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Paolo Baldeschi
Le emergenze in Toscana
3 Luglio 2008
Toscana
Stralcio dalla relazione al convegno della Rete dei comitati toscani per la difesa del paesaggio, 28 giugno 2008. SCaricabile il testo integrale

Paolo Baldeschi Le emergenze in Toscana

Relazione al convegno della Rete dei comitati toscani per la difesa del paesaggio, 28 giugno 2008. Con postilla

Premessa

Possiamo chiamarle emergenze quelle documentate nella ‘mappa’? La parola ‘emergenza’ evoca il concetto di eccezionalità, una malattia che ha raggiunto un momento di crisi, ma pur sempre temporanea, Ma l’emergenza rifiuti in Campania è una malattia di un organismo politico-amministrativo sano, o è profondamente connessa proprio alla natura e al funzionamento di questo organismo? E le emergenze toscane sono il risultato di una congiuntura, l’inevitabile scoria che accompagna il passaggio dal vecchio sistema gerarchico di controlli al nuovo governo del territorio o sono invece dovuti a mutamenti strutturali dell’economia toscana che si combinano con le modalità del nuovo governo? E, in quest’ultimo caso, sono una patologia curabile del sistema o derivano dal funzionamento fisiologico di un apparato legislativo e di pianificazione - di un sistema di governo - che per sua natura produce emergenze? In una parola, sono un problema di malfunzionamento amministrativo o dipendono da scelte politiche?

Rispondere a queste domande ha un’importanza fondamentale, perché se fosse vera la seconda ipotesi, il ruolo dei comitati non può avere una natura meramente difensiva e non può neanche limitarsi a fornire delle proposte caso per caso, ma deve prospettare, oltre a proposte alternative, anche un nuovo modo di governare il territorio, più aperto alla partecipazione dei cittadini, meno opaco di quello attualmente praticato, in una parola una politica diversa; paradossalmente una politica più aderente agli obiettivi espressi nei documenti ufficiali della Regione, la legge di governo del territorio e il Piano di indirizzo territoriale (PIT) in primis.

Tre categorie di emergenze

Le emergenze toscane possono essere classificate in tre categorie. Una prima in cui l’azione dei comitati ha una natura seccamente oppositiva. Sono operazioni che non si devono fare e basta, perché non solo danneggiano irreversibilmente il patrimonio ambientale e paesaggistico della regione, la ricchezza di tutti, ma oltre tutto non sono funzionali allo sviluppo dell’economia toscana (beninteso se non si equipara lo sviluppo alla cementificazione). La seconda categoria, che comprende per lo più le opere pubbliche – strade, infrastrutture di trasporto su ferro, impianti di produzione di energia o di smaltimento di rifiuti - non vede opposizioni di principio. Qui i comitati si oppongono piuttosto a specifici progetti, e allo stesso tempo propongono progetti alternativi, meno impattanti sul territorio, meno costosi (ma forse quest’ultima caratteristica è proprio quella che ne definisce uno specifico handicap).

Vi è, infine, una terza categoria, quella delle attività estrattive dove le emergenze sono dovute all’inadeguatezza del piano regionale; un piano che è la sommatoria delle richieste dei privati e che spesso di risolve in uno sfruttamento oltre il lecito delle risorse di cava e nella sostanziale inosservanza dei progetti di recupero.

In questa relazione sulle emergenze toscane sarà trattata solo la prima categoria, le operazioni diffuse e pervasive contro l’ambiente e il paesaggio toscano. Questa scelta dipende dal fatto che trattare con un minimo di documentazione e in modo non sommario le operazioni che entrano nelle altre due categorie avrebbe comportato la necessità di un tempo e di uno spazio non consentito in questa sede. Ma, soprattutto, perché si tratta di operazioni non generalizzabili, ma che devono essere esaminate progetto per progetto, caso per caso. Rimando perciò a questo proposito alle specifiche relazioni che seguiranno e saranno svolte da coloro che hanno competenza ed esperienza in proposito. Quindi, anche se le considerazioni e le proposte conclusive riguardano tutte le categorie di emergenze, qui l’attenzione sarà rivolta soprattutto ai casi che si iscrivono nella metafora Monticchiello.

