Ci sono norme che hanno un altissimo valore simbolico anche se nella pratica soccorre il buon senso di non applicarle. La norma del pacchetto Pisanu che consente di mettere in galera fino a due anni una donna con addosso il burqa o il chador è una di queste, e a nulla serve limitarsi a sperare, come ha fatto qualcuno, che non possa essere applicata a chi si copre per motivi religiosi: nell'immaginario razzista che monta in queste tormentate settimane, essa viene già applicata e con soddisfazione. Le istanze «femministe» di chi dall'11 settembre perora la «liberazione» delle donne da veli, chador e burqa a colpi di leggi o di bombe gettano la maschera più eclatantemente in Italia che altrove. Altrove, ad esempio in Francia, il divieto di portare il velo nelle scuole è stato accompagnato da un amplissimo dibattito pubblico e sostenuto da tutt'altre argomentazioni. Si tratta pur sempre a mio avviso, come già mi è capitato di scrivere su questa colonna, di un cattivo divieto, e di cattive argomentazioni: la laicità intesa come neutralizzazione, l'uguaglianza fra i sessi intesa come omologazione, la libertà intesa come dettato normativo con effetti liberticidi. Ma il Rapporto della Commissione Stasi che ha ispirato la legge francese merita comunque di essere letto come esempio illuminante dei paradossi in cui può cacciarsi l'universalismo occidentale; e la discussione che ne è seguita nell'opinione pubblica francese ha meritato comunque di essere seguita come esempio illuminante delle ragioni a difesa, a correzione o contro di esso.
Nell'Italia berlusconiana tutto è più semplice e più elementare: una legge penale e via. Due anni di galera e la questione è risolta. Le donne velate vanno «liberate» con la repressione: la galera vera, della legge penale occidentale, al posto della galera simbolica, della religione e del patriarcato islamico, dell'abito. Qualcosa di minaccioso - un codice sessuale intraducibile nel linguaggio occidentale dell'ostentazione del corpo - si cela dietro il velo, e questo è a ben leggere il messaggio «velato» della legge francese. Quel qualcosa diventa minacciosissimo - un'arma, una bomba, un kamikaze - nella norma italiana, che lì, nel viso femminile velato, trova modo di incarnare e incardinare il fantasma assoluto del pericolo incombente. E il delirio di onnipotenza del controllo assoluto: un kamikaze a viso scoperto non si può - purtroppo - riconoscere e arrestare preventivamente, una donna velata sì. Lì sta l'ignoto, lì sta la preda, lì sta la presa.
Di nuovo troviamo donne, corpi femminili, come posta in gioco del cosiddetto scontro di civiltà. Il passaggio all'inciviltà è questione di poco. Piccole norme paradossali apparentemente con scarse possibilità di essere applicate. All'immaginario bastano minuscoli slittamenti per scavarsi delle autostrade.
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