Niente di nuovo sotto il sole. « Il fascino cupo del carisma ritorna, come extrema ratio, e contrappone l’Azione al Pensiero, il Demiurgo al Riflessivo, il Fare al Pensare. Dall’intellettuale dei miei stivali di craxiana memoria al renzismo di oggi. Un po’ Craxi, un po’ Berlusconi, con la velocità del prestigiatore». Il manifesto, 9 aprile 2014
«Certo, Socrate, la filosofia è un’amabile cosa, purché uno vi si dedichi, con misura, in giovane età; ma se uno vi passi più tempo del dovuto, allora essa diventa rovina degli uomini», tanto più se s’intende amministrare la città.
Così dice Callicle nel Gorgia, il dialogo platonico dedicato alla Retorica, e aggiunge che «chi si attardasse più tempo del dovuto» su quel sapere astratto, e pretendesse di dir la propria sulle cose della Polis, finirebbe per infastidire e intralciare, perché inesperto delle “cose del mondo”: degli “affari” privati e pubblici, «dei costumi degli uomini normali», tanto da «rendersi ridicolo allo stesso modo in cui si rendono ridicoli i politici quando s’intromettono nelle vostre dispute e nei vostri astrusi ragionamenti». E’, il suo, il primo esempio – un archetipo – di quel disprezzo per la conoscenza e per i“sapienti” (per gli intellettuali, appunto) che ritornerà infinite volte nelle zone grigie della storia.
Su chi fosse Callicle si hanno poche informazioni. Compare come una meteora in quest’unico dialogo, e poi scompare. Di lui si sa solo che era un giovane (più giovane di Socrate e anche di Platone) molto ambizioso. Che militava nel partito oligarchico. E che era un sofista nel senso pragmatico del termine, cioè un fautore di quell’intreccio tra sapere e affari che si praticava nella scuola di Gorgia (sorta di Cepu dell’età classica), e di quell’idea della Retorica come arte della persuasione altrui che teorizzava il primato del Discorso sulla Giustizia, sfornando schiere di primigenii Ghedini ateniesi. Volendo fare il gioco della trasposizione dall’Atene del IV secolo a.c. alla nostra disastrata Città, potremmo dire che Callicle incarnava in sé un po’ di Renzi e un po’ di Berlusconi.
Del primo aveva, oltre all’età e all’ambizione, il mito dell’energia e della forza, e l’insofferenza (tipica anche dell’altro) per le regole e le leggi, considerate impacci. Peggio, invenzioni di «uomini deboli e del volgo» fatte per frenare i forti, i «ben dotati dalla natura», — i “veloci”, potremmo dire, o i furbi — e impedir loro di fare «e di prevaricare» (testualmente nell’originale) come richiederebbe invece il «diritto di natura», il quale risponde alla regola del fatto compiuto, del diritto del più forte e del più capace a «scrollarsi di dosso» e «fare a pezzi… i nostri scritti, incantesimi, sortilegi e leggi, che sono tutti contro natura».
Del secondo (e solo di questo) condivideva il culto per la sensualità e l’intemperanza, per la dilatazione del desiderio e del piacere come culmine della felicità, nella convinzione che «colui che intende vivere con rettitudine [«secondo natura»] deve lasciare che i propri desideri s’ingigantiscano il più possibile e non deve mettervi freno» per «saperli servire, con coraggio e accuratezza» una volta che essi abbiano raggiunto il culmine. Pulsioni, umori, diversi, ma in qualche misura unificati dalla comune ostilità – dall’odio rivestito di disprezzo — per la riflessività, il lavoro, inevitabilmente più lento e meno ferino, del pensiero. I suoi moniti e le sue dubbiosità. In una parola per il ruolo storico dei cosiddetti “intellettuali”.
Sembra impossibile, ma è così. Ogni volta che il nostro Paese riscopre il fascino cupo del carisma come , è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico che contrappone l’Azione al Pensiero. Il Demiurgo al Riflessivo. Il Fare al Pensare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il pedagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà.
