Non c’è un
check-point come a Gaza ma è l’
apartheid, se così si può dire – ed è il caso di dirlo – in Canada. È così disinvoltamente gentile da far sì che ciò che è stato non sia mai stato. C’è un tabù nella patria dei totem. Salvatore Peralta arriva a Montreal dalla Sardegna. Studia, lavora – è iscritto alla McGill University – segue il suo amico Oliver alle feste dei coetanei e si presenta – “ingegnere minerario” – e i ragazzi e le ragazze gli concedono un sorriso e una canzonatura: “Finirai col sposarti una Nativa”. L’ing. Peralta si trova nella terra delle libertà. Il Canada – lo Stato federale – è il luogo più compiutamente libero, pacifista, ambientalista. È migliore e ancora più democratico degli Stati Uniti e comunque, Salvatore, se la fa spiegare la battuta. Oliver, con un certo imbarazzo, lo mette a parte del tabù massimo nella pur patria dei totem: “Gli indiani d’America qui sono come gli zingari da voi; sono ladri, ubriaconi e drogati”. Un amico, si sa, mette in guardia il proprio amico. “Meglio evitare discussioni”, aggiunge Oliver, e la domanda dell’ing. Peralta – “Ma come si fa a considerare i Nativi, zingari, quando erano presenti in queste terre prima dei colonizzatori, dei pionieri, dei bianchi…” – resta appesa.
C’era una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – e però è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Ci sono solo 33 km dal centro di Montreal alla riserva di Kahnawake, presidio dei Mohawk, sulla riva sud del fiume San Lorenzo. Lungo il percorso si costeggiano le rapide. È il luogo dei mercanti e degli avventurieri. Ci si avvicina e muta il paesaggio. La segnaletica diminuisce. Echeggiano gli spari del poligono di tiro. La riserva non è un accampamento per come lo immagina Pecos Bill. Sono case in legno. Nessuna manutenzione. Di tanto in tanto lussi tipo castelli di Super Mario Bros. Nel centro del cupo presepe un monumento: un carrarmato con le bandiere Usa e Canada perché i Mohawk hanno la doppia cittadinanza. Un cartello illude i visitatori: il parco. Tutto quello che dice la “casetta in Canadà” non c’è. Niente fiori di lillà, magari i pesciolini, ma rifiuti e rimanenze di fuochi. “Di Toro Seduto – dice l’ing. Peralta – hanno solo lo stare seduti.”
Come il Tibet per Pechino – una non identità – così la Nazione Indiana è per Ottawa. Col multiculturalismo cool molto più efficace del totalitarismo cinese. La cancellazione della memoria della popolazione aborigena – sussidiata, relegata nelle riserve americane – sta giungendo a compimento, mentre i tibetani, al netto della realpolitik comunista, una vetrina di mobilitazione riescono ancora ad averla. Uno dei più grossi imbrogli della storia è l’Indian Act, ovvero il patto sottoscritto nel 1876 tra lo stato federale canadese e le nazioni indiane (quelle che impropriamente sono chiamate tribù). Molti rappresentanti dei Nativi, la maggior parte dei quali non alfabetizzati secondo il canone occidentale, ma legati alla tradizione orale sciamanica, segnano le carte bollate della cessione delle terre – i Treaties, i trattati – con i totem. Siglato senza la piena consapevolezza delle parti soccombenti, l’Indian Act, risultato a suo tempo perfetto – per la popolazione non aborigena – per cambiare le carte in tavola, si perpetua ancora oggi con la burocrazia.
Quelle stesse distese di boschi, le immensità di laghi e i potenti inverni del Nord che ancora oggi, attraverso lo sfruttamento, portano alle casse dello stato federale 270 miliardi di dollari vanno a contraccambiare, a favore dei Nativi, un bilancio di soli 70 miliardi. Privi d’identità, i Nativi, vivono confinati all’interno delle riserve. Registrati in un’anagrafe separata attraverso una Status card, non pagano le tasse e sono sussidiati con 800 dollari mensili (300 per mangiare, il resto per l’affitto). Fino al 1996 – solo 21 anni fa – i loro bambini dovevano frequentare le Residential schools col preciso proposito di far dimenticare il loro stesso sangue se sir John Alexander McDonald, padre della patria coloniale e primo ministro nel 1873 e nel 1878 ne segnalava l’urgenza: “Non vogliamo il selvaggio alfabetizzato, ma un nuovo essere pronto al nuovo mondo”.
