Nel Novecento i comizi sindacali alle manifestazioni del 1° Maggio si concludevano regolarmente con l'appello «al lavoro e alla lotta». Altri tempi, quando il lavoro c'era per quasi tutti, al punto che una parte del movimento operaio poteva anche permettersi di invocare una lotta contro il lavoro, anzi «contro questo lavoro», cioè contro i rapporti di produzione capitalistici per liberare il lavoro dal profitto. Oggi, se si concludesse un comizio chiamando «al lavoro e alla lotta» si parlerebbe a una parte sempre meno maggioritaria di interlocutori. L'unico appello unificante, semmai, sarebbe «alla lotta per il lavoro».
Se ci limitassimo a questa constatazione non faremmo un gran passo avanti e non fermeremmo lo smottamento in atto verso tempi bui. Come ha detto su questo giornale l'ex segretario della Cgil Antonio Pizzinato, «stiamo tornando a prima degli scioperi del 1944». La quantità - anzi la penuria - di lavoro, invece, dev'essere coniugata con la sua qualità. Perché le sorti del capitalismo declinato in chiave liberista non sono magnifiche né progressive e dentro questo modello di rapporti di produzione e dunque di relazioni sociali, non c'è futuro lavorativo e neppure dignità. Non è velleitarismo sostenere che dentro la crisi più drammatica bisogna ripensare un'altra società dove il lavoro, per tutti, sia socialmente e ambientalmente compatibile. Il modello dominante dettato dal Gotha della finanza mondiale a cui la politica ha passato la mano si fonda sulla cancellazione dei diritti e sulla distruzione delle risorse.
Come ha spiegato Mario Monti, non è accettabile che un lavoratore licenziato ingiustamente debba poter tornare al suo posto perché tale automatismo avvalorerebbe l'idea che il posto di lavoro è di proprietà di chi lo svolge. Invece no, chi lavora è appendice della macchina, variabile dipendente non solo dai profitti ma addirittura dai desideri di un capitale libero di dislocarsi dove vuole, alle condizioni che vuole. Il lavoro è merce, la soggettività roba da psicoanalisi, i diritti dei lavoratori cibo avariato incompatibile con le esigenze dell'impresa. Chi obbedisce alle regole del mercato potrà ricevere in premio il lavoro, a quali condizioni non dipende certo da lui. Chi vince alla lotteria può anche farsi rappresentare da un sindacato, purché a sceglierlo sia il padrone o chi ne fa le veci.
Se le cose stanno così, se è vero che il capitale si è globalizzato frantumando il lavoro, con la conseguente trasformazione del conflitto da verticale (tra lavoro e capitale) a orizzontale (tra lavoratori), allora vuol dire che c'è un problema di democrazia non solo nel lavoro ma nell'intera intelaiatura sociale: in Italia, in Europa, nel mondo. Se si assume che le relazioni sociali devono obbedire alle leggi di una guerra tra navi nemiche, in cui il nemico del rematore non è più l'armatore né il comandante bensì i rematori della nave avversaria, allora vuol dire che la democrazia stessa è diventata incompatibile con questo capitalismo. Giovani contro vecchi, indigeni contro migranti, uomini contro donne, uno stabilimento o un ufficio contro l'altro, stabili (si fa per dire, la stabilità è finita tra le scorie novecentesche) contro precari. In una competizione feroce senza regole, costituzioni, statuti, e gli «arbitri neutrali» al massimo potranno indicare risarcimenti monetari per la merce lavoro.
Non si vince da soli, in fabbrica, in ufficio, a scuola, in laboratorio. Non si fa la rivoluzione in un solo paese, oggi come quando si diceva «proletari di tutto il mondo unitevi», solo che oggi nelle strade del mondo corre solo il capitale. Non si vive di speranze di lavoro, e per di più a qualsiasi condizione: oltre ai diritti da ritrovare ce n'è uno inevitabile da conquistare ed è il reddito di cittadinanza. Ma soprattutto bisogna creare lavoro di qualità, utile, compatibile. Ha ragione Luciano Gallino che non è un sognatore a lanciare il suo appello keynesiano per un milione di posti di lavoro di pubblica utilità. Sarebbe un primo passo, piccolo ma concreto, un'inversione di tendenza, un modo semplice per legare la quantità del lavoro alla sua qualità.
Buon 1° maggio.
Il problema è che pensare, come giustamente sostiene Campetti, a una «società dove il lavoro, per tutti, sia socialmente e ambientalmente compatibile» significa pensare una società radicalmente diversa da quella attuale: una società in cui il lavoro non sia una merce (per di più sostituibile con un’altra merce più a buon mercato), ma il contributo che ogni essere umano dà al lavoro collettivo di conoscenza e trasformazione del mondo. Un lavoro, per ciò stesso, socialmente riconosciuto, quindi “retribuito”. Un’utopia? Forse; ma – come diceva Claudio Napoleoni – posto a un livello inferiore il problema non è risolubile.