“Uno sviluppo fondato sull’incessante aumento dei redditi, dei beni e dei consumi individuali, da un lato non arriva a coprire le necessità di tutti, e dall’altro non soddisfa vaste parti della società che pur ne usufruiscono, perché è uno sviluppo che non migliora la qualità della vita.” Queste parole sono parte di un articolo pubblicato su l’Unità del 21 settembre 1981; titolo, “Con forza e con fiducia”; firma, Enrico Berlinguer. Un evidente antefatto del famoso discorso su “L’austerità”, peraltro – come noto – pochissimo apprezzato dalla base del Pci, già allora anch’essa sedotta dal produttivismo che a ritmi accelerati andava imponendosi nel mondo.
La posizione di Berlinguer si trovava d’altronde in sintonia con un ampio dibattito che sul finire degli anni Settanta era andato elaborando una severa critica di una realtà sociale sempre più orientata a identificarsi col binomio produzione/consumo. Ne erano partecipi grossi cervelli, quali Agnes Heller, Ralph Dahrendorf, Jaques Attali, Hanna Arendt, Ferenc Féher, Jurgen Habermas, ecc. che da prospettive diverse mettevano a fuoco le più gravi contraddizioni in atto: dalle disuguaglianze perduranti nonostante l’euforia produttivistica, al concetto stesso di “crescita” centrato su dimensioni puramente quantitative, dunque a un falso “progresso” fondato sulla moltiplicazione di merci e mercati; e tutti già ne indicavano il nesso con i “limiti dello sviluppo”, da un decennio denunciati dall’Mit e dal Club di Roma, di fronte alla sempre più preoccupante crisi ecologica. Un discorso ricco e profondo, fermo nell’auspicio di una possibile espressione dell’”umano” più vera e polivalente di quella che si trovavano a vivere.
Auspicio, ahimé, clamorosamente mancato. Più che mai, un trentennio dopo, la società è dominata, anzi definita dal binomio produzione/mercato, non solo nei suoi obiettivi espliciti e immediati, ma nella sua dimensione più profonda, nella sua stessa razionalità. Quella che (orchestrata dalla comunicazione di massa, orientata dal clamore pubblicitario, promossa praticamente senza eccezione dalla politica) è riuscita a sedurre per larghissima parte la popolazione del mondo, a indurne l’identificazione con oggetti da acquistare e velocemente scartare, per sostituirli con nuovi sempre più desiderabili: in una illusione di straripante abbondanza, certo prima o dopo alla portata di tutti…
Una rappresentazione che curiosamente non sembra scossa dal fatto che l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della ricchezza; che un sesto degli abitanti del globo è sottoalimentato, mentre circa il 40% del cibo prodotto in Occidente viene gettato; che (opinione di personaggi quali Keynes, Galbraith, Chomsky, ecc) ogni volta che il Pil non cresce a dovere è consuetudine inventare una nuova guerra; che, per soddisfare la nostra voglia di “cose”, stiamo “consumando” la Terra, e spingendo la crisi ecologica planetaria verso livelli forse senza ritorno.
Ma, accanto a una accertata maggioranza di umani che, impavidi, continuano a invocare più Pil, e a consumare di conseguenza, c’è però un numero non piccolo - e in deciso aumento - di persone che avvertono e soffrono la sempre più insostenibile gravità dello squilibrio ambientale; le quali, in mancanza di scelte politiche adeguate, vorrebbero intervenire utilmente, in modi anche alla portata dell’iniziativa individuale, e spesso pongono agli “esperti” interrogativi in proposito. L’operazione non è davvero facile, e certo di limitata efficacia rispetto alle dimensioni del problema, ma non inutile qualora trovi impegno adeguato. Provo a proporre un piccolo elenco di iniziative in questo senso praticabili.
Riscaldamento e refrigerazione si sono affermati ormai dovunque quali irrinunciabili correttivi della temperatura degli interni, senza dubbio di grande utilità, specie in quei giganteschi manufatti di cemento che sono gran parte di sempre più gigantesche metropoli. Stranamente però la capacità di regolare caldo e freddo ormai dovunque viene spinta al massimo, così da “produrre” estati a 16 -18° quando fuori si toccano e superano i 40°, e inverni a 25 -26° quando l’atmosfera esterna scende a 0° o molto sotto: di fatto non attenuando i disagi causati dai mutamenti stagionali, ma capovolgendoli, fino a soffrire caldo d’inverno e freddo d’estate; tra l’altro con conseguenze sanitarie negative, spesso non lievi.
