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Alexander Stille
Le banche e le accuse ai pm
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Ciò che gli autorevoli editorialisti del Corriere vedono, e ciò che, per faziosità, nascondono negli scandali italiani, da la Repubblica del 2 gennaio 2006

Adesso che l´Italia si trova nuovamente investita dallo scandalo – le indagini sui manager di Antonveneta, Unipol e Banca d´Italia, l´inchiesta sulla possibile tangente data da Berlusconi a un importante testimone in uno dei suoi processi – apprendiamo da alcuni autorevoli editorialisti del Corriere della Sera che la colpa non è di quanti hanno commesso quei reati, bensì di coloro che hanno osato indagare su di loro o denunciarli (ufficialmente).

Nel suo ultimo articolo intitolato "La Sinistra e il moralismo" Angelo Panebianco ha espresso la preoccupazione che l´Italia, e in particolare la sinistra, stia riprendendo il "vizio nazionale" di moraleggiare sulla corruzione e di demonizzare Berlusconi, facendo ritorno ai tempi di Tangentopoli, quando le indagini dei giudici non erano altro che "una caccia alle streghe…un regolamento di conti fra bande, mascherato da lotta tra la Virtù e il Vizio".

Bisogna ammettere che Panebianco fa notare qualcosa di molto intelligente su cui vale la pena riflettere, e specificatamente che la corruzione in Italia è sistemica per sua natura, ed è dovuta al fatto che in Italia politica ed economia sono profondamente saldate tra loro. «Per ragioni storiche il capitalismo italiano vive in simbiosi con lo Stato e la politica», scrive Panebianco, con ciò significando che coloro che detengono il potere politico - siano essi di destra o di sinistra - inevitabilmente saranno tentati di agevolare gli interessi cui essi guardano con simpatia e di ostacolare coloro che dovessero ritenere sfavorevoli. Qualcosa del genere può essere accaduto su entrambi i fronti dell´attuale scandalo bancario, con i leader Ds che hanno appoggiato Unipol, e il centrodestra che ha lavorato dietro le quinte a favore di Fiorani e di Antonveneta.

Quando trae le sue conclusioni – affermando che la colpa è dello spirito anticapitalista moraleggiante della sinistra italiana - Panebianco esce malamente fuori rotta. «Per giunta, se in Italia non cambiano gli atteggiamenti diffusi (non solo a sinistra) sul mercato, non sarà mai possibile disciplinare i conflitti di interesse, da quello palese di Berlusconi a quelli occulti dei suoi avversari. Per la sinistra, soprattutto, sbarazzarsi del moralismo è difficile. Anche perché è stato uno strumento di lotta contro Berlusconi. Ma è un´arma controproducente».

È una vecchia, deprecabile storia il fatto che le più autorevoli voci del Corriere, nei momenti cruciali, paiano sempre e inevitabilmente dare una mano, conforto morale e giustificazioni intellettuali alle anomalie estreme del fenomeno Berlusconi. Da dieci anni ormai Panebianco, Sergio Romano ed Ernesto Galli della Loggia sembrano sempre trovare un maggior numero di colpe nei magistrati che portano alla luce la corruzione, rispetto a coloro che hanno infranto la legge, e sdrammatizzano l´importanza dei conflitti di interesse di Berlusconi con un migliaio di "distinguo" e di cavilli.

Dopo aver dato in origine il suo appoggio all´indagine di Mani Pulite, Galli della Loggia avanzò poi la curiosa tesi secondo cui i magistrati non avevano il diritto di perseguire i crimini di corruzione politica perché in precedenza non l´avevano mai fatto: «Ancora una volta, una domanda: perché, con l´eccezione di pochi casi, gli inquirenti in Italia prima del 1992 non hanno perseguito i reati di corruzione politica?» scrisse nel settembre del 2002. Oppure: «E perché dopo quella data la procura di Milano e a volte quella di Napoli e alcune della Sicilia sono le uniche ad avere condotto indagini accurate e penetranti in quella direzione? (…) È possibile esprimere un´ipotesi ideologico-politica? (…) Che la personalità, l´amicizia, la visione del mondo, il punto di vista di questo o quel magistrato ne abbia influenzato la condotta?». In altre parole, poiché soltanto un´esigua minoranza di magistrati italiani si era presa la briga di perseguire i reati di corruzione politica, devono aver agito per qualche profonda animosità politica, ideologica o personale.

