Intervista a Daniel Cohn Bendit. «In momenti storici di questa gravità ci servirebbero uno Schumann, un de Gasperi, dei politici che in nome di un’idea e una visione dell’Europa fossero capaci di guidare i loro popoli. Ma se restiamo al rimorchio dei popoli...».
Corriere della Sera, 13 luglio 2015 (m.p.r.)
Parigi. «Coscienti o meno, stiamo andando verso un’Europa delle Nazioni, orientata dagli egoismi nazionali. La migliore prova di questa tendenza è stata il comportamento degli Stati europei di fronte al problema dei rifugiati. Not in my backyard, non nel mio cortile, questa è la posizione di molti Paesi membri, Francia compresa, riguardo ai migranti. La nozione di solidarietà è estranea al dibattito di questi giorni. Questa è l’Europa delle Nazioni». Apolide alla nascita in Francia nel 1945, tedesco a 14 anni, francese a 70 (dal 22 maggio scorso), Daniel Cohn-Bendit è uno di quegli europei che l’Europa ha davvero provato a farla, sulle barricate nel maggio ‘68 e da leader ecologista sui banchi del Parlamento di Strasburgo. In Per l’Europa! Manifesto per una rivoluzione unitaria (Mondadori), scritto assieme al liberale belga Guy Verhofstadt, Cohn-Bendit tre anni fa cercava di dare una scossa federalista. Oggi guarda deluso le sue capitali, Parigi e Berlino, dividersi sulla Grecia e quindi sul futuro del continente.
Come spiega la rigidità della Germania verso la Grecia? Cosa c’è nella storia tedesca che porta a questa chiusura?
«Oggi la politica tedesca è tutta rivolta all’opinione pubblica, che è a sua volta concentrata sugli interessi della Germania. Una politica contabile ispirata a una ideologia rigida: solo risanando i conti pubblici l’economia può funzionare, e il prezzo di questo risanamento va pagato».
Ma perché accade questo?
«Ci sono sicuramente delle ragioni storiche, la Germania del dopoguerra si è costruita sul Deutsche Mark, su una moneta forte, simbolo della sua rinascita. Ma se siamo arrivati fino a questo punto credo ci siano anche banalmente delle ragioni psicologiche, personali. I politici si comportano come dei bambini. “Ha cominciato lui, no lui, tu mi hai insultato, no sei stato tu”. Quel che i responsabili greci non hanno capito è che attaccando il ministro delle Finanze Schäuble hanno ottenuto l’effetto di mobilitare una parte dell’opinione pubblica tedesca contro di loro. C’è una parte di voglia di rivincita, il desiderio di dare una lezione, nella durezza e nella cattiveria della posizione del ministro Schäuble. “C’è un problema di fiducia”, dice, ma che vuol dire? Chi deve avere fiducia in chi? I francesi non hanno fiducia nei tedeschi quando si tratta, per esempio, di battersi contro l’integralismo islamico o contro l’Isis o quando si inviano truppe in Mali. Ogni Paese può dire ormai “non ho fiducia” in un altro Paese su un dato argomento».
Perché la Francia è così vicina alla Grecia in questo momento, a costo di mettere alla prova l’asse franco-tedesco?
«Anche François Hollande ha delle ragioni di politica interna. L’opinione pubblica francese è molto più filo-ellenica di quella tedesca».
Da cosa dipende questa differenza nelle opinioni pubbliche di Francia e Germania?
«Intanto prendere in contropiede la Germania piace molto a una parte dell’opinione pubblica francese, poi c’è da sempre in Francia questo lato di solidarietà con il più debole. La questione che si pone oggi è: Hollande, Renzi, Rajoy, Merkel e gli altri possono avere una visione storica, o una visione contabile? Se prevarrà una visione puramente contabile siamo perduti».
Renzi ha appena ripetuto appunto che l’Europa non può ridursi a una questione di conti e burocrazia.
«Ma allora Renzi si batta assieme a Hollande e Juncker, lotti duramente durante le riunioni. Negli incontri dei ministri delle Finanze l’Italia finora non ha fatto sentire abbastanza la sua voce».
Se la Germania è così severa, è perché punendo la Grecia vuole educare Francia e Italia?
«È quel che sostiene Varoufakis nell’intervento che ha scritto per il Guardian. Il tono è sbagliato ma l’analisi giusta: Schäuble vuole dare un esempio a tutti, perché i mercati sappiano che l’euro è una moneta forte, che l’Europa non ha paura di amputare un dito andato in cancrena affinché la mano resista».
Così com’è l’Europa non funziona, è ormai evidente. Questa crisi potrà essere trasformata in un’occasione di rilancio?
«Mi pare molto difficile. Guardiamo per esempio ai finlandesi, che hanno nel governo il partito dei “veri finlandesi”, l’equivalente della Lega italiana. Come possiamo fare una nuova Europa se al governo ci sono partiti simili alla Lega? In momenti storici di questa gravità ci servirebbero uno Schumann, un de Gasperi, dei politici che in nome di un’idea e una visione dell’Europa fossero capaci di guidare i loro popoli. Ma se restiamo al rimorchio dei popoli... Queste occasioni dimostrano che la vecchia teoria della sinistra, cioè che sono le masse a fare la Storia, non regge. Sono le personalità che fanno la Storia, e se queste non sono all’altezza, i popoli sono destinati a mancare l’appuntamento».
Anche i capi di Stato che denunciano regolarmente i pericoli del populismo ne sono ormai condizionati?
«Esattamente. Hanno paura, vogliono guadagnare due punti nei sondaggi, Merkel non vuole irritare i contribuenti tedeschi, Hollande vuole posizionarsi per le prossime elezioni. Tutti hanno un’agenda nazionale. Solo questo conta».