Il buon Dio regalò a Gioia Tauro certi fondali profondi come abissi di Poseidone. Un bel giorno, pensò, quei fondali, unici in Italia a poter accogliere le immense navi porta-container del terzo millennio, renderanno finalmente la Calabria ricca e fiorente. Il cuore del traffico marittimo nel Mediterraneo. Poi vide che gli uomini non se li meritavano. E li accecò.
In alto, la banchina maggiore del porto di Gioia Tauro. A sinistra, la lapide che ricorda il ferimento di Garibaldi a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 29 agosto del 1862. A destra, l’albero nella foresta di Gambarie dove fu adagiato il generale ferito.
Sapete quanti Teu, i container che dominano il 96% (petroli esclusi) del traffico mondiale di merci, arrivano ogni settimana nel porto calabrese? 53.846. E potrebbero essere molti di più. Una miniera d’oro, sarebbero. Oro! Se non fossero subito smistati su altre navi più piccole per essere avviati verso altri porti. Sapete quanti treni partono da Gioia carichi di Teu? Uno la settimana. Uno. Cose da pazzi.
Il grosso del guadagno, infatti, spiega una relazione del ministero dei Trasporti del giugno 2008, è nel trattamento finale. Quando il container è «sdoganato, stoccato, manipolato e distribuito, supportato adeguatamente da una rete infrastrutturale efficiente. Il fatturato passa da 300 euro a 2.300 euro, l’utile da 20 euro passa a 200, il beneficio dello Stato da 110 euro a 1.000 e ogni mille unità movimentate invece di generare cinque unità lavorative ne generano 42». E in quelle tre parole, la «rete infrastrutturale efficiente», c’è la maledizione di Gioia Tauro.
Direte: come è possibile che dopo anni e anni di pensosi «bla bla» sulla necessità di privilegiare la rotaia alla gomma venga allestito un solo treno la settimana (per Bari) contro 53.846 Teu giunti nel porto calabrese? Un treno che, se sta nella media dei treni merci meridionali, ha 12 vagoni e porta 36 container, cioè uno ogni 1.495 sbarcati? E il bello è che quel treno non è manco delle Ferrovie dello Stato. Le quali, dopo avere alzato le tariffe (in modo spropositato rispetto al servizio, accusano i trasportatori) si sono ritrovate con una manciata di clienti e hanno abolito in Calabria tutti ma proprio tutti i treni merci. Una scelta suggerita da un ulteriore intoppo: sui binari verso Nord, non bastassero gli altri problemi, ci sono a Vallo della Lucania un paio di gallerie troppo piccole e qualche curva troppo stretta: i nuovi container non ci passano. Basterebbe allargare i tunnel e rettificare le curve, ma i soldi? E il tempo? Racconta Guglielmo Epifani: «Il gestore privato del porto mi ha detto: se continua così ce ne andiamo. La concorrenza di porti come quello del Cairo non riusciremo a batterla mai…». Quanto ai container caricati sui camion, auguri. Neanche il tempo di percorrere la corta bretellina costruita in tre o quattro millenni fino all’autostrada e vanno a infognarsi nel pantano della Salerno-Reggio Calabria.
Risultato: dopo essere miracolosamente salito grazie a quei fondali naturali (a Genova, per capirci, i nuovi colossi del mare non possono attraccare) fino al 23° posto nel mondo, Gioia Tauro perde colpi su colpi. Nel 2005, spiega l’ufficio studi del porto di Amburgo, era il sesto porto europeo. Oggi è l’ottavo. Era il secondo del Mediterraneo, adesso è il quarto. E la società concessionaria Mct, che occupa un numero enorme di persone (1.100 fissi più 200 «terzisti») ha visto nel 2009 un tracollo del fatturato del 26%. Da incubo il confronto con il cairota Port Said: cinque anni fa Gioia movimentava 1.539.915 container in più, oggi 670 mila in meno. Quanto alle classifiche mondiali, stendiamo un velo. Basti dire che sei anni fa il porto cinese di Xianem stava 400 mila container indietro e adesso sta quasi due milioni più avanti. Per non dire del «contorno». Come la periodica scoperta di carichi fuorilegge. C’è un piazzale pieno zeppo di 400 container che contengono merci contraffatte di ogni tipo. Uno, qualche mese fa, aveva in pancia sei tonnellate di esplosivo.