Una cosa sono i diritti umani, dunque, un’altra i diritti coloniali. L’indifferenza si adopera per la più inesorabile delle pulizie etniche. È di fatto proibito professarsi “nativo”. I Nativi delle varie Nazioni, non hanno accesso alla “civiltà”. Possono andare a caccia – e a pesca – quando vogliono ma l’idea di commercializzare tutto quello che prendono e catturano va a cozzare con un embargo neppure tacito, ma esibito dai Treaties rispetto ai doveri dei selvaggi verso la cosa pubblica degli altri, i civilizzati. Dire indiano è come dire negro. Sono sempre guai per i vinti e il genocidio spirituale cui è sottoposta l’identità aborigena s’invera in quella mistificazione del politicamente corretto sulla soglia della reciproca ignoranza: i bianchi non sanno nulla dei selvaggi, e viceversa. Guai ai vinti. Ognuno chiama se stesso americano, o canadese, l’altro è definito nativo. Anche nativo è offensivo, come pure eskimese che – letteralmente – significa “mangiatore di pesce”, la formula incantata è First Nation People, un palliativo autoassolutorio con cui la società benestante si evita il fastidio di confrontarsi con la realtà di tutti quegli aborigeni: un 10% tra loro – con la gestione del gioco d’azzardo, alcool e tabacchi, e lo spaccio di droghe – si conquista un agio, il resto vive nell’indigenza e nell’accattonaggio.
A Montreal se ne incontrano tanti di questi ultimi, dei primi invece – ed è stato un quadretto di assoluta tenerezza – si nota subito lo sforzo di cautela. Non potendo farsi bianchi s’adeguano all’idea cinematografica. C’è un papà (col codino lungo fino al fondoschiena), e ci sono una mamma e una figlia adolescente. Identiche, entrambe, a Pocahontas. Fanno shopping. L’ideologia coloniale tende a farne uno stereotipo della stirpe “indiana”, tuttavia, prima delle invasioni coloniali queste etnie parlavano 12 lingue differenti, esprimevano svariati stili urbanistici e diverse culture e tradizioni. Nell’ultimo censimento del 2001 risultano 1,3 milioni di canadesi che dichiarano un retaggio nativo: First Nations, Inuit e Metis tra loro.
L’università McGill di Montreal sorge sulla città fortificata di Hochelaga, un complesso abitativo di aborigeni scoperto nel 1535 da Jaques Cartier. Abbandonata poco prima del 1600, Hochelaga contava 50 edifici ospitanti numerosi nuclei familiari dediti ad agricoltura e pesca. Il fondatore dell’università – sir James McGill – era un mercante di pellami, ogni pietra ha cancellato un’altra pietra e sotto i palazzi del centro città, già a uno scavo di soli 10 metri, giacciono strade e costruzioni dei vecchi insediamenti aborigeni.
C’era dunque una volta Tatanka Yotanka – e cioè Toro Seduto – ma è come se tutta questa terra non sia mai stata sua. Pietra sopra pietra. Alla McGill c’è un residence per i nativi – è la First People House – dove però capitano giovani stranieri, un sardo come l’ing. Peralta che la domanda se la tiene sempre appesa. Vi lavora come precettore e alla manager, un’aborigena, la domanda – “ma questo mondo è il vostro mondo?” – la rivolge con più insistenza. “Leggi un libro, prova a cercare una risposta”. Alla prima domanda, Salvatore ne aggiunge un’altra: “Tu quale libro hai letto?”. La risposta è una rasoiata: “Non leggo nulla riguardo alla mia origine, storia e cultura”. Il guaio è tutto dei vinti.