Arriva il chirugo. Chi salverà: chi soffre e continua a soffrire, o chi è stato ed è causa del male? A Taranto La risposta non sembra dubbia, sebbene a Bisanzio si parli d'altro.
La Repubblica, 31 marzo 2013
SE A Roma si procede come alla corte di Bisanzio, che cosa succede della colonia tarantina? I giorni più veri qui sono quelli della Passione. Le estenuanti processioni ondeggianti dei perdoni scalzi e incappucciati, i pellegrinaggi ai sepolcri, uomini che venerano una madre addolorata. Poi, festa e resurrezione arrivano quasi come un complemento minore alla commemorazione. Guai a perdere la speranza, dice il vescovo, in un’omelia-arringa da pubblico accusatore: la salute viene prima di tutto, Dio maledice quelli che possono fare e non fanno. Gli accusatori pubblici laici sono provvisoriamente in silenzio, il loro tribunale ostruito dal processo di cronaca nerissima, intanto i capi dell’Ilva hanno provveduto a denunciare al competente tribunale di Potenza la giudice Todisco e i suoi custodi giudiziali. L’Ilva sciorina iniziative che danno nell’occhio. Enrico Bondi, ottuagenario campione di risanamenti (sinonimo, spesso, di liquidazioni), con una competenza siderurgica (fu lui a vendere la Lucchini al russo Mordashov, che l’ha lasciata in gramaglie) è il nuovo amministratore delegato. La famiglia Riva sottolinea come per la prima volta l’azienda passi in mani esterne. Gli analisti obiettivi sottolineano come nel frattempo la famiglia abbia prosciugato la cassaforte dell’Ilva trasferendone le risorse a un labirinto di società industriali e finanziarie. Nomina di Bondi e casse svaligiate fanno pensare all’intenzione di mettere il patrimonio societario e famigliare al riparo dalle spese di risarcimenti e bonifiche. Per intenderci, le bonifiche nel territorio coinvolto dalla semisecolare vicenda di Italsider e Ilva costerebbero, a un occhio onesto, un paio di centinaia di miliardi, che non è una cifra, è una amara barzelletta. I lavori indispensabili a mettere in ordine lo stabilimento costerebbero poco meno dei 10 miliardi del cosiddetto salvataggio di Cipro, che invece è una cifra, benché la si voglia far passare per una barzelletta. Ci si chiede se operazioni finanziarie e notarili possano bastare a preservare la proprietà dall’obbligo a risarcire il danno all’ambiente e alla salute, come prevede la legge. Dicono gli operai più anziani che una volta che l’Ilva fosse disertata e smantellata come avvenne a Bagnoli – qualche impianto traslocato a Djerba, in Tunisia, qualche altro trasportato gratis o a prezzo di rottame in Cina o in India … – si scoprirebbe quale irredimibile discarica tossica abbia via via sedimentato il suolo su cui poggia lo stabilimento, e i canali dai quali avvelena i mari. Altro affare, questo, rispetto all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) e la sua costituzionalità.
L’aria che si respira a Taranto (niente di metaforico, significa proprio l’aria che si respira) pretende di confortare. Si vantano risultati brillanti nell’addomesticamento di inquinamento e perfino di malattie (!), l’azienda e il governo, che all’azienda è fisicamente incorporato, ne assegnano il merito all’Aia e alla sua attuazione. Il merito dei dati migliori (nell’ultimo quadrimestre 2012) sta in un’ovvietà come la diminuita produzione e la chiusura di lavorazioni fra le più nocive, e nella meno ovvia azione dei custodi nella riduzione dei parchi minerali. Le cui giacenze, scrivevano nel novembre scorso, “non /erano/ legate alle progressive necessità produttive, ma a una speculazione sulle tariffe, a scapito della salute e con ingorghi rischiosi nelle operazioni di scarico”.