Eppure una cinquantina di chilometri più sotto, a Reggio Calabria, è raro avvertire la consapevolezza dell’occasione storica sprecata. E’ bello da togliere il fiato, «il più bel chilometro d’Italia», come lo chiamò Gabriele D’Annunzio. Di là dallo Stretto scintilla la costa siciliana: così vicina che nelle giornate limpide sembra di toccarla. Palme e magnolie dell’orto botanico che sfila lungo la strada quasi ti vengono addosso, con umori tropicali che si mischiano al profumo, prepotente, del mare. «Un paradisooo!», strillano i reggini entusiasti. Peccato per quello che c’è dietro. Cioè una delle aree urbane più violentate d’Italia, dove gli avvertimenti ai magistrati antimafia arrivano con i bazooka appoggiati fuori dalla loro porta. Benvenuti a Reggio Calabria, dove finisce la strada che non finisce mai. Quel proseguimento dell’Autosole che coi suoi viadotti entra dall’alto in città, scivolando nel caos edilizio per scendere in picchiata verso il «più bel chilometro d’Italia». L’incompiuta per antomasia.
«Un monumento all’impotenza della politica», la definì un giorno Fausto Bertinotti. Il rapporto «Sos impresa» del 2007 di Confesercenti andò oltre. «C’è chi l’ha definita il corpo di reato più lungo d’Italia». Dietro ogni curva c’è una cosca che si avventa, è camorra nel primo tratto ed è ’ndrangheta giù nelle «Calabrie». Un percorso che disegna la spartizione del potere; le betoniere e gli escavatori segnalano le «famiglie» dominanti sul territorio. Così la cartina stradale diventa un organigramma mafioso. È stato un supertestimone, Piero Speranza, un piemontese che ha riciclato in Toscana i soldi dei trafficanti calabresi, a raccontare per la prima volta come i «mammasantissima» si siano impossessati della A3. Ci fu un summit in una villa di campagna a Torremezzo di Falconara, in provincia di Cosenza. E i boss si misero subito quasi d’accordo. Era l’agosto di sei anni fa. Da quel momento ogni fornitura di calcestruzzo e ogni movimento di terra li ha assicurati la ’ndrangheta. In principio ci fu qualche regolamento di conti. Poi, tanti erano i soldi che hanno fatto scoppiare la pace.
Costruirono quei 443 chilometri in 11 anni, dal 1963 al 1974, con un costo equivalente a 5,8 milioni di euro attuali al chilometro. Senza prevedere un pedaggio perché solcava l’area più depressa del Sud. Leandra D’Antone, docente di storia contemporanea alla Sapienza è convinta che sia proprio quello il peccato originale: «Chi non paga il pedaggio non può pretendere la manutenzione necessaria a un’autostrada. Ma nemmeno la sicurezza».
E non solo per quanto riguarda la mattanza, davvero pazzesca, causata dagli incidenti stradali. E’ successo di tutto su quella strada maladetta. Di tutto. Turisti ammazzati a pistolettate. Donne strangolate nei distributori di benzina. Scheletri nei tombini di scolo delle stazioni di servizio. Agguati alle Alfette dei carabinieri. Camionisti assassinati al volante dei Tir. Neonate abbandonate in una piazzola di sosta. Rapine finite nel sangue a furgoni portavalori. Imboscate della ’ndrangheta. Di tutto. Si pensi all’episodio più conosciuto, lo spaventoso assalto all’auto della famiglia Green, turisti americani innamorati dell’Italia, concluso con l’uccisione del piccolo Nicholas.
