il manifesto
No, Stephen Paddock era un normale americano agiato, di quelli che fanno le crociere nei Caraibi o nel Mediterraneo, vengono in Italia per vedere Firenze e Venezia, affollano i parchi di Yellowstone e Yosemite e, naturalmente, vanno a Las Vegas per provare il brivido della roulette, dei dadi, delle slot-machine. Paddock, dopo aver fatto tutte queste cose, ha deciso di farne un’altra più emozionante e spettacolare: sparare sulla folla di un concerto. Ha affittato una suite al 32° piano in un albergo che dominava l’area del festival, l’ha riempita di armi semiautomatiche, ha sfondato i vetri delle finestre e ha iniziato la strage, che avrebbe potuto essere anche peggiore di quello che è stata, come testimonia l’incredibile numero di feriti, 527, che si aggiungono ai 59 morti confermati.
Com’era prevedibile, il presidente Donald Trump e i repubblicani in Congresso si sono limitati a delle frasi di circostanza, deputati e senatori rimangono ostaggi della potente National Rifle Association, che con i suoi cinque milioni di iscritti costituisce uno dei pilastri del blocco di potere oggi dominante. La Nra, nata come club di appassionati di tiro a segno a fine Ottocento, ha cambiato pelle nella seconda metà degli anni Settanta, riuscendo a imporre un allargamento progressivo del diritto di portare armi, fino ad ottenere una storica vittoria nel 2008 con la sentenza della Corte suprema District of Columbia versus Heller, che sostanzialmente apriva la via a una deregolamentazione totale basata su una lettura fino ad allora ultraminoritaria del II Emendamento della costituzione.
Nell’interpretazione di Antonin Scalia a nome della maggioranza dei giudici, quello di armarsi è un diritto individuale di ogni cittadino americano, legato all’autodifesa, non connesso al servizio militare in una milizia o una riserva dell’esercito. Naturalmente, i cinque giudici repubblicani non affrontarono il problema della difesa dei normali cittadini da chi volesse acquistare armi da guerra (Paddock aveva 23 armi da fuoco nella sua stanza, tra i quali vari AR-15, i fucili d’assalto in dotazione alle forze armate americane).
Il fatto che le stragi sostanzialmente immotivate siano diventate, insieme agli omicidi, il problema di salute pubblica n. 1 negli Stati Uniti è evidente a tutti ma il sistema politico sembra totalmente paralizzato e incapace di affrontarlo. Neppure proposte parziali e modeste, come vietare l’acquisto di armi ai potenziali terroristi o alle persone mentalmente instabili, sono state approvate negli ultimi anni, nonostante un’escalation di violenza impensabile in qualsiasi altro paese.
Nel 2014 c’erano stati 12.571 omicidi con armi da fuoco, nel 2015 ce n’erano stati 13.500, nel 2016 il totale è balzato a oltre 15.000. A questi, occorre aggiungere i circa 22.000 suicidi l’anno, sempre con armi da fuoco. Per avere un’idea migliore di cosa significhino queste cifre basterà ricordare che gli Stati Uniti hanno un tasso di omicidi per 100.000 abitanti che è circa 4 mentre in tutti i paesi europei tranne l’Ungheria questo tasso è inferiore a 2, e nei paesi industrializzati come Germania, Francia, e Gran Bretagna è inferiore a 1. L’Italia, nonostante mafia e camorra, ha circa 450 omicidi l’anno, cioè un tasso di 0,81 ogni 100.000 abitanti. In Giappone, il tasso è 0,3, cioè ci sono meno di 400 omicidi l’anno nonostante sia un paese di 120 milioni di abitanti.
Ci sono speranze per gli Stati Uniti? Nonostante il dibattito sulle armi da fuoco venga puntualmente riaperto ad ogni nuova strage, l’emozione sembra durare pochi giorni o settimane e, soprattutto, sembra incapace di scalfire l’indifferenza del sistema politico. In otto anni di presidenza, neppure Barack Obama, un coraggioso e carismatico sostenitore di maggiori restrizioni e controlli, riuscì a far approvare a Congresso un qualsiasi modesto provvedimento utile a limitare i danni. Dopo Las Vegas non c’è che da aspettare il prossimo massacro.