Le operazioni contro il paesaggio e l’ambiente

Monticchiello, è stato definito – a volte a mezza voce, a volte apertamente – dai politici toscani ‘un caso risibile’. Siamo d’accordo: Monticchiello è risibile se confrontato con tanti altri casi, avvenuti o in corso. In fin dei conti, a Monticchiello vi era un la giustificazione di offrire abitazioni alla popolazione locale, un problema reale che riguarda zone di alta appetibilità turistica dove la gente del posto non può competere nel mercato delle abitazioni. Un problema cui è stata data una risposta viziata da un eccesso di localismo e sbagliata da un punto di vista economico. Tuttavia, se le case di Monticchiello non fossero state costruite come pretenziose villette proprio ai piedi del castello, ma come normali abitazioni in qualche luogo più adatto, in un contrasto non stridente con l’edificato storico, si poteva discutere sulla qualità architettonica, ma la cosa finiva lì.

Ma che dire di tante operazioni concluse o in cantiere o progettate che ripetono in termini moltiplicativi la pur deprecata (a parole) lottizzazione di Monticchiello senza alcuna giustificazione se non la promessa di ‘sviluppo’ alle comunità locali? Basta muoversi nelle colline o nell’entroterra costiero toscano, magari percorrendo qualche strada secondaria, per notare un abnorme proliferazione di ville e villette, lottizzazioni poste in luoghi di alta visibilità, spesso accanto a qualche centro storico o a complessi edilizi monumentali (la grancia di Cuna, ad esempio), con un impatto paesaggistico devastante La ‘mappa’ segnala decine di queste operazioni in corso, rivolte al mercato delle seconde o terze case o al mercato turistico e tuttavia i casi segnalati nella mappa sono solo la punta dell’iceberg: operazioni come quelle in corso a Casole d’Elsa, a Campagnatico, sul Monte Argentario, a Rimigliano (S. Vincenzo) a Capoliveri e a Marina di Campo nell’Elba, a Salivoli (Piombino), a Monticiano, a Monte San Savino, a Serravalle Pistoiese sul Montalbano, a Magliano, a Lucca (le serre trasformate in residenze), tanto per citarne alcune, alcune finite sulle cronache dei quotidiani per palesi episodi di illegalità. Ma su quest’ultimo punto tornerò più avanti, perché anche l’illegalità rischia nel sistema di governo toscano di diventare fisiologica e non più patologica.

L’opposizione dei comitati al depauperamento del paesaggio toscano è quindi pienamente giustificata: si tratta della proliferazione di veri e propri scempi, promossi da politici e amministratori locali che coagulano a loro volta gli interessi di costruttori, proprietari, professionisti, e li traducono in operazioni dove spesso gli uffici tecnici comunali svolgono il ruolo di catalizzatori più che di controllori. All’opposizione di comitati, le amministrazioni e i blocchi locali del mattone oppongono il consueto argomento dello sviluppo, una parola magica che ricorre in tutti i documenti politici, da quelli regionali fino a quelli dei comuni più piccoli. Lo sviluppo come panacea che mette tutti d’accordo; lo sviluppo che chiede inevitabilmente il sacrificio di qualche valore secondario; lo sviluppo che prevale per forza di cose su ambiente e paesaggio.

Un falso sviluppo

Proviamo ad esaminare allora la qualità e la reale consistenza di questo sviluppo. Costruire case produce reddito una tantum, un reddito che va ai costruttori in forma di profitti, ai proprietari dei suoli in forma di rendite e agli addetti come retribuzione del lavoro. Si tratta di redditi che generalmente non vengono spesi localmente e hanno breve durata. Ciò che è stato costruito a sua volta produce reddito, ancorché figurativo, se si tratta di prime case. Ma la lottizzazione della campagna toscana non produce quasi mai prime case. La stragrande maggioranza dei cittadini della nostra regione sono già proprietari delle case in cui abitano e coloro che cercano abitazione – giovani e immigrati – non possono certamente acquistare immobili che per prezzo e caratteristiche sono destinate ad acquirenti ben più ricchi.