Ecco, per capire come mai 23 anni dopo l’avvio dell’adeguamento deciso da Craxi nel 1987 non sono ancora finiti i lavori (campa cavallo!), nonostante ne fossero bastati 11 per la realizzazione, e come mai questa sistemazione costerà 22,6 milioni al chilometro, cioè quattro volte la cifra investita per la costruzione, con sommo gaudio delle cosche. Non si può che partire da qui: dal pedaggio che non c’è.
Tutto cominciò con una legge del 1961. Voluta dall’allora leader socialista Giacomo Mancini. E centrata sulla convinzione, come scrisse Giovanni Russo, che quella strada rappresentava un secolo dopo «il compimento dell’Unità d’Italia». E’ terra di aspre contraddizioni, la Calabria. E c’è davvero un senso se proprio qui, nella foresta di Gambarie, nel comune di Santa Eufemia d’Aspromonte, alla fine di agosto del 1862, avvenne il primo scontro armato tra patrioti italiani. Di qua l’Eroe dei Due mondi che voleva andarsi a prendere Roma. Di là la colonna del Regio Esercito sabaudo che non voleva grane coi francesi protettori del Papa Re. Come finì lo ricordano un motivetto canticchiato da un secolo e mezzo («Garibaldi fu ferito / fu ferito ad una gamba…»), uno stivale col buco della pallottola conservato dal 1970 al Museo Centrale del Risorgimento e un cippo voluto nel 1988 (con tanto di strafalcione sulle date) da Giovanni Spadolini. Volete andarci? Il posto è struggente, la strada micidiale. Un milione di tornanti. Ma se arrivate dall’autostrada vi sembreranno leggeri. La Salerno-Reggio, con i suoi cantieri e le sue deviazioni e i suoi ingorghi e i suoi tamponamenti è peggio. Molto peggio.
Ma torniamo alla costruzione. I lavori durarono lo spazio di tre cicli elettorali: 1963, 1968 e 1972. Inutile dire che uno svincolo non si negò a nessuno. Democristiani, socialisti, comunisti... Tutti furono accontentati. È così la A3 ha un’uscita ogni 8,86 chilometri. Con il risultato che dopo, anche se avessero voluto, sarebbe stato impossibile, soltanto per il costo dei caselli, introdurre il pedaggio.
Per piegare il tracciato alle esigenze dei vari politici locali, si tuffò il nastro d’asfalto in mezzo alle montagne. Un’assurdità. Che fece allungare la strada di 40 chilometri e schizzare i costi all’insù. E fu spiegata, nella relazione del geologo Giuseppe Rogliano, scomodando Annibale: «Attraverso la valle del Savuto, infatti, Annibale, uno dei più grandi strateghi e soprattutto progettista di strade e valichi militari, raggiunse Cosenza, capitale dei Bruzi, e la sottomise, e poi, attraverso la valle del Crati, raggiunse prima la regione delle Sibariti, le cui vestigia opulente...».
Già una decina d’anni dopo il taglio del nastro inaugurale venivano fuori tutte le magagne. Da allora, i costi sono lievitati come un soufflé: da 983 milioni di euro di oggi nel 1987 a 4 miliardi nel 1997, a 6,9 nel 2004, a 9 nel 2008, a 9 miliardi 698 milioni nel 2010. E giù promesse su promesse. «La Salerno-Reggio? Pronta nel 2003», giura nel ’98 il sottosegretario diessino Antonio Bargone. «Sistemata in cinque anni», puntualizza nel 2000 il ministro sinistrorso Nerio Nesi. «Finiremo nel 2004-2005», conferma l’anno dopo il berlusconiano Pietro Lunardi. «Nel 2008», rettifica l’Anas rispondendo alle accuse («di questo passo finiranno nel 2040») della Cgil. «Sì, nel 2008», si adegua Lunardi. «Ce la faremo per il 2009», assicura Berlusconi nel 2006. A febbraio 2009 Altero Matteoli profetizza: «Per fine 2011 o inizio 2012». Finché il 29 settembre 2010, in parlamento, il Cavaliere decreta: «Sarà completata nel 2013». Risate in aula. In quelle ore, Matteoli dichiara alle agenzie: «Sarà pronta per il 90% entro il 2014». Auguri.
