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Carla Ravaioli
Le donne non appartengono alla politica
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Evidentemente non basta la buona volontà di un premier: servirebbe che la politica riprendesse contatto con la società, e che cambiasse qualcosa anche in questa. Da Aprileonline, 23 maggio 2006

Provo a immaginare la lunghissima notte di Prodi tra il 16 e il 17 maggio. L’elenco di ministeri e ministri mille volte scritto cancellato riscritto, telefoni a squillo continuo, inseguirsi di richieste di segno opposto, esigenze inconciliabili che si incrociano e scontrano, insindacabili diritti da non dimenticare, promesse portate all’incasso, ricatti e minacce appena e non sempre dissimulati, consiglieri che ne inventano di tutte, ma i conti ostinatamente non tornano. E via con ministeri che si sdoppiano, sottosegretariati che si moltiplicano… E’ fatta finalmente!

Oddio, le donne! Quante sono le donne? Appena due! Impossibile, che figura ci facciamo? Lascia perdere Zapatero, ma che siano almeno sei, come nel governo D’Alema… E ancora via con gli scorpori, l’invenzione di dicasteri nuovi di zecca, la crescita esponenziale dei sottosegretariati. Eccetera.

Magari non è andata proprio così, ma il senso del governo faticosamente partorito è questo: le donne non appartengono alla politica. Sono un’altra cosa, un’altra “categoria”, direbbe Berlusconi. Dopo trent’anni di femminismo, dopo una vastissima produzione di leggi a cancellare le più gravi discriminazioni a loro carico e ad agevolarne l’inserimento in tutti gli ambiti del pubblico e del sociale, le donne per il mondo politico rimangono una variabile esterna e assolutamente non determinante, sono qualcosa che si “aggiunge” al quadro politico via via definito dai governi, che non ha alcun potere di modificare in misura significativa. Le grandi e celebri eccezioni, da Golda Meir a Indira Ghandi a Margaret Thatcher a Condy Rice, sono in realtà eccezioni solo biologicamente.

Il discorso sui perché è quanto mai complesso e non è questa la sede per affrontarlo. Forse resta il fatto che la cultura, come la natura, “non facit saltus”, che trent’anni sono un nulla rispetto ai millenni della storia umana. Il portato della cultura lo si ritrova infatti anche dove meno lo si aspetterebbe. Vedi l’articolo 37, comma 1, della nostra Costituzione, il quale recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”

Un testo senza dubbio dettato dalle migliori intenzioni e, per l’epoca, anche notevolmente avanzato, che certo in anni di difficile emancipazione è stato la base per provvedimenti di sicura utilità. Un testo che comunque dice con tutta chiarezza: la cura della famiglia è il compito “essenziale” delle donne; la maternità riguarda esclusivamente loro, non solo come ovvio dal punto di vista biologico, ma per tutto quanto comporta di lavoro e di impegno; nulla cambia quando la donna è regolarmente inserita nel mercato del lavoro, al massimo può esserle concesso qualche pubblico ausilio, come appunto l’articolo dispone; nessun provvedimento del genere ha motivo di essere previsto per i padri; dunque la società - con pieno diritto e con tutta naturalezza - scarica interamente sulla popolazione femminile i compiti relativi alla riproduzione.

Dopo sessant’anni che hanno visto il mondo radicalmente trasformato, e quello femminile soprattutto, l’articolo 37, comma 1, della nostra Costituzione ancora resiste intatto. In contraddizione peraltro con provvedimenti legislativi di qualche decennio fa secondo cui anche i padri hanno diritto a “permessi di paternità”. E però in perfetta omogeneità con il fatto che sono pochissimi i padri che se ne avvalgono. Tutto si tiene. Ciò che pensano i politici, pensa anche la grandissima parte degli uomini. E forse dopotutto anche non poca parte delle donne? Le elette che non protestano abbastanza per essere così poche, come le elettrici che sono più numerose degli elettori e se volessero potrebbero regalarci un parlamento al femminile, come in questi giorni è stato notato?

Una proposta di revisione dell’articolo 37, comma 1, della Costituzione fu il primo atto di una mia breve stagione parlamentare. Proposta puntualmente finita dentro un cassetto di Palazzo Madama dove, suppongo, tuttora sta. Non sarebbe il caso che qualche nuova eletta riprendesse l’iniziativa? Il dibattito che ne seguirebbe, inevitabilmente trattandosi di una modifica costituzionale, non servirebbe ad approfondire il discorso di questo dopo-elezionii? E a capire perché di fatto, ancorta oggi, le donne non appartengono alla politica?

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