Quando la sinistra rompe i recinti che la dividono e ragiona sulla base dei principi che la uniscono riesce a tracciare prospettive programmatiche convincenti. Il
manifesto, 21 marzo 2014
Fermare l’austerità, espandere la democrazia, controllare la finanza. Queste le parole d’ordine emerse dal forum «Another Road for Europe», organizzato mercoledì al Parlamento europeo dalla Rete europea degli economisti progressisti (euro-pen), di cui fanno parte Sbilanciamoci!, EuroMemorandum, Economistes Atterrés francesi, Transnational Institute e molti altri.
Pochi giorni prima del Consiglio europeo di ieri e a qualche mese dalle elezioni, movimenti e sindacati hanno presentato alle forze politiche europee e nazionali – tra cui Gianni Pittella, vice-presidente del Parlamento europeo; il socialista francese Liêm Hoang Ngoc, autore della recente mozione dell’Europarlamento contro la troika; Stefano Fassina del Pd; Giulio Marcon e Giorgio Airaudo di Sel; Monica Frassoni dei Verdi e Jürgen Klute del Gue [Sinistra Europea - n.d.r.] – le loro proposte per uscire dalla crisi. Rispetto al primo forum di due anni fa, sorprende quanto si sia colmata la distanza tra movimenti e politici, con questi ultimi che ormai fanno proprie molte delle argomentazioni dei primi.
Segno della gravità della situazione, e di una sempre più diffusa presa di coscienza (anche tra i socialdemocratici) del fatto che il Titanic Europa – come lo definisce Stefano Fassina – sta correndo dritto verso l’iceberg, e che l’unica salvezza per il continente è un radicale cambio di rotta, che includa una revisione profonda dell’architettura stessa dell’Ue, e che non può limitarsi a negoziare qualche punto di percentuale di margine sul rapporto deficit/Pil del 3%, su cui Renzi sembra aver incentrato tutta la sua strategia europea. Trovando comunque delle importanti convergenze istituzionali. «Bisogna ridiscutere il fiscal compact, permettere ai paesi in crisi di superare il limite del 3% e aprire un dibattito sulla revisione dei criteri fiscali di Maastricht». A dirlo non è un attivista di Attac ma Gianni Pittella, vice-presidente del Parlamento europeo, che aggiunge: «Serve un grande piano di investimenti pubblici europei per rilanciare la crescita e la domanda».
Tutti d’accordo sulla necessità di nuovi investimenti, ma c’è chi puntualizza che non si esce dalla crisi semplicemente rilanciando lo stesso modello che di questa crisi è in parte la causa. «La crescita è importante», chiosa Luciana Castellina, «ma altrettanto importante è dire quale crescita: le politiche industriali devono servire anche per riqualificare la produzione (soprattutto quella energetica) in chiave sostenibile, riorientare la domanda e creare lavoro».
La centralità del lavoro nella ripresa europea è stata ribadita da Ronald Janssen della Confederazione europea dei sindacati (Etuc): «La pressione competitiva sui salari sta aggravando la recessione, uccidendo la domanda e spingendo l’Europa verso la deflazione. Bisogna smettere di vedere il lavoro come un fattore di competitività ma come uno strumento di crescita e di stabilità, a partire dall’introduzione di uno standard europeo sul salario minimo e dalla difesa del modello sociale europeo».
Se il rilancio del lavoro è centrale per arginare la deflazione e ridurre le disuguaglianze, altrettanto lo sono le politiche monetarie della Bce, che devono essere radicalmente riformate per far ritornare l’inflazione almeno al 2% e permettere alla banca centrale di offrire liquidità agli stati e agire da prestatrice di ultima istanza sul debito dei singoli paesi e sugli eurobond emessi collettivamente dall’eurozona, cruciali per stabilizzare il debito pubblico.
Pur riconoscendo l’importanza degli eurobond, Stefano Fassina e altri hanno sottolineato però che il debito pubblico ha raggiunto livelli insostenibili in molti paesi (a partire dalla Grecia), e che l’istituzione di meccanismo di ristrutturazione del debito – uno dei punti centrali del programma europeo di Tsipras – è un passaggio ormai ineludibile. Se crediti e debiti sono due facce della stessa medaglia, lo sono anche i surplus e deficit commerciali che sono alla base degli squilibri della bilancia dei pagamenti inter-europea. Per questo – come ha spiegato Jordi Angusto di EconoNuestra, gruppo di economisti eterodossi spagnoli – «è suicida pensare di ridurre gli squilibri commerciali semplicemente costringendo i paesi in deficit a tagliare i salari e ridurre la domanda, aggravando così la recessione. Servono dei meccanismi che costringano anche i paesi in surplus a fare la loro parte, stimolando la domanda interna». Ri-regolamentazione della finanza (a partire dalla reintroduzione dei controlli di capitale), riconquista degli spazi di democrazia (a livello sia europeo che nazionale) e l’opposizione al Trattato transatlantico di libero commercio (Ttip) alcuni degli altri temi trattati. Molto, insomma, il lavoro da fare. Soprattutto in vista delle elezioni di maggio. Anche per scongiurare l’ipotesi di una “grande coalizione” tra socialdemocratici e conservatori nel nuovo Europarlamento, che non potrebbe che declinarsi sulla base di una tragica continuità con quelle politiche che stanno trascinando l’Europa nel baratro.