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Lavoro. Precarietà e reddito di cittadinanza
8 Giugno 2011
Capitalismo oggi
Analisi e proposte per la rinascita del lavoro dalle attuali condizioni di sfruttamento estremo, in una recensione di Andrea Fumagalli al libro di Guy Standing e un’intervista di Roberto Ciccarelli a Luigi Ferraioli. Il manifesto, 8 giugno 2011

UTOPIE CONCRETE


Una politica per il paradiso

di Andrea Fumagalli



La nuova divisione del lavoro e le stigmate della precarietà in un saggio dello studioso inglese Guy Standing.

«Il 1 maggio 2001, quasi 5000 persone, per lo più studenti e giovani attivisti sociali, si riunirono nel centro di Milano per una parade che si voleva alternativa alle tradizionali dimostrazioni del 1 maggio. A partire dal 2005, la partecipazione alla MayDay parade si è ingrossata sino a interessare dalle 50.000 alle 100.000 persone .... ed è diventata pan-europea (EuroMayday), con centinaia di migliaia di uomini e donne, la maggior parte giovani, che si riprendevano le strade delle città dell'Europa continentale. Queste dimostrazioni furono il primo segnale dell'agitazione del precariato». Con queste parole, si apre il libro di Guy Standing The Precariat. The new dangerous class (Bloomsbury, pp. 198). Guy Standing, docente di Economic Security all'Università di Bath, è un profondo conoscitore della dinamica del mercato del lavoro globale, grazie anche ai numerosi anni nei quali ha prestato servizio presso l'Ilo (International Labor Office) a Ginevra, prima di essere allontanato per le sue posizioni non del tutto allineate.

In questo saggio (di cui si auspica la traduzione in italiano), si analizza la nuova composizione internazionale del lavoro, esito dei processi di trasformazione del sistema di accumulazione e valorizzazione degli ultimi decenni e della recente crisi economica globale. Per far ciò è necessario introdurre nella lingua inglese alcuni neologismi: precariat per indicare il soggetto sociale, precariousness per indicarne la condizione socio-economica.

Che cosa è oggi il precariato? A differenza dei lettori italiani, per i quali il lessico della precarietà è entrato a far parte del gergo corrente proprio grazie alla Mayday e per i quali esiste una saggistica avviata da tempo (basti pensare ai «Quaderni di San Precario»), per un lettore anglosassone, la domanda è invece, tutto sommato, nuova.

La risposta di Standing è, allo stesso tempo, semplice e complessa. Semplice, perché afferma che il precariato è una «una classe in divenire, non ancora una classe in sé, nel senso marxiano del termine»). Ne consegue che il tradizionale armamentario analitico-politico che è stato forgiato, sperimentato e innovato nel corso del Novecento a proposito della classe operaia e del proletariato come classe omogenea diventa inutilizzabile. Complessa, perché definire una «classe in divenire» implica una metodologia di analisi nuova, in grado di definire in modo rigoroso l'eterogeneità dei confini del precariato, coglierne appunto le differenze per ricomporle ad un livello superiore e diverso.

A tal fine si può procedere in due modi. Il primo è fornire una definizione per negazione. Fa parte del precariato colui o colei a cui mancano alcuni elementi di sicurezza economica e sociale. In proposito, Standing ne individua sette: la sicurezza di essere occupabile nel mercato del lavoro, la sicurezza dei diritti del lavoro contro discriminazioni, licenziamenti senza giusta causa, sicurezza del lavoro a partire dai livelli di professionalità o dagli infortuni e la salute, la sicurezza della formazione, in grado di favorire avanzamenti di carriera, la sicurezza di reddito in termini di continuità e decenza e, infine, la sicurezza della rappresentatività in termini sindacali e contrattuali. Se dovessimo definire la condizione precaria secondo questo schema, è possibile individuare diversi gradi di precarizzazione, che subiscono una brusca accelerazione dopo la crisi del 2008, sino a dire che a livello globale quasi tutti i segmenti di lavoro ne sono coinvolti. Al punto di arrivare a affermare che oramai, nessun lavoratore è esente da qualche forma di precarietà.

Il secondo modo è definire la precarietà sulla base di alcuni elementi che la caratterizzano in modo omogeneo. Standing ne individua quattro (le quattro A): acredine-rabbia, anomia, ansietà, alienazione. Essi rappresentano la frustrazione del precariato, all'interno di processi di individualizzazione del lavoro che ne favoriscono l'accentuazione. Ed è dall'analisi di questa componente psico-fisica che si può capire il sottotitolo del libro: «la classe pericolosa». Secondo Standing, infatti, le diverse componenti del precariato, dai migranti alle donne che svolgono lavoro di cura, ai contadini espropriati dalle terre, agli operai sfruttati nei sweatshops dell'ovest e dell'est del mondo, ai precari del terziario materiale (dal trasporto ai centri commerciali) e immateriale (dai call-center alle università e editoria) sono inseriti in contesto di forte concorrenza e di dumping sociale favorite da quella «politica dell'inferno» che i policy makers neoliberisti hanno fomentato come strumento di divisione e di controllo. All'interno di questi contesti, fenomeni razzisti, nichilisti, corporativi sono all'ordine del giorno e impediscono lo sviluppo di una presa di coscienza e di soggettivazione per far sì che la precarietà si trasformi in vera classe sociale.

