Nelle ultime settimane, a Napoli, Salerno, Avellino, Caserta e nei piccoli centri dell’interno, ci sono stati molti incontri, convegni, appuntamenti, in memoria del terremoto di trent’anni fa e poi servizi giornalistici e televisivi, e altre iniziative sono in programma nelle prossime settimane. Non era stato così nei precedenti anniversari dieci e venti anni fa, quando furono poche e trascurabili le occasioni per commemorare la catastrofe. È stata forse la prossimità del terremoto e la drammatica attualità della mancata ricostruzione dell’Aquila a sollecitare i ricordi, e vale la pena di proporre qualche piccola e riflessione.
Per prima cosa, una rapida ricostruzione dei fatti. Alle 19,30 circa del 23 novembre del 1980, una violentissima scossa lunga oltre un minuto – con epicentro al confine fra le province di Salerno, Avellino e Potenza – distrusse o danneggiò gravemente decine di comuni. I morti furono circa tremila. Ma, come si disse allora, se il baricentro sismico era stato nel cuore degli Appennini, il baricentro sociale fu a Napoli e nell’area metropolitana, dove il terremoto assestò il colpo di grazia a un patrimonio edilizio affetto da secolari processi di degradazione, provocando centinaia di migliaia di senzatetto. La situazione diventò subito terribile. A soffiare sul fuoco furono le brigate rosse mobilitate “contro la deportazione dei napoletani”. L’episodio più grave fu il rapimento dell’assessore regionale all’urbanistica Ciro Cirillo e l’assassinio della sua scorta, che generò un sordido intrigo fra terroristi, camorristi e servizi segreti. Se poco più di tre anni prima, in occasione del rapimento Moro, il fonte della fermezza era stato vasto e compatto, nel caso Cirillo la disponibilità alla trattativa fu immediata e unanime. Una vicenda tenebrosa che faceva seguito ad altri fatti di pochi mesi prima ancor più spaventosi e mai del tutto chiariti: la strage di Ustica del 27 giugno del 1980 e la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto.
Ma torniamo al terremoto. I soccorsi furono caotici, i ritardi paurosi. Funzionò invece benissimo la televisione arrivata dovunque per prima. Il presidente della repubblica Sandro Pertini intervenne con inusitata durezza contro il governo Forlani, di fatto determinandone le dimissioni. La vicenda va ricordata a coloro che in questi giorni accusano Giorgio Napolitano di scarso equilibrio nei rapporti con il governo Berlusconi.
La ricostruzione delle zone interne fu gestita ancora peggio dell’emergenza. Si cercò di far tesoro delle precedenti esperienze, il terremoto del Belice del 1968 e quello del Friuli del 1976. Nel primo caso, nonostante la regione a statuto speciale, la ricostruzione fu opera del ministero dei Lavori pubblici ed è difficile immaginare risultati peggiori da ogni punto di vista, dai ritardi smisurati agli esiti deludenti dei paesi ricostruiti altrove. Del tutto diversi i risultati in Friuli dove il potere fu subito affidato ai comuni, coordinati da un’attenta ed efficace azione regionale. In dieci anni la ricostruzione fu completata e non è forse un caso se da allora prese corpo il repentino sviluppo del Nord Est. [Per una storia sintetica ma completa, chiara e documentata dei terremoti dal Belice all’Aquila, cfr. Francesco Erbani, Il disastro, Laterza, 2010].
In Irpinia si cercò di fare come in Friuli, ma finì in tragedia. Le regioni Campania e Basilicata restarono alla finestra, tutto il potere fu affidato ai comuni, in assenza di coordinamento e di controlli, in un quadro politico comandato dal clientelismo e dagli affari. Per dire, i comuni terremotati, che erano in realtà qualche decina – 71 secondo lo studio di Manlio Rossi Doria, sul quale torno dopo – diventarono ufficialmente quasi settecento, tutti beneficiati dal pubblico erario. Comuni piccoli e piccolissimi gestirono decine di miliardi di lire. Quasi diecimila, dei cinquantamila miliardi di lire stanziati per la ricostruzione, finirono nelle tasche dei tecnici dell’edilizia, ingegneri, architetti, geometri, il ceto sociale più ricco, potente e famelico di questa parte d’Italia. Tutti di ferrea appartenenza partitica. Una delle pagine più scandalose fu l’insediamento di nuove aree industriali in montagna (quasi ottomila miliardi di lire), spesso dentro il letto dei fiumi e servite da inutili strade sopraelevate, oggi semiabbandonate.
Ci furono anche, qua e là, risultati apprezzabili a opera di volontari, amministratori e tecnici benemeriti, ma furono casi eccezionali. La verità è che, trent’anni dopo, è cambiata la geografia. A poche settimane dal terremoto Manlio Rossi Doria curò un rapporto sul territorio colpito, definito come “il cuore e la parte più bella dell’Appennino meridionale, una regione antica e di antica e solida civiltà”. Un territorio che presentava la minore estensione delle terre incolte o abbandonate di qualunque altra zona d’Italia o d’Europa. Alla fine del ‘700, mentre l’Italia nel suo complesso e il Centro Nord avevano un terzo della popolazione attuale, nei luoghi del terremoto era invece insediata la stessa popolazione di oggi. [Università degli studi di Napoli. Centro di specializzazioni e ricerche economico-agrarie per il Mezzogiorno, Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23 novembre 1980, Einaudi, 1981]. Prima del 1980 la popolazione era concentrata nei paesi, pochi i residenti nelle case sparse. Dopo il terremoto, gli antichi abitati si sono spopolati, si vive soprattutto in villette sparpagliate in campagna. E si resta sconcertati dal contrasto fra l’opulenza, lo spreco, il lusso di molte nuove case e lo squallore prevalente degli spazi pubblici e del paesaggio. Credo che sia stato Franco Arminio a raccontare meglio di tutti la mutazione anche antropologica di quelle terre. [Per esempio: “Il desiderio secolare di poter contare sul pane e su un po’ di povera lietezza non doveva trasformarsi nel desiderio del contributo”, in Viaggio nel Cratere, Sironi, 2003].
Concludendo, nelle zone terremotate e poi in tutta la Campania le conseguenze disastrose del dopo terremoto si sono sommate alla più generale decadenza della cultura urbanistica e alla crisi irreversibile della pianificazione, cominciate proprio all’inizio degli anni Ottanta, con la new wave della deroga come regola, dell’abusivismo condonato, del furore privatistico, fino all’infamia del piano casa. La conseguenza più vistosa di tutto ciò è che, in trent’anni, dal 1980 al 2010, è raddoppiata la superficie urbanizzata e il consumo del suolo continua a ritmo vertiginoso.