A proposito di sviluppo e incremento del reddito locale, un dato mi sembra interessante: riguarda l’isola d’Elba, un territorio particolarmente aggredito da lottizzazioni legali e illegali, dove la presenza dell’ente parco dell’arcipelago toscano viene sentito con particolare fastidio da amministratori e costruttori. Un recente studio dell’Irpet (Toscana Economia - n. 4 - 18 giugno 2008) afferma che “... se il turismo porta ricchezza (all'Elba il Pil è per il 21% più alto rispetto alla media regionale), quel reddito in buona parte se ne va altrove: molti acquisti si fanno sul continente, i lavoratori stagionali arrivano da fuori, i proprietari delle strutture turistiche spesso non sono del posto. Di conseguenza il reddito disponibile - e non quello prodotto - è di circa il 4% più basso della media regionale. Aumentano poi le spese generali (smaltimento rifiuti, consumi idrici, trasporti): ogni 100 euro che un turista spende - ha calcolato l'Irpet - le entrate per gli enti locali crescono di 9 euro ma le spese generali di 14.

Ciò che vale per l’Elba vale a maggior ragione per l’intera regione. I comuni non costituiscono sistemi chiusi: profitti e rendite alimentano ulteriori investimenti edilizi, in altre parti della Toscana o in altre regioni, i redditi dei lavoratori hanno breve durata e sono spesi in altri luoghi. L’offerta turistica più che aggiuntiva finisce per essere sostitutiva di quella esistente; ne fanno fede due fenomeni di facile osservazione. Da un parte l’ingente quantità di sfitto turistico anche nei mesi di alta stagione come luglio e agosto; interi residences che sono vuoti o occupati solo per brevi periodi, non certamente rimunerativi dell’investimento, ma in realtà una specie di bene rifugio. Dall’altra la tendenza delle cosiddette residenze turistico-alberghiere a diventare residenze e basta, dopo avere goduto di particolari agevolazioni normative e fiscali. Si tratta quest’ultimo di un fenomeno diffuso che ha visto più volte l’intervento sanzionatorio delle procure della repubblica.

I motori di uno sviluppo basato sull’edilizia

Ciò che appare come distruzione irreversibile di risorse territoriali viene promosso e alimentato da un riposizionamento in atto di parti consistenti dell’economia toscana. Molti imprenditori operanti in settori soggetti alla concorrenza del mercato globale – come tessile e moda – anche penalizzati dalla debolezza valutaria dei paesi dove sono esportatori[1], stanno riconvertendo i loro capitali dalle attività manifatturiere all’edilizia, soprattutto nel settore turistico, ma anche nel mercato delle abitazioni. E’ significativo a questo proposito che i prezzi delle abitazioni residenziali siano cresciuti nel periodo che va dal 2000 al 2006 quasi del 50% (fonte ANCE, Quinto rapporto sul mercato immobiliare toscano, ott. 2006), mentre i prezzi degli immobili per uffici o nello stesso periodo siano cresciuti del 16% e degli stabilimenti industriali del 10% (meno, cioè, dell’inflazione). Ma il dato forse più interessante sulla composizione strutturale dell’economia toscana e sulle sue direzioni di cambiamento viene dal rapporto annuale del 2005 della Banca d’Italia, a proposito degli impieghi bancari di medio e lungo termine. Nel 2005, in Toscana si è investito in costruzioni più di 10 miliardi di euro, di cui 4 miliardi in abitazioni, meno di 4 miliardi in investimenti direttamente produttivi (macchine, attrezzature, mezzi di trasporto, ecc.), mentre più di 17 miliaerdi sono stati destinati all’acquisto di immobili[2]. Ancora più significativi i dati tendenziali. A fronte di un incremento degli investimenti in costruzioni (non comprendente le opere pubbliche) medio annuale del 18% nel biennio 2003-2005 sta un decremento degli investimenti produttivi che nel 2005 ha registrato un meno 7,5% rispetto all’anno precedente. In sintesi, l’economia toscana a fronte delle difficoltà che incontrano i suoi settori tipici si sta riconvertendo verso il mattone, dagli alberghi di extra lusso, ai villaggetti turistici e ai residences destinati agli acquirenti più modesti. Il settore immobiliare ha assunto il ruolo di volano per il trasferimento di capitali da settori in crisi per concorrenza a settori che godono di rendite oligopolistiche: dalla produzione manufatturiera all’edilizia, utilizzando come materia prima il territorio, il ‘made in Tuscany’ non soggetto alla concorrenza ma non riproducibile. E poiché il territorio toscano, per la sua unicità e per il suo appeal richiama anche numerosi investitori stranieri, nonché capitali di origine dubbia se non chiaramente malavitosa, si può comprendere come sia in atto un assalto generalizzato alle parti più pregiate della regione; un assalto che i comitati possono solo denunciare non certo contrastare da soli.

