La metropoli dicono che è morta. E' stata prima accerchiata da grigie periferie. Poi, in seguito alla fuga delle élite in enclave presidiate militarmente, lo spazio lasciato libero e quello abbandonato ai suoi confini è stato occupato da squatters. Nell'arco di poco meno un secolo le «città degli abusivi» sono infine diventate una presenza stabile nello sprawl metropolitano, perdendo quella transitorietà che le aveva rese degne di nota solo nelle cronache cittadine di giornali in quanto humus per la criminalità o per la militanza rivoluzionaria. Gli slums, le favelas, le bidonville, i ghetti sono quindi diventati una forma di vita complementare a quelle esistenti nelle cosiddette città legali. Hanno proprie regole, consuetudini, relazioni e rapporti sociali. Ma pornografica è quella retorica bohemien che spesso li descrive come «zone permanentemente autonome» o, come talvolta sentenzia lo studioso francese Serge Latouche, prodromi di un'economia alternativa a quella capitalistica. Le città illegali crescono e si moltiplicano semplicemente perché soddisfano un bisogno, la casa, che l'economia di mercato non riesce a garantire. E una volta soddisfatto quel bisogno primario, gli abitanti pensano soprattutto a sopravvivere.
Sfuggire allo stigma della marginalità o, all'opposto, dell'autenticità della vita negli slums è quindi compito arduo. Recentemente, Mike Davis ha compiuto, nel libro La città degli slums (Feltrinelli, il manifesto del 28 ottobre 2006), un'operazione di verità quando li ha descritti come realtà sociali contraddittorie, dove vivere è difficile, anche oramai sono più di un miliardo di uomini e donne che vivono negli slums e il numero è destinato a salire fino a diventare la maggioranza della popolazione mondiale. L'ambito titolo di capitale del XXI secolo è quindi conteso da nomi sconosciuti e che sono invisibili sia nelle mappe dettagliate di quelle città globali che, diversamente da Davis, la studiosa Saskia Sassen ha indicato come il presente e il futuro della metropoli sia nelle incerte cartografie delle megalopoli del Sud del mondo.
Sulla stessa tracce del libro di Davis, è in arrivo nelle librerie un lungo reportage su quattro slums - Kibera a Naiorobi, Rocinha a Rio de Janeiro, Sanjay Gandhi Nagar a Mumbai, Sarigazi a Istanbul -, scritto da Robert Neuwirth ( Città ombra, Fusi orari edizioni, pp. 285, euro 15). Questo novello flâneur del XXI secolo introduce il suo lungo viaggio con un'affermazione provocatoria: le favelas sono i luoghi metropolitani più sicuri del Brasile, visto che i narcotrafficanti impongono la loro ferrea law and order.
Anche per Neuwirth, le «città ombra» sono sì il paradigma della metropoli che verrà, ma anche la password per accedere alla comprensione dell'evoluzione della proprietà privata nel capitalismo contemporaneo. Negli slums, infatti, è all'opera una contraddizione stridente, perché il terreno dove crescono le città ombra è talvolta privato, spesso pubblico, mentre le case costruite dopo un'occupazione «illegale» sono di proprietà di chi le ha costruite.
Tra possesso e usucapione
Due diritti di proprietà che entrano spesso in conflitto. Un conflitto che «produce» sofisticate mediazioni, contrattazioni, reciprocità nei comportamenti che costituiscono nel loro insieme una specie di common law nella quale la proprietà coincide più con il prendere possesso (della casa) e l'uso (del terreno, l'antico usucapione) che non con la prerogativa esclusiva su un bene. Quella common law basata sul possesso e sull'uso rappresenta tuttavia una latente critica dei diritti proprietari consolidati, come dimostrano i ripetuti conflitti tra la stato (in quanto proprietario della terra), i proprietari terrieri e gli abitanti degli slums.
Ad accorgersi del pericolosità politica di questa situazione è stato uno dei massimi esperti mondiali di slums, il sociologo peruviano Hermando De Soto, che sostiene l'assegnazione di diritti di proprietà agli squatters in quanto misura necessaria affinché gli «spiriti animali» del libero mercato possano finalmente insediarsi nelle «città ombra». In primo luogo, perché favorirebbe la crescita di quell'economia della sussistenza fatta di piccolo commercio, attività artigianali, lavoro a domicilio o piccoli laboratori che lavorano in subappalto per i colossi dell'abbigliamento. Un'economia che costituirebbe, secondo De Soto, la via maestra alla «domesticazione» degli slums senza nessun intervento statale. Inoltre, nella proposta di De Soto, l'assegnazione dei diritti di proprietà legittimerebbe lo stato all'interno delle città d'ombra attraverso uno «scambio politico»: legalizzazione dello slums e diritti di cittadinanza in cambio dell'accettazione del principio di legalità e di sovranità statale.
