica minore che alla rete dei canali si accosta ripetendone le forme e la densità e da una altrettanto minuta divisione dei campi e delle proprietà.

Ma, nonostante la sua lunga storiala dispersione rimane fenomeno imbarazzante. Difficilmente racchiudibile in poche parole e concetti essa resiste ad ogni sforzo descrittivo. Negli anni ’80 una gran parte della letteratura, in Europa come negli Stati Uniti, ricorrendo a tecniche differenti, dall’εκφρασισ alla microstoria,all’inventario, al repertorio, al catalogo od al sampling, ha cercato di illustrare, attraverso “descrizioni dense”, “mappe in profondità” e mise en abîme, i caratteri della nuova situazione della città e dei territori europei e statunitensi. Ad esse hanno fatto seguito ulteriori descrizioni relative a situazioni diverse in altri continenti.

E’ stato un ritorno all'esperienza come fonte primaria della conoscenza; un ritorno antropocentrico che forse connota periodicamente tutta la storia della scienza occidentale. Di volta in volta declinato nella prospettiva ermeneutica, esistenziale o neo-romantica, esso sempre si accompagna alla presa di distanza dal carattere sistematico, decontestualizzato e cumulativo della razionalità tecnica, all’enfasi sulla complessità, all'esigenza di sua riduzione, mostrando forse la nostra incapacità di usare l'accumulazione della cultura specialistica per l'arricchimento dell'esistenza quotidiana. Ancor più radicalmente esso si accompagna al congedo dall’idea di verità pubblica che ha connotato la parte centrale del secolo ventesimo. Tutto ciò ha spinto ad integrare nella costellazione dei saperi rilevanti per lo studio ed il progetto della città discipline come l’etnologia e l’etnografia, le ricerche, ad esempio, e gli scritti di Ulf Hannerz, piuttosto che di Marc Augé o di Pierre Bourdieu.

Ben consapevoli dell’impossibilità di costruire una copia esauriente del reale le ripetute descrizioni della città e del territorio di fine secolo hanno fatto emergere il frammento, lo specifico, il locale, la differenza irriducibile, mostrando che lo spazio della dispersione è costituito da costellazioni di materiali frammentari tra i quali diviene importante stabilire nuove relazioni.

Le ripetute descrizioni delle diverse megacities e delle loro microscopiche variazioni hanno obbligato a prendere atto di una definitiva e generale trasformazione della società contemporanea; una trasformazione in corso da tempo, ma che solo negli ultimi decenni del secolo produce le proprie conseguenze sul modo di pensare la città e le sue politiche.

Sino a tutta la prima metà del secolo ventesimo la società urbana, per non dire l’intera società emersa dalla rivoluzione industriale, è concepita come formata da grandi aggregati, classi o ceti al loro interno fondamentalmente omogenei nei comportamenti e nelle aspirazioni. La città è il luogo ove questi aggregati, muovendo specifiche retoriche, si incontrano e scontrano conquistando riconoscibilità, egemonia e potere. La maggior parte delle politiche urbane cerca di costruire pragmaticamente un ponte tra le esigenze dei diversi gruppi tra loro in competizione.

Nell’ultima parte del secolo molte ricerche antropologiche, concentrandosi in particolare sulla cultura materiale, sostituiscono al naturalismo ottocentesco, un’interpretazione culturale dell’emergere di bisogni, desideri ed aspirazioni incomprimibili. Il cibo che si mangia, gli abiti che si indossano, l’impiego del proprio tempo e delle proprie risorse, il cinema, i libri, l’automobile e le vacanze, dice Mary Douglas citando peraltro quasi alla lettera una pagina di The Portrait of a Lady, romanzo che Henry James ha scritto nel 1881, sono opinioni relative alla forma di società che si desidera. Il sistema di valori di una società come le preferenze dei consumatori non possono essere presupposti, ma debbono essere osservati empiricamente. In una città quale quella europea di fine secolo, connotata da un forte pluralismo culturale, ciò sposta il centro dell’attenzione verso l’identificazione di differenti gruppi culturali, verso le diverse forme con le quali essi si esprimono nei confronti dell’ambiente e della città, verso i loro miti ed immaginari e le loro radici, verso la storia delle mentalità, verso la differenza e la sua storia, verso la lunga durata e le diverse dimensioni del tempo. Il multiculturalismo non può essere ridotto alle differenze etniche e religiose. La società urbana, non più interpretabile come formata da grandi aggregati omogenei, si disperde nell’innumerevole: in una dispersione di gruppi gelosi dei propri stili di vita dei quali la varietà di situazioni presenti nella città diffusa diviene concreta rappresentazione.