Per opporsi alle «politiche dell'inferno», occorre promuovere ciò che Standing chiama una «politica del paradiso» fondata su alcuni obiettivi universali in grado di favorire quel processo di ricomposizione delle diverse soggettività precarie, oggi frammentate e spesso in lotta fra loro. Dai diritti sul lavoro si passa alla libertà di movimento e di occupazione, dalla critica ai processi di workfare e di smantellamento del welfare state alle politiche pubbliche di accesso ai servizi di base, dalla formazione e libertà di accesso alla conoscenza alla necessità di controllare e ridurre il tempo di lavoro. Tra questi due obiettivi meritano un breve approfondimento: la «riscoperta» dei beni comuni (commons) e la proposta di un reddito minimo incondizionato (basic income). Questi due obiettivi vengono analizzati in modo complementare. Standing, che è anche co-presidente della rete «Basic Income Earth Network» (Bien) individua basic income una sorta di risarcimento per l'espropriazione dei commons che la dinamica capitalistica ha effettuato nei secoli. Da questo punto di vista, il basic income è lo strumento più idoneo per riappropriarsi dei beni comuni naturali e immateriali.

A questo libro, ricco di suggestioni che non è possibile qui ricordare in modo compiuto, dovrebbero seguire altre ricerche tese ad approfondire i cambiamenti nei processi di creazione di ricchezza in un contesto di sfruttamento intensivo del bios umano, nonché delle nuove forme di divisione cognitiva del lavoro che, all'indomani della crisi del paradigma fordista, si sono dipanate nel processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell'economia mondiale. Se il precariato è «una classe in divenire», anche l'analisi di tale condizione lo deve essere.

Reddito di cittadinanza

Il diritto universale alla vita


Intervista di Roberto Ciccarelli con il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli

Dopo la politiche neoliberiste attuate da governi conservatori e progressisti, la sinistra deve tornare a proporre soluzioni che impediscano la riduzione del lavoro a merce

«La sinistra deve capire che il reddito base universale, anche se è difficile da realizzare, dovrebbe oggi rappresentare il principale obiettivo di una politica riformatrice da realizzare gradualmente in una o due legislature». È come sempre chiaro e netto Luigi Ferrajoli, che ha da poco pubblicato Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana (Laterza) la più aspra critica del berlusconismo che si ricordi degli ultimi tempi (il manifesto del 25 maggio) e domani interverrà al meeting sull'«utopia concreta del reddito» organizzato dal Basic Income Network a Roma. «La crisi non ci lascia alternative: bisogna arrivare ad un reddito per tutti che garantisca l'uguaglianza e la dignità della persona. Diversamente da altre forme limitate di reddito di cittadinanza, un reddito per tutti escluderebbe qualunque connotazione caritatevole e quindi lo stigma sociale che deriva da un'indennità legata al non lavoro o alla povertà. L'ho già sostenuto in Principia Iuris: il reddito è un diritto fondamentale».

Molti studiosi sostengono che il reddito di base è impraticabile perché costa troppo?

«Certamente il reddito costa, ma i calcoli che sono stati fatti mostrano che esso comporterebbe anche grandi risparmi: un reddito ope legis per tutti riduce gran parte delle spese per la mediazione burocratica di almeno una parte delle prestazioni sociali, con tutti i costi, le inefficienze, le discriminazioni e la corruzione legati a uno stato sociale che condiziona le prestazioni dei minimi vitali a condizioni personali che minano la libertà e la dignità dei cittadini. Ma soprattutto è necessario sfatare l'ideologia dominante a destra, e purtroppo anche a sinistra, secondo la quale le spese nell'istruzione, nella salute, nella sussistenza sono un costo insostenibile. Queste spese sono al contrario gli investimenti primari ed economicamente più produttivi. In Italia, il boom economico è avvenuto simultaneamente alla costruzione del diritto del lavoro, all'introduzione del servizio sanitario nazionale e allo sviluppo dell'istruzione di massa. La crisi è iniziata quando questi settori sono stati tagliati. Sono cose sotto gli occhi di tutti».

Come si possono recuperare le risorse necessarie?

