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Marina Catucci
Le donne in massa sfidano Trump
22 Gennaio 2017
Donna
Dalle donne degli USA e del mondo la prima risposta di massa al trumpismp. Articoli di Geraldina Colotti, Bia Sarasini, Marina Catucci. Presenti anche i maschi e altre minoranze.
Dalle donne degli USA e del mondo la prima risposta di massa al trumpismp. Articoli di Geraldina Colotti, Bia Sarasini, Marina Catucci. Presenti anche i maschi e altre minoranze.

il manifesto, 22 gennaio 2017


WASHINGTON È ROSA:
IN 600MILA SFIDANO TRUMP
di Marina Catucci
Stati Uniti. Donne, uomini, etero, gay, bianchi, neri alla Women’s March. «La resistenza comincia oggi», lo slogan di un corteo senza fine. Non solo la capitale: cortei anche nel resto degli States a Boston, New York, Chicago, Los Angeles. Una manifestazione lunghissima, incredibilmente numerosa, una città invasa di berretti rosa, simbolo de facto di questa marcia storica che ha invaso Washington ed è stata presente a New York, Chicago, Los Angeles, Boston ma anche a Sidney, Tokyo, Parigi.

La Women’s March, nata dall’idea di un gruppo di donne hawaiane due giorni dopo l’elezione di Trump, in poco tempo ha raggiunto una dimensione tale da non poter essere ignorata ed ha attratto l’adesione di praticamente tutte le associazioni americane che si occupano di diritti civili.

«Ogni volta che si fa un corteo serve un permesso del comune, per ogni gruppo che aderisce al corteo – dice Tim, 62 anni che lavora al comune di Washington ed è sceso a manifestare alla Women’s March – Questa volta abbiamo rilasciato più di 100 permessi».

Nella sola Washington, dove si aspettavano 200mila persone ne sono arrivate più del doppio, si parla di una folla di quasi 600mila composta da donne, uomini, americani, stranieri, etero, gay, tutti a dire che la resistenza comincia ora, che i diritti delle donne sono diritti civili e come tali verranno difesi.

«Sono ebrea ed ho 78 anni – dice Ruth – I miei genitori sono scappati dalla Germania nazista, io ho vissuto gli anni ‘50. Tesoro, quando vedo un fascista e un misogino lo riconosco, e lo combatto».

Per raggiungere il comizio che ha preceduto l’inaugurazione l’unico mezzo era arrivarci a piedi, le metropolitane, con i treni e le piattaforme stracolme di gente, non si fermavano alle fermate più vicine il concentramento in quanto la zona non poteva più accogliere altre persone.

Per cui una fiumana di gente rimasta a piedi ha composto svariati cortei di fatto che da vari punti, ben lontani da dove si sarebbe tenuto il comizio, è confluita nella zona prevista, senza poter arrivare nemmeno minimamente vicino al palco.

Sullo stage si sono alternati vari personaggi davanti all’immensa folla festante in modo liberatorio dopo la pesantezza della giornata precedente.

«Siete tantissimi, siamo tantissimi – ha detto Michael Moore evidentemente emozionato – ed ora bisogna continuare. Io, non ci crederete, sono un uomo timido, quando ho cominciato a fare ciò che faccio, in Michigan, avevo bisogno di ore per vincere la timidezza, e questo è ciò che ora dovremo fare tutti quanti, anche voi, è importante vincere le proprie resistenze e mettersi un gioco. In special modo politicamente: entrare nel gioco politico locale, la politica locale è fondamentale, difendete il vostro quartiere, la vostra città, questo difenderà il paese».

Uno degli interventi più applauditi è stato quello della giovanissima Sophie Cruz, 8 anni, diventata famosa quando, durante la visita del papa a Washington nel 2015, era riuscita a scivolare tra le transenne, abbracciarlo e consegnargli a una lettera scritta a mano con un appello per la riforma dell’immigrazione, in quanto i suoi genitori sono illegali.

La paura personale di Sophie per la deportazione dei suoi genitori l’ha resa una delle voci più giovani del movimento di riforma dell’immigrazione. La leader femminista Gloria Steinem ha descritto la mobilitazione in tutto il mondo come «il rialzo del rovescio della medaglia: si tratta di una iniezione di energia e di democrazia, come non ho mai visto nella mia vita, una vita molto lunga».

«A volte dobbiamo mettere i nostri corpi fisicamente là dove sono le nostre convinzioni – ha aggiunto – in special modo ora, con Trump che è un presidente impossibile».

Il colpo d’occhio che si vedeva per le strade di Washington era quello di un fiume rosa, formato principalmente dai cappellini di lana con le orecchie da gattino, pussy in inglese, o vagina, in riferimento a uno dei peggiori commenti di Trump riferiti alle donne. Moltissimi uomini si sono presentati con questo cappello, fieramente.

«Questo l’ha fatto mia moglie – dice Mitch, 35 enne della Virginia – È un simbolo fantastico anche perché fatto a mano, così come questa nazione, fatta dalle mani degli americani, quelli che sono in piazza oggi è che saranno in piazza per i prossimi 4 anni, se necessario anche tutti i giorni».