4.problemi ed opportunità:è del tutto evidente che la nuova forma di città pone una serie di gravi problemi anche se si ha spesso l’impressione che le lamentele e le critiche nei confronti della dispersione abbiano le loro radici non dette in una serie di presupposti estetici e metafisici piccolo borghesi, in una mancanza di conoscenza ravvicinata dei comportamenti dei diversi attori e gruppi sociali e delle loro ragioni. Ciò che manca nella riflessione odierna in ordine ad un fenomeno quale quello della dispersione, che nessuno riuscirà ad eliminare è una seria valutazione anche delle opportunità che essa offre o che spinge ad indagare.

Solitamente la Megacity o città diffusa, che torno a ripetere è una forma di città estesa su territori di inusitata dimensione, una città porosa che include al proprio interno la città antica, quella moderna e le sue periferie, il villaggio con una lunga storia, la casa rurale come la “villa” e la casa unifamiliare con giardino, la piccola officina, come la grande fabbrica tecnologicamente avanzata, viene criticata su tre diversi terreni:

- essa appare, in primo luogo, come la negazione del valore della prossimità, se non di valori comunitari che si rappresenterebbero nella città compatta. Una critica ben strana dopo più di un secolo di critica dell’anomia prodotta dalla città moderna, già per Durkheim antitesi della solidarietà sociale e dovuta al continuo mutamento sociale proprio di una moderna società industriale. Una critica non confortata dalle ricerche empiriche che riprende il pensiero degli “antilluministi” da Herder a J. Berlin. La coesione sociale non sembra essere superiore nelle parti compatte della megacity, nei centri urbani e nelle loro periferie, di quanto lo sia nella sue parti disperse; identità, comunità e tradizione sono concetti che non riescono a descrivere le società contemporanee dominate dalle retoriche della competizione e della comunicazione;

- in secondo luogo, la megacity appare, giustamente, come il regno dell’automobile e quindi concausa dei rischi ambientali, anzi delle certezze di degrado ambientale cui il pianeta va incontro. Le relazioni tra la dispersione ed un sistema della mobilità prevalentemente affidato al mezzo individuale di trasporto non sono cosi chiare e limpide quanto si vorrebbe, ma è fuori di ogni dubbio che questa forma di città non avrebbe avuto modo di prodursi, perlomeno nelle dimensioni odierne, senza il largo privilegio e sostegno che da tutti i paesi ed a partire dai primi decenni del secolo ventesimo è stato dato alla produzione e diffusione dell’automobile come principale simbolo del benessere. E’ dubbio che la produzione di gas serra e di polveri sottili sia nelle aree della dispersione più elevata che nelle aree congestionate della città compatta. Le ricerche empiriche mostrano che le relazioni tra aree della dispersione e centri congestionati non sono più quelle tradizionali del movimento pendolare tra centro e periferia.

Ma il problema deve essere posto forse entro un quadro differente e di lungo periodo.