Questa posizione era tanto sbagliata sul piano fattuale quanto sul piano razionale. L´ufficio del procuratore di Milano, in particolare, aveva avviato numerose indagini su importanti casi di corruzione – il caso Sindona, il caso della P2, i fondi neri dell´Iri, il caso della corruzione nella metropolitana di Milano, per citare soltanto quelli più importanti: poi però o erano stati riassegnati a Roma, dove erano stati "insabbiati", oppure il Parlamento italiano aveva negato il diritto di portare avanti le indagini. Così, stando a quanto afferma Galli della Loggia, i procuratori di Milano in qualche modo hanno fatto qualcosa di male cercando di applicare la legge, perché spesso in passato era stato loro impedito di farlo. Pertanto oggi è disdicevole che i procuratori di Milano, di Napoli e della Sicilia cerchino di portare avanti le indagini (che si ammette essere "accurate e penetranti") sulla corruzione, perché alcuni loro colleghi di altre sedi non sono riusciti a farlo. Tutto ciò è particolarmente assurdo alla luce del fatto che i procuratori milanesi hanno ormai dimostrato che corrompere i giudici era una prassi usuale a Roma; ma sono stati i magistrati che hanno scoperto i casi di corruzione a buscarsi tutto il disprezzo di Galli della Loggia.

Analogamente, anche Sergio Romano si è schierato pressoché inevitabilmente con Berlusconi contro i suoi accusatori. Quando Cesare Previti è stato incriminato per aver corrotto i giudici di Roma, Romano ha deciso di indignarsi non tanto per il fatto che l´avvocato personale del primo ministro era stato giudicato colpevole di aver scritto i nomi dei giudici nel suo libro paga, bensì per le parole adoperate dalla Corte nella sentenza che descrive la spirale di corruzione che ha invaso il Palazzo di Giustizia di Roma: «Una gigantesca opera di corruzione…Il più grande caso di corruzione nella storia, non solo d´Italia…".

Focalizzandosi su alcune frasi estrapolate dalla sentenza, Romano ha cercato di trasformare lo scandalo della corruzione dilagante nella cerchia romana degli intimi di Berlusconi nello scandalo dei procuratori di Milano. Insieme agli incessanti attacchi ai procuratori sugli organi di stampa di proprietà di Berlusconi, questi editoriali – che apparivano regolarmente ogni qualvolta i problemi legali di Berlusconi venivano in primo piano – hanno avuto il risultato di sdrammatizzare l´effetto del crescente accumularsi di prove sulle colpe del premier e dei suoi intimi. La colpa, se mai c´era, era dei procuratori: quante più prove di attività criminale essi trovavano, tanto più esse erano semplicemente indice della malvagità e dell´animosità ideologica e personale da essi riservata a Berlusconi.

Ricorrendo a ragionamenti al tempo stesso eruditi e tortuosi, essi hanno usato la loro considerevole intelligenza per rendere complicato ciò che di fatto è assai semplice: la persona proprietaria della più grande società privata del Paese non dovrebbe avere l´incarico di guidare il governo; il più importante proprietario di mezzi di comunicazione in Italia non dovrebbe altresì controllare il sistema dell´emittenza radiotelevisiva statale; e un uomo la cui azienda è indagata per qualche reato – prima che egli entrasse in politica – non dovrebbe essere responsabile del sistema della giustizia penale.

Il Corriere, in quanto voce della borghesia illuminata del nord, avrebbe potuto rivestire un ruolo assai importante costringendo Berlusconi ad attenersi alle più elementari leggi democratiche. Avrebbe potuto spiegare, con credibilità (come spesso ha fatto Giovanni Sartori, una voce isolata), che il conflitto di interessi non è un problema ideologico tra sinistra e destra, ma soltanto una regola di base della governance democratica.

Panebianco ha ragione quando afferma che il problema italiano è strutturale e non morale; ma sbaglia non vedendo che il conflitto di interessi è profondamente strutturale, che peggiora esponenzialmente e legittima la già grave simbiosi tra politica e business. Consentire all´uomo più ricco del Paese di guidare il governo è un´alterazione strutturale del sistema, nella direzione sbagliata. Panebianco e i suoi colleghi dovrebbero chiedersi che cosa sarebbe stato dell´attuale scandalo bancario – che al momento essi lodano come gestito in modo altamente professionale e imparziale –, se i tentativi del governo di Berlusconi di mettere la magistratura sotto il controllo politico diretto fossero andati in porto. Avremmo mai saputo niente delle malefatte di Antonveneta, Unipol e Banca d´Italia se fosse stato coronato da successo il tentativo del governo di abolire le intercettazioni telefoniche della polizia e di limitarle soltanto ai crimini più violenti?

(Traduzione di Anna Bissanti)

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