Gli slogan che risuonavano più frequentemente non è di timore, come invece nelle manifestazioni precedenti, ma di lotta. «La resistenza comincia», hanno detto tutti gli speaker dal palco .

«La resistenza comincia», ha detto l’attrice Ashley Judd, prima di cominciare il suo discorso sul significato dell’essere una donnaccia, una nasty woman, cattiva, così come Trump si era riferito ad Hillary Clinton durante un dibattito. «Io sono una nasty woman – ha affermato – ma ora vi dico cosa non fa una nasty woman», ed ha continuato elencando tutte le malefatte dei componenti del gabinetto di Trump, interrotta continuamente dal boato della folla che a quel punto era incontenibile e si espandeva in tutte le vie intorno la piazza.

«Manifestanti, non fate errori – ha detto dallo stesso palco l’attrice America Ferrera – Tutti noi, ognuno di noi, siamo tutti sotto attacco. La nostra sicurezza le libertà sono in estremo pericolo». Il messaggio di Ferrera era palpabilmente ricevuto, molti nel corteo indossavano sombreri, simboli nativi americani, magliette di Black Lives Matter.

Quando arriva l’ora della partenza del corteo in realtà il corteo è cominciato da un pezzo, le persone non hanno mai smesso di sfilare, ci sono manifestanti in ogni via di Washington.

«Chissà che twitterà oggi Trump – dice Ira, afro-americana – Forse farà finta di niente, ma è qua a Washington, se ha delle orecchie ci sente». Ignorare questa folla sarà difficile, Trump potrà provarci ma dovrà fare grossi sforzi, nessuno sembra intenzionato a restare a casa e tranquillamente guardarlo fare a pezzi i diritti civili.

UOMINI CHE MARCIANO
CON LE DONNE
di Marina Catucci

Tante donne, ma anche tantissimi uomini hanno partecipato ieri alla Women’s March: «È solo questione di tempo – dice Sam, giovane padre che indossa il berretto rosa e il rossetto mentre spinge il passeggino – Io sono un uomo bianco eterosessuale, la specie più protetta, ma ho portato qua mio figlio per insegnargli a rispettare le donne e per fargli capire che, se a una parte della società tolgono dei diritti, siamo tutti in pericolo».

UN PROGRAMMA POLITICO
CHE PARLA A TUTTE E A TUTTI
di Bia Sarasini

Sono centinaia di migliaia le manifestanti che, insieme a tantissimi uomini, si sono riversate per le strade di Washington, rispondendo all’appello della Women’s march contro Donald Trump. Si sono superate così le più rosee previsioni della vigilia, che stimavano 200.000 persone. Mentre altre centinaia di migliaia si sono radunate in altre città degli Stati Uniti, come Boston, ma anche nel resto del mondo. Una marcia che è stata caratterizzata da un programma politico inedito, che dai diritti delle donne si allarga e include tutte le minoranze.

Tutti coloro che sono oggetto di ingiustizie sociali minacciati dal feroce populismo di Trump.

Un atto esemplare della politica femminista di nuova generazione, che forte di una mobilitazione femminile travolgente parla a tutte e tutti. La marcia, dice il testo «è un movimento guidato da donne che porta nella capitale persone di ogni genere, razza, cultura, appartenenza politica, per affermare la comune umanità e un messaggio di resistenza e auto-determinazione».

«Raccogliamo l’eredità – prosegue l’appello – dei movimenti suffragisti e abolizionisti, dei diritti civili, del femminismo, dei nativi americani, di Occupy Wall Street», si riconoscono, tra le altre, leader come bell hooks, Gloria Steneinem, Betha Caceres, Audre Lourde, Angela Davis.

Al centro le differenze economiche, le differenze tra le donne di colore e quelle bianche, le disparità economiche tra razze e sessi. E si sostiene la libertà riproduttiva, e la libertà di scegliere il genere, e i diritti lgbtq.

Ma non solo. «Riconosciamo – scrive il documento – che le donne di colore sostengono il maggior peso del lavoro di cura, in patria e nel mondo globale. Sosteniamo che il lavoro di cura è lavoro, un lavoro quasi tutto sulle spalle delle donne, in particolare donne di colore».

Inoltre il testo sostiene un’economia giusta, trasparente e equa. E sostiene che tutti i lavoratori, compresi i lavoratori domestici e i contadini, hanno il diritto di organizzarsi e di lottare per un salario equo, compresi gli immigrati senza documenti.

«Crediamo – scrivono – che migrare è un diritto umano e che nessun essere umano è illegale».

Un programma ampio, complesso, che è una grande novità politica. Dal classico «i diritti delle donne sono diritti universali», si fa programma politico generale che guarda a tutta la società e propone un’alleanza a tutte le minoranze minacciate dal nuovo presidente. In tutto il mondo.

Il contrario del radical chic. Hanno partecipato attrici come Scarlett Johansson, Ashely Judd, ma anche una delle madri del femminismo come Gloria Steinem, il super-attivista Michael Moore.