La forma città è stata spesso, non sempre, all’origine di grandi ondate di progresso tecnico. Non sempre: la rivoluzione industriale, ad esempio, quasi ovunque non è stata inizialmente un fenomeno urbano ed anche oggi è dubbio che la maggior parte dell’innovazione tecnologica si produca al centro delle grandi aree urbane. Ma sono i vantaggi della concentrazione urbana, della divisione del lavoro, dello scambio tra settori di attività diversi che hanno sospinto lo sviluppo delle reti ferroviarie; è sicuramente la concentrazione urbana che ha spinto ad immaginare e realizzare il trasporto pubblico. Metropolitane e tramways sono figli della situazione contraddittoria nella quale si era venuta a trovare le città moderna alla metà del diciannovesimo secolo. Sino all’inizio degli anni ’60 del diciannovesimo secolo a Londra, come in ogni altra città, la gran parte della popolazione si recava al lavoro a piedi; è l’ammassarsi di una vasta classe operaia ed impiegatizia nella grande città che ha spinto, alla metà del secolo, Charles Pearson a progettare e realizzare il primo tratto di ferrovia sotterranea tra Fleet Valley e Farrington. Negli stessi anni sono i problemi igienici connessi alla concentrazione urbana che spingono Eugène Belgrand a concepire ed a mettere a punto nell’Ecoles des Ponts et Chaussées il grande sistema fognario e di distribuzione dell’acqua di Parigi, sospingendo una grande ondata di lavori pubblici che, come le ferrovie, ha avuto enormi ricadute su altri settori produttivi. Ed ancora è l’opportunità di dividere spazialmente gli uffici delle direzioni aziendali e gli impiegati dalle fabbriche e dai luoghi del lavoro operaio che verso la fine del secolo spinge ad utilizzare in modo estensivo una scoperta precedente quale il telefono. E’ il suburb che sospinge la diffusione della televisione.

Negli ultimi decenni del secolo ventesimo la mancata osservazione dell’emergere di una nuova forma di città, da un lato e l’enfasi posta sul ruolo delle telecomunicazioni e delle città globali, dall’altro, ha posto nell’ombra uno spazio del flussi assai più concreto e tangibile, che appartiene all’esperienza quotidiana della maggior parte della popolazione, smorzando la spinta verso il progresso tecnico del mezzo individuale di trasporto, verso una nuova concettualizzazione delle sua infrastruttura di base, un progresso che tutti peraltro possono immaginare essere a portata di mano e che, a causa non fosse altro che della crisi petrolifera, non tarderà a diffondersi. Le politiche di tutti i paesi spingono all’opposto verso una sempre maggior diffusione dell’automobile quale essa è oggi.

Uno dei problemi fondamentali del progresso tecnico riguarda il tempo: quando le innovazioni maturano e quando vengono adottate, il tempo che intercorre tra innovazione e sua adozione e le ragioni che lo determinano. Il telefono è un esempio di grande ritardo dell’adozione rispetto l’invenzione; internet è un caso opposto.

Ora le nuove forme della città, in tutte le loro articolazioni, pongono una domanda assai seria: pensiamo sia più facile e prossimo un cambiamento delle tecniche della mobilità, o che sia più vicina a noi nel tempo e più facile una modifica della forma di città che, radicata in un tempo più antico, è prepotentemente emersa nella seconda metà del ventesimo secolo e della quale ci siamo accorti con grave ritardo? Nessuno è profeta, ma tra cinquant’anni potremmo pentirci di aver dato a questa domanda la risposta sbagliata.

Perché la nuova forma di città, con la sua grana larga, con la porosità che sempre più ne connota le parti più compatte ed antiche, con i suoi vasti spazi interclusi, inedificati, abbandonati o tutt’ora destinati all’agricoltura, offre grandi opportunità per politiche che si confrontino seriamente ed in modo complessivo con i problemi ambientali. Abbacinati dai soli problemi della mobilità spesso ce le dimentichiamo.

La gran parte del pianeta, come il nostro paese, ha seri problemi di gestione delle acque, di loro raccolta, conservazione ed intelligente distribuzione. Il che implica un rovesciamento delle tecniche tradizionali di gestione delle acque: rallentamento del deflusso delle acque dei fiumi, costruzione di vasche di laminazione, di bacini di stoccaggio delle acque piovane, riutilizzo delle acque reflue. In territori fortemente antropizzati come l’Europa ed il nostro paese, non saranno grandi bacini la soluzione, ma numerosi bacini di minori dimensioni:

La gran parte dei paesi ha inoltre la necessità di aumentare il manto vegetale, misura che si accompagna alla gestione delle acque. In territori fortemente antropizzati come l’Europa non saranno grandi foreste la soluzione, ma una rete di aree boscate estesa ed intelligentemente disegnata per assicurarne la compatibilità sia con le aree agricole, sia con quelle urbanizzate.