Il fatto è che, oltre alle «normali» lentezze italiane, in questa opera c’è una variabile non secondaria. Si chiama ’ndrangheta. Fa venire i brividi la lettura della richiesta di arresto emanata nel 2006 dalla direzione antimafia di Reggio a carico di 52 persone affiliate alle cosche locali infiltrate negli appalti. In quel documento c’è la fredda descrizione delle regole fissate dalle «consorterie calabresi per accaparrarsi i lavori di ammodernamento dell’autostrada». A cominciare dall’imposizione di una «tassa ambientale»: così è stata battezzata la tangente da pagare alle ’ndrine, fissata nella misura del 3% dell’importo del capitolato. E poi «l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, la fornitura di materiali qualitativamente non corrispondenti al capitolato, l’imposizione di ditte amiche, l’ostracismo di quelle non gradite...». Senza contare l’obbligo per le imprese di assumere i mafiosi.
Per chi non si adeguava c’era la bomba al cantiere, la caterpillar incendiata, le minacce con la pistola. Clamoroso lo sfogo pubblico del presidente di Impregilo Massimo Ponzellini, il quale ha rivelato che negli ultimi mesi i cantieri hanno subito 181 (centottantuno) attentati. Bisogna avere fegato, per gestire un cantiere lì. Come bisogna averne per fare il magistrato alla procura di Reggio. Quale sia la situazione «ambientale», del resto, lo fa capire uno dei magistrati impegnati nelle inchieste sugli appalti dell’autostrada, rivelando la preoccupazione che le gallerie del vecchio tracciato, una volta dismesse, siano chiuse, «e chiuse bene», per evitare che i buchi nella montagna possano diventare depositi di armi, esplosivo e quant’altro.
Ma che la gente di qui sia rassegnata non si può proprio dire. Lo dimostrano le iniziative spontanee che proliferano, come Quello che non ho: una «rete della legalità» promossa dall’ex segretario della Cgil Francesco Alì. In centinaia stanno preparando una petizione al governo, sintetizzabile in tre parole: «Qui manca tutto». Il reddito medio non arriva a 13 mila euro, contro i 25 mila di Milano. Nella classifica Unioncamere del prodotto interno lordo procapite la provincia reggina è al novantaseiesimo posto: 16.215 euro nel 2008, metà di Bergamo o Brescia. La disoccupazione «ufficiale» è al 12%, ma quella reale è ben altra cosa. Un terzo dei giovani è senza reddito. Il tasso di «occupazione», che misura il numero delle persone di età compresa fra 15 e 64 anni che hanno un lavoro, si ferma al 42,9%: la media nazionale è del 58,7%. E meno male che c’è la pubblica amministrazione, che assorbe il 20% degli occupati. Senza contare la sanità, altro grande affare per quel torbido impasto fra criminalità e politica.