Neuwirth dedica espressione sarcastiche alla lettura neoliberista dell'economia politica degli slums svolta da De Soto, ma riconosce che il problema della proprietà della terra e della casa è la posta in gioco negli slums, arrivando però a sostenere che la scelta fatta in alcuni slums africani o in alcune favelas brasiliane - l'acquisto in cooperative dei terreni - è il modello da perseguire per dare stabilità a realtà sociali sempre sul crinale dello sfratto violento o dell'intervento di gruppi paramilitari armati dai «palazzinari». Per quanto riguarda i diritti di proprietà il suo giudizio non è meno tenero, perché vede negli slums il primato del possesso della casa su quello della proprietà, arrivando a sostenere che ogni tentativo di regolamentarli è destinato al fallimento.
Il libro di Neuwirth è costruito come un diario di viaggio che tiene il lettore avvolto nelle piccole o grandi esperienze della vita quotidiana. Si narra di occupazioni di terre incolte, di paludi, di discariche, della fatica di costruire la casa, ingrandirla, renderla ospitale, dei mille espedienti per migliorare le condizioni di vita della «comunità». Quartieri invivibili nelle mappe ufficiali, nel corso di mezzo secolo sono però diventati quelle città nella città abitate oramai da centinaia di migliaia se non milioni di persone «abusive» che rende i «legali» una minoranza. Se gli abitanti degli slums, avverte l'autore, decidessero di dare vita a propri partiti o votare propri rappresentanti nel consiglio comunale conquisterebbero nell'arco di qualche lustro il controllo del governo cittadino.
Per il momento, però, le forme di autorganizzazione degli slums servono soprattutto a tessere le maglie di una vita sociale prima di allora inesistente. Solo raramente entrano in rapporto con l'autorità politica. E quando questo accade è dovuto alla minaccia del governo cittadino di demolire lo slum o quando matura all'interno della «comunità» la richiesta di accedere a quei servizi pubblici - luce, gas, acqua, trasporti - ma questo avviene quando oramai lo slums è consolidato. Fino ad allora, l'inventiva degli abitanti regna sovrana.
Così, a Rio de Janeiro ci sono i gatos, i gatti, cioè gli uomini «specializzati» nel salire sui tralicci per allacciare «illegalmente» la corrente elettrica, oppure quando vengono costruiti immensi pozzi neri in sostituzione delle fogne. C'è poi qualcuno che «pirata» il segnale dello tv satellitare e lo diffonde nella favelas, facendo decollare piccole imprese che fanno della violazione della legge la loro ragione sociale. D'altronde, sull'economia degli slums Robert Neuwirth insiste molto. Scettico sulla possibilità che quello delle favelas costituisca un modo di produzione alternativo al capitalismo, considera le attività lavorative e «imprenditoriali» degli slums esempi tipici di un'economia di sussistenza, anche se annota che una volta che uno slum si è consolidato arrivano le imprese «legali» e cominciano a fare affari con i suoi abitanti.
Arrivano le imprese
Accade così che le banche aprano loro succursali all'ingresso degli slums, mentre cloni locali di McDonald's non esistano a vendere hamburger, pollo fritto e patatine, facendo affari d'oro (accade a Rio, ma anche a Mumbai). Ma quello degli slum attuali è un déjà vu, sostiene l'autore. Metropoli come New York, Chicago, San Francisco, Los Angeles sono infatti diventate le capitali del XX grazie agli squatters che hanno colonizzato il territorio e così hanno consentito, in questo effervescente milieu tra legalità e illegalità, la loro crescita.
Gli slums costituiscono dunque per Neuwirth il futuro, ma anche il presente e il passato della metropoli, quasi che non ci sia stata discontinuità nelle sviluppo degli aggregati urbani. Più realisticamente, invece, così come le città globali sono il centro di coordinamento dell'economia mondiale, possiamo tranquillamente affermare che gli slums sono oramai nodi di quella stessa economia mondiale, come dimostrano le centinaia di laboratori dell'abbigliamento che prosperano nel quartiere bidonville di Mumbai descritto nel libro. Oppure che la «cultura di strada» di Rochina è la linfa vitale per l'hip-hop, non solo per la sua capacità di innovazione nello stile, ma anche per la produzione in senso stretto, mentre a Istambul gli abitanti di Sarigazi costituiscono quella fanteria leggere del capitale che si sposta nella città legale per far funzionare le piccole, grandi imprese di Istanbul. Le «città ombra» non sono un «mondo a parte», ma il frutto di quel diritto di fuga praticato da uomini e donne che vedono negli slums sono una tappa di una aspra, seppur ambivalente fuga verso la libertà.