Gestione delle acque e aumento del manto vegetale costruiscono l’opportunità di un grande progetto che non proceda in via incrementale, ma il coraggio della costruzione di un nuovo paesaggio; un progetto che richiede rigore, coerenza e perseveranza. Si tratta di ridisegnare l’intero paesaggio e la sua architettura, come è stato per il ridisegno del paesaggio toscano da parte degli agronomi del Granducato, come prima era stato per il ridisegno del paesaggio della bassa Lombardia con le marcite e le risaie, come è stato per il ridisegno del paesaggio olandese e di molti altri paesaggi europei e di altri continenti; un paesaggio che nasce da una nuova relazione tra popolazione e territorio mediata, come per il passato, da una nuova fase delle tecniche.

- perché, in terzo luogo, la nuova forma di città, soprattutto in alcune sue parti come le periferie moderne o le aree della più forte dispersione e delle minori densità, viene criticata sulla base di considerazioni estetiche. Tutti sanno quanto Siena ed il paesaggio toscano siano belli, quanto siano belle Ferrara o Montichiello, Utrecht, Bruges, come Anversa, Kyoto come Pietroburgo, come Savannah in Georgia o Charleston nel South Carolina. ma pochi fanno uno sforzo analitico per dire di cosa siano fatti quei paesaggi e quelle città, di quali materiali essi siano composti, quali si rappresentino nelle loro grammatiche e sintassi compositive. Prevale nel giudizio estetico corrente un idealismo antistorico, un culto della memoria, il mito della continuità.

Eppure ciò che ci colpisce a Siena, come a Venezia ed in molte altre città anche moderne che giudichiamo belle, è lo straordinario deposito di intere generazioni che hanno aggiunto o tolto qualcosa alla loro compagine, che l’hanno lavorata, trasformata, modificata attraverso intrusioni e sostituzioni. E’ lo spessore di questo palinsesto urbano e territoriale che ce le rende amiche.

Nei suoi primi cinquant’anni di vita Siena era certamente meno seducente di quanto ce l’abbia consegnata la sua storia successiva e se osserviamo con attenzione cosa sta avvenendo oggi nelle periferie urbane, la numerosità di progetti che inserendosi nella loro porosità ed entro una loro generale densificazione funzionale e semantica, inserendosi nelle situazioni esistenti e trasformandole, propongono una nuova lettura del loro spazio attraverso l’individuazione dei caratteri e dei ruoli specifici che possono essere assegnati ad alcuni luoghi, possiamo immaginare che lo stesso fenomeno si produrrà in futuro anche nelle aree di maggior dispersione dispersione. La città non si costruisce in un giorno e la città diffusa, la megaciy contemporanea, può costruire oggi l’infrastruttura di base di una nuova forma di città. Cosa della quale si sono accorti per ora solo gli immobiliaristi che propongono di vivere nella campagna, vicino al grande centro metropolitano ed al piccolo centro urbano.

5.nuove utopie: la nostra incapacità nel cogliere appieno le opportunità che le nuove forme della città e della società ci propongono, la nostalgia per le forme del passato, il tentativo di ripeterle come nel neo-haussmanesimo e nel New Urbanism, dimentichi che la storia mai si ripete se non come tragedia o farsa, la giusta critica delle sue architetture ove si rappresenta l’immaginario di attori privi di memoria, troppo legati al presente ed alle sollecitazioni della società della comunicazione, appare a me come un indicatore del nostro disorientamento, della nostra mancanza di solidi strumenti critici, della nostra riluttanza ad esplorare progettualmente orizzonti più lontani.

