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Kamel Daoud
L’Arabia Saudita, un Isis che ce l’ha fatta
29 Novembre 2015
2015-La guerra diffusa
«La rimozione dell’Occidente per quanto riguarda l’Arabia Saudita è sorprendente: saluta la teocrazia come sua alleata, ma fa finta di non sapere che è lo sponsor ideologico principale del mondo della cultura islamista».

«La rimozione dell’Occidente per quanto riguarda l’Arabia Saudita è sorprendente: saluta la teocrazia come sua alleata, ma fa finta di non sapere che è lo sponsor ideologico principale del mondo della cultura islamista». Newsletter comuneinfo.net, 27 novembre 2015

Daesh nero, Daesh bianco. Il primo taglia gole, uccide, lapida, taglia le mani, distrugge il patrimonio comune dell’umanità e disprezza l’archeologia, le donne e i non musulmani. Il secondo è meglio vestito e più ordinato, ma fa le stesse cose. Lo Stato islamico; l’Arabia Saudita. Nella sua lotta contro il terrorismo, l’Occidente fa la guerra contro l’uno ma stringe la mano all’altro.

Questo è un meccanismo di negazione, e la negazione ha un prezzo: preservare la famosa alleanza strategica con l’ Arabia Saudita con il rischio di dimenticare che il regno si basa anche su un’alleanza con un clero religioso che produce, legittima, diffonde, predica e difende il Wahhabismo, la forma ultra-puritana dell’Islam di cui si nutre Daesh. Il wahabismo, un radicalismo messianico che sorse nel 18° secolo, spera di ristabilire un fantasticato califfato centrato su un deserto, un libro sacro, e due luoghi sacri, La Mecca e Medina. Nato nel massacro e nel sangue, si manifesta in un rapporto surreale con le donne, un divieto contro i non-musulmani di calpestare territorio sacro, e leggi religiose feroci. Che si traduce in un odio ossessivo di immagine e raffigurazione, e quindi dell’arte, ma anche del corpo,della nudità e della libertà. L’Arabia Saudita è un Daesh che ce l’ha fatta.

La rimozione dell’Occidente per quanto riguarda l’Arabia Saudita è sorprendente: saluta la teocrazia come sua alleata, ma fa finta di non sapere che è lo sponsor ideologico principale del mondo della cultura islamista. Le generazioni più giovani dei radicali nel cosiddetto mondo arabo non sono nate jihadiste. Esse sono state allattate al seno della Fatwa Valley, una sorta di Vaticano islamico con una vasta industria che produce teologi, leggi religiose, libri e aggressive politiche editoriali e mediatiche.

Si potrebbe controbattere: non è l’Arabia Saudita stessa un bersaglio possibile del Daesh? Sì, ma concentrarsi su questo farebbe trascurare la forza dei legami tra la famiglia regnante e il clero che rappresenta la sua stabilità – e anche, sempre di più, la sua precarietà. I reali sauditi sono catturati in una trappola perfetta: Indeboliti da leggi di successione che incoraggiano il turnover, si aggrappano ai legami ancestrali tra re e predicatore. Il clero saudita produce l’islamismo, che minaccia il paese e al tempo stesso dà legittimità al regime.

Si deve vivere nel mondo musulmano per capire l’immensa influenza trasformatrice dei canali televisivi religiosi sulla società mediante l’accesso ai suoi punti deboli: nuclei familiari, donne, aree rurali. La cultura islamista è diffusa in molti paesi (Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, Egitto, Mali, Mauritania…). Ci sono migliaia di giornali islamici e preti che impongono una visione unitaria del mondo, la tradizione e l’abbigliamento nello spazio pubblico, sulla formulazione delle leggi del governo e sui rituali di una società che essi reputano essere contaminate.

Vale la pena di leggere alcuni giornali islamici per vedere le loro reazioni agli attentati di Parigi. L’Occidente è raccontato come una terra di “infedeli”, gli attentati sono il risultato dell’attacco contro l’Islam. I musulmani e gli arabi sono diventati i nemici della secolarizzazione e degli ebrei. La questione palestinese viene invocata insieme allo stupro dell’Iraq e alla memoria del trauma coloniale, e impacchettata in un discorso messianico destinato a sedurre le masse. Questa narrazione trova ampio spazio negli strati sociali subalterni, mentre i leader politici inviano le loro condoglianze alla Francia e denunciano un crimine contro l’umanità. Questa situazione totalmente schizofrenica procede parallelamente alla negazione occidentale del ruolo dell’Arabia Saudita.

Tutto ciò lascia scettici sulle fragorose dichiarazioni delle democrazie occidentali sulla necessità di combattere il terrorismo. La loro guerra non può che essere miope poiché ha come obiettivo l’effetto non la causa. Poiché l’Isis è una cultura prima che una milizia, come si fa a evitare che le generazioni future si rivolgano allo jihadismo se l’influenza della Fatwa Valley, dei suoi chierici, della sua immensa industria editoriale e della cultura che produce rimane intatta?

Curare la malattia è quindi una questione semplice? Sembra difficile. L’Arabia Saudita rimane un alleato dell’Occidente nello scacchiere mediorientale. Viene preferita all’Iran, il Daesh grigio. E qui c’è la trappola. La negazione crea l’illusione dell’equilibrio. Lo jihadismo viene denunciato come il male del secolo ma non viene preso in considerazione ciò che lo crea e lo alimenta: questo consente di salvare la faccia, ma non salva le vite umane.

Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma ha anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo complesso religioso-industriale. Se l’intervento occidentale ha fornito delle ragioni ai disperati del mondo arabo, il regno saudita ha donato loro credenze e convinzioni. Fino a che questo punto non verrà compreso si potranno vincere battaglie, ma non si vincerà la guerra. Gli jihadisti saranno uccisi solo per rinascere di nuovo nelle generazioni future allevate con gli stessi libri.

Gli attentati di Parigi hanno evidenziato nuovamente questa contraddizione ma – come è successo dopo il 9/11 – essa rischia nuovamente di essere cancellata dalle nostre analisi e dalle nostre coscienze.

Kamel Daoud è uno scrittore di origine algerina, i suoi libri (scritti in francese e non in arabo) sono tradotti in molti paesi. L’articolo è stato scelto e tradotto da Maurizio Acerbo (della segreteria nazionale del Prc) che ringraziamo. La versione originale, in inglese e francese, è sul sito del New York Times.

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