Quanto all’attuazione dell’Aia, è in un ritardo plateale nei casi in cui prevede precise scadenze, e in un’allegra dilazione nei casi in cui non le prevede, e spazza la monnezza al termine del triennio cui la legge si applica. Ma lo stesso garante dell’Aia, l’ex magistrato Esposito, certifica al governo gravi violazioni e inadempienze emerse in una ispezione dell’Ispra effettuata tra il
5 e il 7 marzo. Le relazioni dei custodi giudiziali, rese note negli scorsi mesi, documentavano rigorosamente violazioni e inosservanze, e una mancata collaborazione dell’azienda che si è via via mutata in ostacolo al compito loro affidato. Denunce corroborate dall’Unione europea in un dettagliato testo del 4 marzo, che lamenta il ritardo e la parzialità delle risposte fornite dal governo Monti e minaccia una procedura di infrazione.
Tutto ora sembra sospeso al calendario di aprile, il mese più crudele: la decisione della Corte Suprema sulla costituzionalità della legge, un referendum cittadino consultivo e striminzito su tre quesiti (tenersi l’Ilva, chiuderla tutta, o chiuderne l’area a caldo – purché si sappia che cos’è), una manifestazione ambientalista il 7 aprile con la parola d’ordine del sostegno “ai pubblici ministeri e alla Gip”, e l’arrivo effettivo di Bondi, di cui tutti sottolineano, con tremore o con ammirazione, la tempra di chirurgo d’emergenza “durissimo”.
Si tratta di capire chi è il paziente. Alla Parmalat era piuttosto chiaro. All’Ilva non ci si sarebbe stupiti dell’arrivo di un amministratore straordinario, in una condizione di fatto fallimentare: ma Bondi ci arriva da amministratore delegato. A meno che non sia un passo verso la cura fallimentare, la famosa “durezza” rischia di piovere sul bagnato. Chi ha seguito i capitoli precedenti sa dei reparti confino, dell’impiego dei “fiduciari”, rete parallela e occultata di comando tecnico e disciplinare; delle assunzioni selettive, della disciplina da caserma, delle discriminazioni nelle destinazioni dei posti di lavoro, della cassa integrazione, fino ai dettagli “minimi” ma influenti sulla vita quotidiana come i turni. Dopo la tragica sequenza di tre morti in cinque mesi, “incidenti” si sono succeduti senza guadagnarsi le cronache. Da pochi giorni a questa parte c’è stato un incendio (23 marzo: “sono intervenuti tecnici dell’Arpa per verificare l’eventuale dispersione di sostanze tossiche”), un versamento di ghisa (26 marzo: “per un inconveniente tecnico, una piccola [sic!] parte del getto di ghisa è caduta sul terreno sottostante, generando emissione di fumo visibile anche dall’esterno dello Stabilimento”), e (29 marzo) un grave infortunio a un operaio al laminatoio a freddo. Nella prosa aziendale: “Durante le fasi di regolazione della macchina bordatrice n.1 si rendeva necessario l’intervento sulla linea per sistemare una sezione di guida delle lamiere… L’operatore inavvertitamente attivava un ‘sensore presenza lamiera’ che provocava l’avanzamento di alcuni centimetri di una lamiera determinando il contrasto del piede destro tra la stessa e il piano della via rulli”. Non è stato facile ai soccorritori liberare la caviglia spappolata di Mario G. dal “contrasto” cui il comunicato allude come a un tackle calcistico. “Non bisogna mai abbassare i livelli di guardia sulla sicurezza” ha detto il direttore. Va preso in parola, e avvertito di una circostanza di cui magari non è a conoscenza. L’Ilva stabilisce un premio di 100 euro a testa per i reparti in cui gli infortuni restano al disotto del traguardo fissato rispetto all’anno precedente: 40, per esempio, quest’anno. Per la classifica dei primi 10, la cifra si raddoppia. Lodevole iniziativa, no? Può succedere però che l’incentivo spinga i capi (per i quali arriva a 1.000 euro, e in busta paga) a indurre i lavoratori, con i molteplici mezzi di suasione di cui dispongono, a non dichiarare gli infortuni, a mettersi in ferie invece che in malattia, a lavorare in condizioni menomate. Un’azienda ha tutte le possibilità di condurre un’indagine su questa tentazione, e tanto più se dispone di temperamenti “durissimi”. Come ricorda il vescovo del Dio che maledice chi può fare e non fa.