. la Repubblica, 23 luglio 2017
In questo torrido e arido mese di luglio, i capi di stato del gruppo di Visegrad — la città ungherese dove nel 1991 si sono riuniti per la prima volta i rappresentanti dei paesi del centro ed est Europa — si sono incontrati a Budapest e hanno indirizzato una lettera-documento in tema di immigrazione al nostro governo. L’Italia, che si trova a presidiare molti chilometri di confini del territorio europeo, si è vista calare per bocca del leader ungherese Viktor Orbán, questo suggerimento che ha l’arroganza del comando: chiudere i porti e accettare le proposte dei paesi frondisti, che prevedono la gestione, con il sostegno dell’Ue, della politica di “protezione” dei confini europei, l’addestramento della guardia costiera libica, e nuovi codici di condotta delle Ong.
Il gruppo di Visegrad si prende una grande libertà di manovra rispetto sia a Bruxelles che a Roma. Al di là dell’insopportabile arroganza di questa lettera, alla quale Gentiloni ha risposto con giusta fermezza, è interessante comprendere il milieu ideologico nel quale è maturata. Una vecchia storia che torna attuale, come del resto le ideologie xenofobe e nazionaliste (per non dire fasciste).
L’Europa sta progressivamente acquistando due facce, riadattando un’antica divisione tra due concezioni della politica e dello spazio politico: una cooperativa e cosmopolita; una etnica e fondata su un’immaginaria identità nazionale pre-politica. Certo, questa distinzione non è così semplice perché ciascuna di esse ha avuto al proprio interno differenze non piccole, per cui anche le visioni cosmopolite si sono fatte strumento di politiche imperialistiche; e infine, nella dimensione nazionale vanno contemplate anche ispirazioni democratiche e repubblicane, come quella che aveva in mente il nostro Mazzini. Non quindi bianco e nero.
Tuttavia, le similitudini di famiglia ci sono; e riusciamo a riconoscere le fisionomie di un percorso di ispirazione cosmopolita e di un percorso nazionalista. Fino alla costruzione dell’Unione europea, quest’ultima è stata predominante e più familiare; quell’altra è restata dal Settecento quasi un sogno di visionari, associata all’illuminismo di Kant; il quale però non era un utopista, e aveva elaborato una teoria realistica su come fosse possibile coniugare pace e libertà: la nascita di governi costituzionali e di una politica limitata dai diritti (tra cui quello di uscire dal proprio paese e quindi di entrare in un altro) avrebbe mostrato l’utilità della pace anche a coloro che ragionavano solo per interessi e non per principi.
I trattati che da quello di Roma del 1957 si sono succeduti, hanno fatto dell’Europa un terreno di sperimentazione giuridica e politica della pace perpetua: i contraenti di quei patti hanno accettato di tenere i loro confini porosi, aperti ai beni e alle persone, distinguendo tra il principio della libertà di movimento e di lavoro dei cittadini dei paesi europei e il principio di accoglienza (che è principio di rispetto e aiuto non di inclusione politica) degli stranieri. Il patto di cooperazione, e poi via via di unione, ha cercato di tenere insieme questi due principi secondo criteri di convenienza e di umanità.
La condizione perché il compromesso tra interessi e principi regga nel tempo è che tutti coloro che accettano di sottoscrivere i trattati ne rispettino le ragioni e le norme. La condizione è che interessi e principi si limitino a vicenda, senza lasciare campo esclusivo a nessuno dei due, perché se il dispotismo della virtù distrugge la libertà, il dispotismo dell’interesse distrugge la cooperazione. Questo dosaggio è la condizione per la persistenza del patto tra interessi nazionali diversi e Paesi intenzionati a cooperare. La soluzione del problema europeo (che è il rischio di conflitti e guerre) si è mostrata possibile, e non utopistica, a questa condizione. Tale è il paradigma dell’Unione europea.
La divaricazione tra le due traiettorie che sta avvenendo sotto i nostri occhi, se non contrastata, può avere la forza di rovesciare la soluzione al problema europeo e di riportare al centro gli interessi nazionali come interessi divergenti e poco collaborativi. L’Europa degli ex imperi centrali e dell’ex impero comunista, di cui il populista Orbán si è fatto leader, è protagonista del risveglio della politica del filo spinato. Ma attenzione, non si tratta di una soluzione che mira a riportare le lancette dell’orologio a prima del 1957: questo nazionalismo populista è nato nell’Unione europea e si propone come una visione dell’Ue, alternativa a quella che aveva ispirato i fondatori.
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Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia |
I nuovi nazionalisti non sono così anacronistici da rivendicare nazioni isolazioniste. E per questo, Orbán, il primo leader di una democrazia populista sul territorio europeo, si candida a paladino dell’Europa: i confini dell’Ungheria sono, lo ha più volte detto, i sacri confini dell’Europa cristiana.
Così la pensano anche la Polonia e l’Austria, il paese che ha visto, trent’anni fa, il primo partito di destra xenofoba adottare una strategia populista per conquistare consensi e penetrare l’opinione pubblica. La lunga strada verso l’Europa nazionalista è cominciata proprio allora, insieme alla fine della Guerra fredda. Quella di oggi non è una scaramuccia orchestrata da alcuni leader scalpitanti, ma il segno di una sterzata verso una visione del continente che ha l’ambizione di essere nazionalista e xenofoba. In questa contingenza populista, l’Italia si trova a difendere i confini di un modello di Europa contro un altro, non semplicemente del territorio nazionale ed europeo.