«Dal prelievo fiscale, che tra l'altro dovrebbe essere riformato sulla base dell'articolo 53 della Costituzione che impone il carattere progressivo del sistema tributario. La vera riforma fiscale dovrebbe prevedere aliquote realmente progressive. Oggi la massima è il 43 per cento, la stessa di chi ha un reddito di circa 4.000 euro al mese e di chi, come Berlusconi o Marchionne o gli alti manager, guadagna 100 volte di più. È una vergogna. Quando Berlusconi dice che non vuol mettere le mani nelle tasche degli italiani pensa solo alle tasche dei ricchi. Occorrerebbe invece prevedere tetti e aliquote che escludano sperequazioni così assurde».

Cosa risponde a chi pensa che il reddito sia un sussidio di disoccupazione?

«Lo sarebbe se fosse dato solo ai poveri e ai disoccupati. Il reddito di base universale, al contrario, sarebbe un'innovazione dirompente, che cambierebbe la natura della democrazia, e non solo dello stato sociale, della qualità della vita e del lavoro. È infatti una garanzia di libertà oltre che un diritto sociale. Provocherebbe una liberazione dal lavoro e, insieme, del lavoro. Il lavoro diventerebbe il frutto di una libera scelta: non sarebbe più una semplice merce, svalorizzata a piacere dal capitale».

Per riconoscere il reddito come diritto fondamentale è necessaria una riforma costituzionale?

«No. Si può anzi affermare il contrario: che una simile misura è imposta dallo spirito della Costituzione. La troviamo nei principi di uguaglianza e dignità previsti dall'articolo 3, ma addirittura nel secondo comma dell'articolo 42 sulla proprietà che stabilisce che la legge deve disciplinare la proprietà «allo scopo di renderla accessibile a tutti». Questa norma, come ha rilevato un grande giurista del secolo scorso, Massimo Severo Giannini, prevede che tutti dispongano di una qualche proprietà, accessibile appunto con un reddito minimo di cittadinanza. E poi ci sono le norme del diritto internazionale, come l'articolo 34 della carta di Nizza, l'articolo 25 della Dichiarazione universale dei diritti umani. È insomma la situazione attuale del lavoro e del non lavoro che è in contrasto con la legalità costituzionale».

La sinistra crede in questa prospettiva?

«No. Tuttavia, se la sinistra vuole rappresentare gli interessi dei più deboli, come dovrebbe essere nella sua natura, questa oggi è una strada obbligata. Il diritto al reddito è oggi l'unica garanzia in grado di assicurare il diritto alla vita, inteso come diritto alla sopravvivenza. Ovviamente occorrerebbe anche l'impegno del sindacato. Nella sua tradizione, sia in quella socialista che in quella comunista, si è sempre limitato alla sola tutela del lavoro. Oggi le garanzie del lavoro sono state praticamente dissolte dalle leggi che hanno fatto del lavoro precario a tempo determinato la regola, e del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato l'eccezione. Una sinistra degna di questo nome dovrebbe comunque restaurare la stabilità dei rapporti di lavoro. Con la precarietà, infatti, tutte le garanzie del diritto del lavoro sono crollate perché chi ha un rapporto di lavoro che si rinnova ogni tre mesi non può lottare per i propri diritti. Tuttavia, nella misura in cui il diritto del lavoro non può essere, in una società capitalistica, garantito a tutti, e fino a che permangono forme di lavoro flessibile, il reddito di cittadinanza è anche un fattore di rafforzamento dell'autonomia contrattuale del lavoratore. Una persona che non riesce a sopravvivere accetta qualsiasi condizione di lavoro. Ad un dramma sociale di questa portata si deve rispondere con un progetto ambizioso».

Per quanto riguarda il lavoro e il reddito che cosa si dovrebbe leggere in un programma di sinistra per le prossime elezioni politiche?

«Esattamente l'opposto di quanto è stato fatto finora, anche dai governi di centro-sinistra che negli anni Novanta hanno inaugurato, con i loro provvedimenti, la dissoluzione del diritto del lavoro. Bisogna tornare a fare del lavoro un'attività garantita da tutti i diritti previsti dalla Costituzione e conquistati in decenni di lotta, a cominciare dal diritto alla sua stabilità, che è chiaramente un meta-diritto in assenza del quale tutti gli altri vengono meno. Il lavoro, d'altro canto, deve cessare di essere una semplice merce. E a questo scopo il reddito di base è una garanzia essenziale della sua valorizzazione e insieme della sua dignità. Non è accettabile che in uno stato di diritto i poteri padronali siano assoluti e selvaggi. Marchionne non può ricattare i lavoratori contro la Costituzione, le leggi e i contratti collettivi e minacciare di dislocare la produzione all'estero. Una sinistra e un sindacato degni di questo nome dovrebbero quanto meno impegnarsi su due obiettivi: l'unificazione del diritto del lavoro a livello europeo, per evitare il dumping sociale, e la creazione di sindacati europei. Nel momento in cui il capitale si internazionalizza, perché non dovrebbero farlo anche le politiche sociali e i sindacati?

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