Il sindaco reggino Giuseppe Raffa, che ha sostituito Giuseppe Scopelliti eletto Governatore dopo aver travolto Agazio Loiero, è nei guai. Soffocato da 270 milioni di debiti, 236 decreti ingiuntivi e 473 pignoramenti, il Comune rischia il crac. Quanto abbiano pesato le spesucce del predecessore, che arrivò a noleggiare una ventina di «teledivi» della scuderia di Lele Mora perché una sera passeggiassero amabilmente in città («ma lei è Nina Moric! Possiamo fare una foto insieme?»), non si sa. Certo è che ci sono da pagare 10 milioni di bollette Enel scadute. La Acquereggine (depurazione delle acque) avanza 12 milioni. E altri 80 sono vantati dalla Regione per l’acqua potabile. Il tutto mentre l’opposizione sta per lanciare un bel siluro, il caso di una dirigente esterna voluta da Scopelliti al vertice della ragioneria comunale e auto-destinataria di compensi astronomici: 567.990 euro soltanto nei primi dieci mesi del 2010. Di più: un rapporto della Corte dei conti mette il dito nella piaga delle società partecipate dal Comune come l’Atam, l’azienda di trasporto comunale che nel 2008 ha incassato appena 18,5 milioni ma ne ha spesi 12,5 soltanto per pagare lo stipendio ai 349 dipendenti.
Una situazione che rende oggettivamente complicata per il centrodestra la prospettiva della prossima scadenza elettorale del 2011, quando a Reggio si voterà per il Comune e per la Provincia. La confusione è totale in entrambi gli schieramenti. Il Partito democratico è commissariato: affidato alle cure dell’ex sindacalista della Uil Adriano Musi. Mentre qualcuno ipotizza il ritorno, per il centrodestra, dell’ex senatore Pietro Fuda.
Sono lontani i tempi della «primavera» di Reggio, così la chiamavano i fan del sindaco Italo Falcomatà, che restituì ai reggini «il più bel chilometro d’Italia», coprendo la ferrovia che separava il centro urbano dal suo mare. L’uomo che nel 1993 fece rialzare la testa a una città ancora avvilita dallo strappo del 1970, quando il capoluogo di Regione venne assegnato a Catanzaro innescando una sanguinosa rivolta. Quarant’anni dopo i segni di quella insurrezione sono ancora ben visibili. Il primo è il Consiglio regionale, dove nel 2005, al tempo della maggioranza di centrosinistra, si arrivò a mettere per iscritto: «I membri del consiglio e del governo regionale nonché i dipendenti rifiuteranno ogni tipo di rapporto, contatto o condizionamento della mafia». Articolo uno del «Codice calabrese del buon governo». La Calabria è l’unica Regione italiana con due capoluoghi «politici». La Giunta è a Catanzaro. Il Consiglio, cioè il parlamento, è rimasto invece a Reggio Calabria. Un risarcimento. E che risarcimento: il Consiglio costa 77,5 milioni l’anno, solo per le spese correnti, e occupa circa 350 persone.
«Lo stretto necessario», giurano. «Lo stretto necessario». Tanto più che oggi, con il museo archeologico nazionale in ristrutturazione, devono ospitare i massimi tesori: i Bronzi di Riace. Scampati al tentativo del Cavaliere e dei suoi fedeli di portarli ora al G8 della Maddalena, ora a Roma per dare il via a un tour mondiale. «Provvisoriamente», hanno spiegato. Ma del «provvisorio» all’italiana, da queste parti, non è che si fidano. Così, mentre il museo veniva chiuso per ristrutturazione, i bronzi bisognosi di cure sono stati trasferiti nei locali del Consiglio regionale, dov’è stato allestito un sofisticato laboratorio separato dal pubblico da una parete di vetro. Lì dentro quei tesori, che i turisti possono comunque ammirare, sono al sicuro. Perché su una cosa a Reggio son tutti d’accordo: una volta usciti dalla città, c’è il rischio che i Bronzi non rientrino più. E Reggio perderebbe qualcosa di prezioso quanto lo status di capoluogo. Tanto più che «quelli di Roma» avrebbero una scusa buona per sfilare quei capolavori: laggiù in fondo in fondo alla Calabria sono un po’ sprecati. Accusa infida. Nel luglio del 2009 il Quotidiano ha rivelato che il Museo dov’erano custoditi ha staccato in un anno 130.696 biglietti. Quasi 24 mila in meno rispetto ai 154.227 dello zoo di Pistoia.