Perché è di questo che si tratta: le diverse forme di città che nel tempo si sono succedute, trascinandosi od ostacolandosi a vicenda, sempre sono state figlie di un progetto; di un progetto politico e sociale divenuto egemone perché capace di interpretare e dare spazio alla frontiera più avanzata della società del proprio tempo e che spesso è stato annunciato da un progetto della forma fisica della città e del territorio. E’ stato così per il progetto di magnificenza civile dell’illuminismo, come per la grande unificazione linguistica della città borghese ottocentesca. E’ stato così nella prima metà del ventesimo secolo quando il progetto della città ha dato forme concrete alle istanze di welfare individuale e collettivo prima della costituzione del Welfare State. Ciò che ci manca è proprio questo.

L’utopia è forma del pensiero e del discorso specifica della cultura occidentale ed europeo in particolare. Se dovessi dire cosa connota la cultura europea nella sua lunga storia direi che il pensiero utopico è uno dei suoi elementi più importanti.

L’utopia è forma estrema dell’immaginazione che ciclicamente torna nella storia europea, che non la percorre in modo omogeneo e continuo e ciò che diviene importante è cogliere i momenti nei quali riemerge e le ragioni per la quali riemerge; le ragioni che fanno si che ad ogni emersione, pur conservando memoria delle precedenti versioni, essa si presenti con caratteri nuovi e diversi.

L’utopia si colloca sempre in un punto di crisi e nel punto di passaggio tra un periodo storico ed il successivo, quando i caratteri di ciò che sta per avvenire non sono ancora chiari ed è sempre contestazione del potere.

L’Utopia di Thomas More, ad esempio, della quale ci si sofferma solitamente a descrivere in modi superficiali la parte finale, la città sull’isola di Utopia senza porre attenzione alla prima parte che costituisce invece una serrata critica di diversi aspetti dell’organizzazione del potere nell’Inghilterra del tempo, si situa alle soglie della costituzione dello Stato Nazionale moderno. Le utopie dell’inizio del diciannovesimo secolo nelle due versioni del fourierismo e del saint-simonismo, si situano alle soglie dell’affermazione dello “stato disciplinare”, per usare le parole di Michel Foucault e così le utopie dell’architettura moderna, non solo dei Ciam, si situano al centro di conflitti che occuperanno tutta la prima metà del ventesimo secolo nei quali si rivela la crisi dell’imperialismo degli stati nazione ed alle soglie di tremende dittature e di un mondo globalizzato dominato in modo contraddittorio da un lato, dalla progressiva omologazione delle forme, di tutte le forme, non solo di quelle della città, e, dall’altro, dalla progressiva individualizzazione della società.

Questa lettura dell’utopia, delle sue forme e del suo ciclico ritorno è fondamentale per comprendere che le diverse forme della città, come delle istituzioni, del politico, delle arti e del discorso, nella reciproca competizione si osservano e, come in ogni competizione, si copiano o in modi più sofisticati, procedono “per riprese, adattamenti, trasposizioni, inversione di modelli e di regole precedenti”. E’ per questo che in ogni forma della città, anche quando intenzionalmente destinata a costruire il futuro, possiamo riconoscere tracce del passato e del contemporaneo; è per questo che ogni progetto complessivo sempre ci appare un progetto interrotto.

Nell’attenzione al recupero e ridisegno degli spazi pubblici nella Barcellana di Oriol Bohigas negli anni ’80, dopo la lunga crisi della dittatura, nella più recente attenzione alle dimensioni concrete, fisiche del welfare individuale e collettivo di Copenhagen, dopo la profonda crisi dell’inizio degli anni ’90; nell’attenzione alla ricostruzione di un’immagine e di una forma della metropoli di Anversa entro una più vasta megacity dispersa che si estende da Bruxelles a Rotterdam, dopo la profonda crisi amministrativa e politica alla svolta del secolo, possiamo riconoscere i germi, solo i germi, di una nuova utopia concreta che cerca appunto di interpretare la frontiera più avanzata della società contemporanea e che si annuncia, come per il passato, con un progetto della forma fisica della città e del territorio.

Più che dei mali della città è forse del suo progetto che dovremmo parlare e discutere.

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