Uno sviluppo durevole

La miscela fra le tendenze in atto dell’economia toscana e comportamenti amministrativi, sollecitati quest’ultimi anche dalla crisi delle finanze comunali, alimenta un modello di falso sviluppo, distruttivo del territorio. Qui stanno due obiettivi fondamentali che chiedono una politica diversa da parte della Regione. In primo luogo uno sviluppo durevole e che – differenza di quello edilizio – non si esaurisca nel prodotto stesso. In secondo luogo uno sviluppo che utilizzi il territorio come fattore di innovazione e di modernità; che incorpori cioè la qualità e unicità del territorio toscano come ‘qualità del prodotto’, senza distruggerlo.

Se guardiamo all’isola d’Elba, per tornare all’esempio precedente, vediamo un territorio di straordinarie opportunità che viene utilizzato per attività turistiche poco più di due mesi l’anno; dove invece che servizi si offrono immobili; dove i diversi operatori non fanno sistema; dove chi alloggia in un residence non è sicuro di trovare un posto sulla spiaggia; dove, in sintesi si offrono cose a caro prezzo, per lo più case, ma non servizi. Altra cosa sarebbe un turismo prolungato per almeno sei mesi l’anno, un’offerta complementare di alloggi, servizi, eventi, prodotti tipici, come avviene in un mercato moderno. Se in questo modello virtuoso di sviluppo si dovessero costruire anche delle strutture ricettive, ben inserite nel paesaggio sarebbero benvenute. Quanto vale per l’Elba vale anche per il resto della Toscana.

In definitiva, i comitati si oppongono a una distruzione di paesaggio e territorio che avviene senza che alla base vi sia un progetto di sviluppo durevole e sostenibile. Sono certamente a favore di progetti che utilizzino il territorio in senso opposto, in un reale processo di modernizzazione dell’economia toscana. Agli inizi del terzo millennio, modernizzazione e sviluppo significano ricerca, innovazione, istruzione, formazione professionale, servizi alle imprese, produzioni tecnologicamente avanzate, ospitalità qualificata e orientata - una serie di beni, prevalentemente immateriali, che trovano nel nostro territorio e nel nostro paesaggio un supporto di eccellenza. Questi valori dovrebbero stare alla base del patto politico fra diversi livelli istituzionali e fra istituzioni e cittadini, e se tutto ciò comporta un limitato consumo di nuovi suoli, anche in posizioni delicate, cioè se i progetti edilizi sono realmente finalizzati a una modernizzazione correttamente intesa, possono essere tranquillamente accettati e sostenuti fatta salva ovviamente la qualità dei progetti.

Il territorio e la politica dichiarata della Regione Toscana

Quanto detto finora sulla qualità dello sviluppo toscano e sulle tendenze in atto è confermato dal Piano di sviluppo regionale (PSR) 2006-2010, dove si afferma che “in ambito economico-sociale, l’analisi della distribuzione del reddito e della ricchezza segnala uno spostamento progressivo dalla retribuzione del lavoro a quella della rendita, e dai settori produttivi a quelli finanziari e immobiliari. Mentre a proposito del settore terziario del tempo libero - che in gran parte equivale ad attività turistiche - sempre nel PSR viene detto che “è necessario sviluppare competitività attraverso la valorizzazione del patrimonio ambientale, paesaggistico, culturale, e ridurre le rendite di posizione” e di seguito, sempre il PSR sostiene che nel ridisegno del sistema toscano “risultano favorite ... le aree turistico-rurali, dove un nuovo modello di sviluppo, ma anche il meccanismo della rendita e dell’investimento immobiliare, ha creato significativi flussi di reddito, non accompagnati però da livelli occupazionali stabili e qualificati. Risultano, invece, sfavoriti i sistemi produttivi locali basati sull’attività manifatturiera(PSR 2006-2010, p. 7).