Sono fatti che vorrebbero la lettura di sociologi, o meglio ancora di psicologi, per scorgervi forse atteggiamenti da “nouveaux riches”, identificazione con la propria capacità di consumo, ecc. E’ comunque certo che, al fine di un possibile contributo a minor dissipazione di “natura”, mantenere la temperatura degli interni – diciamo – a un minimo di 27-29° d’estate, e un massimo di 19-20° d’inverno, in tutto il mondo, significherebbe un enorme risparmio di energia. E certo anche maggior benessere. I grandi potentati del petrolio non sarebbero contenti. E forse nemmeno politici ed economisti, allarmati di un qualche calo del Pil. Ma appunto, questo ci conferma l’assurdo del nostro vivere; cui qualcuno, anzi per fortuna parecchi ormai, vorrebbero trovare dei correttivi.
Già una ventina d’anni fa André Gorz stigmatizzava la tendenza a programmare per una vita sempre più breve merci cosidette “durevoli” (automobili, elettrodomestici, mobilio, ecc.). Non produrre pezzi di ricambio era, ed è tuttora, il modo più sicuro per obbligare alla sostituzione dell’oggetto; ma l’induzione al consumo, in questo settore come in ogni altro, sempre più si vale di “novità” solo formali (il colore, il designe, l’inclusione di accessori minimi che nulla aggiungono alla funzione) ma pubblicizzate come imprescindibili. E’ una regola comune ormai a tutta la produzione, che però tocca livelli di delirio per computer, telefonini, macchine fotografiche, cineprese, e simili: più che mai qui affidandosi alla seduzione di nuovi accessori, in genere d’altronde non solo privi di reale utilità, ma quanto mai fragili, e dunque promessa di ulteriori acquisti. E anche tutto ciò può essere oggetto di utile riflessione, e di scelte conseguenti, per chi sia critico dell’iperconsumo dominante.
Non voglio soffermarmi sull’universo dei contenitori (buste, sacchi, sacchetti, scatole, astucci, di ogni foggia e dimensione, tutti puntualmente di plastica e pertanto votati all’eternità) che di tanto in tanto qualcuno propone di vietare, di regola inascoltato: benché certo ridurre l’uso, e quindi la produzione, di tutto ciò, sarebbe una bella ripulita del globo. Voglio piuttosto occuparmi un attimo di quella sconfinata fiera dell’inutile che è ormai l’abbigliamento, in particolare femminile: il quale (a prescindere da qualsiasi giudizio estetico) si pone come una delirante apoteosi dell’inutile. Ricami, merletti, nastri, frappe, fiocchi, catenine, lustrini, accostamenti bicolori o multicolori, impensate bizzarrìe di ogni sorta, che si affiancano incrociano sovrappongono indifferentemente su magliette, camicie, giacche, abiti da sera, vestaglie da camera, pigiami da notte, impermeabili, jeans, calze, scarpe…, in uno sterminato “di più” fine a se stesso, un’apoteosi del consumo per il consumo. O una sorta di barocco della disperazione; d’altronde operante per mille altri modi. Come giustificare ad esempio (e mi scuso per l’ineleganza del tema) la carta igienica decorata di fiori, racemi, farfalle, uccelletti, ecc., come accade ormai per la più parte di questa produzione? Considerando tra l’altro che, trattata a questo modo, la carta igienica non è più igienica, essendo l’inchiostro tipografico fortemente tossico…
Si potrebbe a lungo insistere in questa rassegna dell’”inutile-dannoso”; sterminata massa di prodotti, spesso destinati a passare direttamente dal supermercato alla discarica, illeggibili in qualsiasi funzione che non sia l’aumento del Pil. Riflettere su questi fatti può (forse) servire ai non pochi che, di fronte allo sfascio del mondo, si domandano se sia possibile fare qualcosa per contenerlo (almeno). Magari andando arileggere quei grandi pensatori cui accennavo sopra, che oltre un trentennio fa prevedevano, e temevano, ciò che noi stiamo vivendo.