E non è mancata l’irriverenza femminista, il pussy-hat (pussy sta per vagina), il cappello rosa sfoggiato dalle manifestanti, che è servito a raccogliere i fondi necessari.

IN MARCIA NEL MONDO
CONTRO IL TRUMP-MACHISMO
di Geraldina Colotti

Lo sfacciato maschilismo del neo presidente Usa ha unito le donne di tutto il mondo, che ieri hanno manifestato in oltre 600 piazze dei cinque continenti. Ad accompagnarle, le comunità Lgbt, quelle per i diritti civili e molti uomini, che hanno sfilato in ogni paese, dall’Australia alla Nuova Zelanda, dall’America latina all’Europa. La «Women’s march» contro le discriminazioni di genere ha portato in piazza milioni di persone: a Parigi, a Berlino, a Roma, a Pristina (in Kosovo), a Buenos Aires, ad Accra (in Ghana), a Nairobi (in Kenya, dove si trovano le «radici» di Obama). Sono arrivate immagini persino dall’Antartico.

Milioni di berretti rosa, per riprendere i simboli lanciati dalle statunitensi, hanno unito la protesta contro le discriminazioni di genere a quella per la difesa dei diritti globali. Molti anche i cartelli contro la repressione e il militarismo, in una gara di creatività stimolata dal grottesco personaggio Trump.

Trump, «You are not my president», dicevano i cartelli in Australia e in Nuova Zelanda, moltiplicando il grido delle donne statunitensi. Migliaia di persone hanno sfilato a Sydney e a Melbourne, a Wellington e Auckland. In Sudafrica, qualche centinaia di persone ha marciato a Durban per dire che «nella nostra America, siamo tutti uguali».

A Parigi hanno sfilato almeno 7.000 persone chiedendo «respect pour les femmes américaines»: rispetto

per le donne americane, ferite dalle dichiarazioni e dai comportamenti del miliardario Usa. Marce di protesta anche in altre città francesi, e cartelli di solidarietà per «le sorelle nere, lesbiche e trans che dovranno vivere per quattro anni con un presidente che avversa i loro diritti e la loro esistenza».

Ad Amsterdam, circa 4.000 persone si sono scambiate «coccole gratuite» (free Hugs) davanti al consolato Usa. Alcuni hanno innalzato cartelli contro «l’odio, il razzismo, il sessismo e la paura», altre pancarte dicevano «Make America sane again», invitando l’America a tornare alla ragione. E ancora: «Donne, non oggetti», uno degli slogan della pagina Facebook da cui è partita la protesta delle donne statunitensi. Tra le «perle» vomitate da Trump nei mesi di campagna e prima, c’è stata infatti anche quella secondo cui «le donne sono dei begli oggetti», da prendere per la vagina.

A Ginevra, circa 2.500 manifestanti di ogni generazione hanno sfidato il freddo per gridare: «Ponti e non muri», per rivendicare la disobbedienza («la resistenza è un dovere quando l’ingiustizia diventa legge»), o per ricordare che «il cambiamento climatico è reale». A Berlino, i dimostranti (circa 700) si sono ritrovati davanti alla porta di Brandeburgo, di fronte all’ambasciata Usa, per gridare «Il popolo unito non sarà mai battuto». A Praga, il giovane cantautore Adam Misik, idolo dei giovanissimi, ha cantato «Let It Be», dei Beatles, ripresa da circa 300 manifestanti. E a Lisbona, diverse centinaia di persone, statunitensi e portoghesi hanno gridato davanti all’ambasciata Usa che «Trump è una vergogna per l’America» e «No alla violenza sulle donne». Dello stesso tenore le manifestazioni a Barcellona.

A Roma, oltre 500 le manifestanti che si sono ritrovate davanti al Pantheon insieme a numerosi uomini: per condividere i temi della «Women’s march», per dire «no alla guerra» (rete Wilpf), e ribadire il No alla violenza sulle donne, che ha di recente portato in piazza oltre 200.000 donne. Un movimento globale, che sta unificando i contenuti forti di un nuovo mondo in cammino, provando ad amplificare la voce di tutti i sud del mondo.

Anticipato dallo sciopero generale delle donne polacche, lo sciopero globale ha spinto tutte ad astenersi da ogni tipo di attività: in un’azione mondiale che ha raccolto la proposta delle donne latinoamericane, iniziata dalle argentine. Un’iniziativa che si ripeterà per l’8 marzo al grido di «Non una di meno» e che – per l’Italia – porterà a una nuova tappa il lavoro dei tavoli tematici nati dal 26 novembre e dal prossimo appuntamento di Bologna, il 4 e 5 febbraio.

Le donne latinoamericane sono state presenti anche ieri, coniugando i temi di genere a quelli della dignità, del lavoro, dei diritti umani e dell’antimperialismo. In Argentina, la protesta contro Trump si è unita a quella contro il miliardario presidente Macri, che governa a colpi di privatizzazioni e licenziamenti. Si è manifestato anche contro la visita del presidente messicano Peña Nieto e contro le basi militari Usa, già decise da Macri e Obama e di certo confermate da Trump.

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