Ma i principali documenti programmatici e strategici della Regione Toscana, vale a dire PSR e PIT sono condivisibili non solo per molti aspetti analitici, ma anche per quelli propositivi. In particolare per quanto riguarda il territorio, nel PSR ci si propone di “far emergere il valore immateriale rappresentato dal territorio, contrastando tutte le forme delle rendite di attesa; promuovere anche attraverso le politiche territoriali l’innovazione, salvaguardare e rafforzare il valore delle colline e delle coste e di tutte le altre eccellenze presenti sul territorio; generare coesione, dinamismo e governance territoriale cooperativa tra tutti i livelli istituzionali presenti” (PSR p. 31).

Un territorio che secondo il PIT deve essere inteso come “patrimonio ambientale, paesaggistico, economico e culturale della società toscana. Ma anche “un ‘veicolo’ essenziale con cui la nostra comunità regionale parteci­pa alla comunità universale dell’umanità e si integra nei suoi destini”. E ancora: il territorio è “un fattore costitutivo del capitale sociale di cui dispone l’insieme di antichi, nuovi e potenziali cittadini della nostra realtà geografica. Perciò, quale che sia la titolarità dei suoli e dei beni immobili che vi insistono, il territorio – nelle sue componenti fisiche così come in quelle culturali e funzionali – è comunque e pregiudizialmente il nostro patrimonio pubblico: che pubblicamen­te e a fini pubblici va custodito, manutenuto e messo in valore[3](Documento di piano, pp. 21, 22).

Potremmo aggiungere molte altre importanti affermazioni del PSR e del PIT che sono completamente condivise dai comitati. I comitati non solo sono d’accordo con queste analisi e questi obiettivi, ma intendono collaborare in quello spirito di partecipazione ‘bottom-up’ che deve integrare la componente ‘top-down’ delle decisioni.

Il territorio e la politica reale nella regione Toscana

Le dichiarazioni di principio di PSR e PIT sono importanti; ma sono anche impegnative? E se sono impegnative come sono tradotte in una prassi concreta?

Qui si situa una fondamentale discrasia fra fini e mezzi che deriva da una precisa scelta politica della Regione. La discrasia consiste nel fatto che l’adesione degli enti locali, dei Comuni in primis, agli obiettivi della politica regionale riguardante il territorio si colloca su un piano meramente volontaristico. Questa scelta è dichiarata e ribadita nel PIT al di là di ogni possibile dubbio. Cito fra le tante affermazioni: “Nessun Comune deve sentirsi sotto tutela.... E' un punto su cui la chiarezza dev’essere massima, a costo della ridondanza. Così come la ge­rarchia anche l’età del principio di conformità - quale chiave delle relazioni intergovernative - è de­finitivamente sepolta”. (Documento di piano, p. 82).

In sintesi, secondo il PIT, “perché la governance non scada a mero rito negoziale”, perché, cioè, si realizzi quel patto istituzionale e politico necessario affinché gli obiettivi del PIT non rimangano sulla carta, occorrono due pilastri fondamentali. Il primo pilastro è costituito da un’adesione, più ancora che politica, ‘etica’ alle finalità del PIT[4]. L’altro pilastro è la valutazione integrata che dovrebbe costituire il lato tecnico e ‘oggettivo’ della governance. (“la valutazione integrata è lo strumento indispensa­bile per dare sostanza alla governance territoriale, trasformando la sussidiarietà e l’autonomia lo­cale, che ne sono il presupposto, in cooperazione attiva invece che in tentazioni di isolamento par­ticolaristico o municipalistico ..... E dia testa e gambe a quel nuovo ‘patto’ che il Pit vuole rappresentare”[5]). E ometto molte altre citazioni che rafforzano questa posizione sostanziale che costituisce l’essenza della politica di governo del territorio della Regione Toscana.