E’ successo una trentina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repubblica entrava nella sua fase comatosa (ricordate l’invettiva contro gli «intellettuali dei miei stivali»?). E si è ripetuto una ventina di anni or sono, con Berlusconi, quando nacque (male, malissimo) la cosiddetta Seconda Repubblica, nell’odore di fango e nella marcia trionfale dei media. Era successo, con aspetti ben più tragici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello stato liberale e l’avvento del mussolinismo. Succede oggi – si parva licet – con Matteo Renzi, al suo esordio come improbabile salvatore della patria. Ogni volta si è assistito all’esibizione dello stesso lessico, con poche variazioni. E chi richiamava all’opportunità di soffermarsi sulla problematicità dell’accadere, sulla sua complessità non riducibile con le parole magiche, è stato liquidato con una catena di termini che vanno dal postbellico ““disfattista” e “imbelle”, al denigratorio “insulso” («insulso intellettuale» fu la formula con cui Mussolini invitò il Prefetto di Torino a perseguitare Gobetti) ai più didattici «professoroni» o «professorini» (in qualche caso «professorucoli»), all’enfatico «Soloni» o «sapientoni», oltre i quali la creatività dei critici della critica non sa andare. Né la cosa stupisce. Fa parte dell’ordine delle cose il fastidio per la fatica del pensiero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono soluzioni possibili.
Quello che può incuriosire, piuttosto, è l’estensione della ragnatela oggi, che giunge a lambire figure che si credevano esenti da queste folgorazioni sulla via del Nazareno: non più i soliti Feltri e Belpietro, se possibile i meno aggressivi per esaurimento delle batterie, ma i Gramellini, i Menichini, le ministreboschi, gli editorialisti dell’Unità e di Europa, gli spin doctors di complemento del Tg3, su lunghezze d’onda non dissimili dai vari Gasparri (memorabile per volgarità la sua mimica sulla lunghezza delle parrucche di Zagrebelsky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vicedirettore della Stampa sulle «vecchie cinture di castità» …), tutti ad accanirsi contro l’intellettuale frenatore, il disincantato disincantatore, lo scettico blu che spegne i sogni, il fastidioso acribioso che cerca sempre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti… E’ molto probabile che alcuni di questi “persuasi” proveranno un giorno vergogna del proprio involgarimento, una volta svanito l’effetto della fascinazione. Ma resta l’interrogativo sull’origine misteriosa di quel fascino improvviso. Che carisma è questo, che bypassa ogni lezione della storia, e fa cadere ogni barriera all’accesso alle menti, tanto da cancellare decenni di cultura critica, razionalista e democratica perché colpisce, ora, anche quei settori che si erano fino ad ora difesi dall’“invasione degli Iksos”?
Non è il carisma guerriero del Benito Mussolini delle origini, uscito dalle tempeste d’acciaio e dalle trincee di fango. E nemmeno quello del Craxi-rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fondato sul ricorso a una spregiudicatezza inedita nella storia della sinistra italiana nell’assalto alle banche e alle diligenze. O il carisma proprietario e genitale del Berlusconi re del video e delle veline finalmente spogliate. Il suo sembra più il carisma virtuale – e impalpabile — della vertigine. Il trauma della velocità come metafora (e surrogato) dell’energia e come tecnica di convincimento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei problemi, così da apparirne il solutore (e il salvatore).
E’, in fondo, a ben guardare, la tecnica dell’illusionista. Il segreto del prestige, inteso come gioco di prestigio, in cui la rapidità del movimento e l’uso del diversivo – del gesto che distoglie l’attenzione – sono la chiave del successo, e permettono a chi sta sul palco di conquistare la dedizione del pubblico pagante. Renzi in questo è maestro: fa comparire, e subito dopo scomparire, la legge elettorale, una volta verificato che di lì non si passa, subito sostituita, coniglio dal cilindro, dal Jobs act e dalle slides, esibendo gli 80 euro in busta paga mentre scompaiono in un foulard viola pezzi di sistema sanitario e di servizi sociali o interi blocchi di patrimonio pubblico avviati alla privatizzazione. Dice di aver abolito le province, come promesso, e quelle se ne stanno sempre lì, intatte sotto il tappeto porpora del tavolo, non più elettive ma pur sempre integre. Prepara la Grecia, ma sembra la Germania. Finge un batter di pugni mentre in realtà batte i tacchi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pubblico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel vertiginoso movimento, scruta sotto il mantello per cogliere il trucco.
L’odiato intellettuale è odiato per questo. Perché minaccia di svelare il prestige. Di disincantare l’illusione. Nemico condiviso di tutti gli spettatori che, incapaci di partecipare alla soluzione del problema, preferiscono vedersi rappresentata la materializzazione della speranza. La sua filosofia è pericolosa, come lo fu l’occhio ingenuo del bambino che rivelava la nudità del re. Passerà probabilmente, come tutte le infatuazioni. Ma intanto sarà dura. Unica consolazione: la constatazione che oggi, dell’“uomo di mondo” Callicle – che contrariamente all’“insulso” e “ingenuo” Socrate non inseguiva le nuvole e le idee -, nessuno ricorda neppure più il nome.