Di fronte a una così palese contraddizione fra obiettivi politici e strumenti amministrativi viene da chiedersi se i nostri governanti abbiano perso ogni senso della realtà? Si immaginano forse che i comportamenti degli amministratori locali – fatto salvo il comportamento di tanti sindaci che operano con sostanziale correttezza siano rivolti esclusivamente al bene comune e che non vi giochi alcun altro tipo di interesse, né di politica personale, né economico? Che non sia possibile alcuna collusione fra politica e affari? Che le forze della rendita si facciano ammansire dalle buone parole? Poiché i governanti della Regione Toscana non sono così ingenui da credere di vivere in un mondo incantato, dove non esistono capitali leciti e illeciti in cerca di occasioni speculative, un mondo dove non esistono collusioni fra amministratori e il blocco del mattone, un mondo dove non esiste la corruzione, dove lo statuto del territorio, ancorché costituito da soli indirizzi, è la fonte e il parametro etico, di quel “senso del limite” con cui chi amministra come chi intraprende deve trattare un patrimonio (il territorio) tanto prezioso, quanto delica­to” (Documento di piano, p. 26); poiché, dicevamo, i nostri governanti, forse non sono in questo momento particolarmente sensibili alla tutela del paesaggio, ma certamente non ingenui, dovremmo pensare che gli obiettivi politici del PIT siano di altra natura rispetto a quelli dichiarati e che mirino ad una consensuale spartizione del governo del territorio fra Regione e Comuni, finalizzata alla conservazione di poteri collettivi e personali, con le Province relegate nel ruolo di convitati di pietra.

Una seconda risposta cui ci piacerebbe aderire (ma va dimostrata nei fatti) nasce dalla constatazione in parte condivisibile che le politiche di piano, le “politiche regolative” e in particolare la loro strumentazione giuridica non si realizzano senza un diffuso consenso; consenso che non può essere ottenuto ritornando a sistemi di pianificazione gerarchica, ma deve coinvolgere tutte le istituzioni. Questa secondo punto di vista anche se sottovaluta la potenza dei cambiamenti strutturali che abbiamo ricordato e delle conseguenti spinte ad un’utilizzazione privatistica del territorio, mirata allo sfruttamento di rendite di posizione, deve essere precisata e integrata sul piano degli attori cui viene sollecitato il consenso. Torneremo su questo punto che è centrale nelle conclusioni.

Di fatto in questi ultimi anni, già a partire dalla legge di governo del territorio del 1995 (che non differisce nelle finalità da quella attuale), le cose sono andate in tutt’altra direzione e non bastano certamente le esortazioni del PIT o del PSR a ribaltare corposi e consistenti interessi economici che si sono intrecciati con gli interessi politici di non pochi amministratori locali. L’affermazione che l’efficacia del piano regionale (di cui abbiamo già ricordato i virtuosi obiettivi) è affidata alla “capacità politica” dell’amministrazione regionale di alimentare e orientare la cooperazione tra i diversi livelli di governo del panorama istituzionale toscano. (Documento di piano, p.26), suona come ‘parola di re!’, dove la ‘capacità politica’, assurge a suprema garanzia del patto fra istituzioni e cittadini.

[…]

Nota

Il testo integrale della relazione di Baldeschi, comprese le note, è scaricabile in formato .pdf, adoperando il collegamento qui sotto.

Della relazione ci sembra che meritino particolare evidenza quattro aspetti.

1. Il progressivo spostamento degli interessi economici dalle attività produttive a quelle della “valorizzazione immobiliare”, che costituisce l’ambito di riferimento delle politiche territoriali del sistema delle istituzioni.

2. La sottolineatura della profonda ambiguità del PIT, delle leggi urbanistiche e dell’intera politica del territorio. In particolare, il gigantesco scarto tra le intenzioni enunciate, le denunce espresse, gli obiettivi dichiarati, e le concrete azioni mediante le quali si effettuano, si promuovono o si tollerano azioni di segno radicalmente opposto.

3. L’accento posto sulla questione del mancato rispetto della legalità: si va dall’ossimoro delle “Varianti delle invarianti” (sic), approvate da molti comuni, al mancato rispetto, nei “regolamenti urbanistici”, delle prescrizioni dei “piani strutturali”. L’unica possibilità di imporre il rispetto delle procedure di corretto governo del territorio diventa quindi il ricorso alla magistratura.

4. La precisione con la quale si definiscono sinteticamente le caratteristiche che dovrebbe avere un’azione di tutela, conforme al Codice del paesaggi, che voglia essere efficace: il piano deve essere prescrittivo e non di mero indirizzo; deve essere garantita la conformità degli strumenti urbanistici; deve essereverificato l’effettivo adeguamento delle strutture tecniche comunali.

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