Beppe Severgnini, Adriana Cerretelli, Ugo Tramballi, Vittorio Zucconi, commentano il voto americano. Tutti di area e ubbidienza NATO, ovviamente, come le testate su cui scrivono.
Corriere della Sera, il Sole 24 Ore, la Repubblica, 9 novembre 2016
Corriere della Sera
DUE AMERICHE ORA CONTRO
UN PAESE FERITO FINITO IN TRINCEA
di Beppe Severgnini
Due Americhe contro, e il mondo che guarda allibito. Un’America chiusa e delusa, che si riconosce nel repubblicano Donald Trump. Un’altra più aperta, disposta a seguire la democratica Hillary Clinton nel perenne inseguimento del sogno americano. Qualcuno, anche negli Stati Uniti, era convinto che la candidata democratica, più esperta e affidabile, avrebbe battuto facilmente il rivale repubblicano. E’ accaduto l’opposto. Ohio, North Carolina, Iowa. Florida. Texas, tutto il centro e quasi tutto il sud. Michigan, Wisconsin, Pennsylvania – Stati industriali, tradizionalmente democratici - in bilico per ore. Inesorabilmente, nel corso della notte, la macchia rossa sulle mappe elettorali s’è allargata. Donald Trump, il candidato più improbabile in 227 anni di democrazia americana, è alle porte della Casa Bianca. Avrà il controllo il Congresso. Sceglierà il giudice decisivo della Corte Suprema, l’istituzione dove avanzano - o arretrano - i grandi cambiamenti sociali americani. Bruce Springsteen è un artista e non fa politica. Ma ci sono giornate in cui la storia non lascia alternative: schierarsi o nascondersi. Nell’ultima notte prima delle elezioni, il Boss non si è nascosto.
Non avrebbe condiviso il palco con Hillary, probabilmente, se dall’altra parte non ci fosse Trump. Non avrebbe scelto una canzone come Dancing in the dark. Perfetta e profetica, fin dal titolo. Perché l’America, la notte scorsa, ha ballato al buio. E oggi, quando si sono accese le luci, deve accettare chi si trova di fronte. Così dobbiamo fare noi italiani e europei, che dell’America siamo alleati. Sarà dura, ma dobbiamo provarci. Sondaggi, studiosi, mercati e scommettitori indicavano Hillary Clinton. Perfino i repubblicani non ci speravano più. Ma le sorprese elettorali non erano mancate, negli ultimi tempi, attraverso l’Occidente confuso. E gli Stati Uniti sono cambiati molto, negli ultimi otto anni. Barack Obama, presidente gentiluomo, ha visto franare il tradizionale terreno democratico. Stati industriali come Ohio, Michigan e Wisconsin cercavano un veicolo per le proprie frustrazioni. E il veicolo non lo produce la Chrysler (salva anche grazie alla Casa Bianca).
Quel veicolo - ora lo sappiamo - si chiama Donald Trump. È lui la sconvolgente novità. È lui che ha incendiato le incertezze americane. L’ha fatto da solo, senza aiuti, osteggiato nel suo stesso partito. Contro la totalità dei media, giustamente preoccupati dal suo comportamento e dalle sue dichiarazioni. L’ha fatto spaccando la nazione, come mai era accaduto. Donne, non-bianchi e giovani millennials istruiti contro di lui; legioni di bianchi delusi con lui. Donald Trump ha ignorato la demografia e puntato sull’antipatia. Quella che la sua avversaria, Hillary Clinton, è sembrata raccogliere in abbondanza. Ma un presidente, prima d’essere simpatico, dev’essere competente. Da questo punto di vista la distanza tra i contendenti resta immensa. Vedrete quanti, anche in Italia, salteranno beffardi sul carro del vincitore. Ma i fatti restano.
L’uomo d’affari e di televisione Donald Trump non ha mai ricoperto una carica elettiva. Non ha presentato un programma degno di questo nome. Metà delle sue affermazioni si sono rivelate false o inesatte. Sulle questioni internazionali ha mostrato un’incompetenza pari soltanto dall’arroganza. Per questo piace agli avversari dell’America. Sarà stata una notte memorabile al Cremlino. Vladimir Putin ha trovato la sua anima gemella. Dove porteranno il mondo, lo vedremo. L’America silenziosa è esplosa con un boato. Molti elettori - per calcolo, per rabbia, per vergogna - non hanno lasciato capire che avrebbero scelto Donald Trump. Le volgarità, le falsità e la superficialità del candidato? Irrilevanti, apparentemente. Tutto si è deciso, ancora una volta, nei battleground states, gli Stati «terreno di battaglia», per usare la solita metafora bellica.
È la strana democrazia made in Usa: sono quindici, non cinquanta, gli Stati che hanno deciso chi condurrà la nazione fino al 2020. L’America bianca e armata ha difeso l’ultima trincea. Una lunga, sgradevole campagna elettorale si è chiusa con l’elezione del nuovo Presidente. E’ difficile, ma dobbiamo accettarlo. Siamo tutti prigionieri di una fantasia: una storia immobile, in cui domani è una ripetizione di ieri. E’ un modo di sconfiggere l’ansia, ma il mondo non funziona così. La vita di ogni italiano adulto non è segnata solo dalle vicende nazionali, ma da grandi eventi lontani: la fine dell’Urss, l’avvento di internet, l’11 settembre, il tracollo finanziario e il primo presidente afro-americano, il ritorno del terrorismo. Le cose cambiano e la storia corre: negli Usa più che altrove. È accaduto. La nazione di Bruce Springsteen ha ballato al buio, e s’è ritrovata tra le braccia di Donald Trump.
Il Sole 24 Ore
L’EUROPA POST-BREXIT COSTRETTA A DIVENTARE ADULTA
di Adriana Cerretelli
L’America di Barack Obama debuttò nel vecchio continente con uno strappo clamoroso, il rifiuto di incontrare l’Unione europea a Bruxelles, la sua capitale. Arnese vetusto, opaco, incomprensibile: Unione chi, cosa, per fare che?
Era l’aprile del 2009. Il giovane presidente dell’impossibile le preferì Strasburgo e Praga: il vertice Nato e l’abbraccio con la gente europea in una delle città simbolo dell’Europa dell’Est liberata. Per diventare Obama l’europeo, il convinto sponsor del Ttip, il grande patto economico transatlantico oggi arenato, avrebbe aspettato il secondo mandato, il calo della febbre per il Pacifico, le tante delusioni di politica estera, insomma un nuovo debutto: la stagione del realismo.
Anche se poi in parte corretta, la fine non dichiarata dell’eurocentrismo americano nel mondo globale fu uno schiaffo bruciante tra vecchi amici: niente rotture, continuità di dialogo ma in modo più freddo e lontano. Oggi, con il cambio della guardia alla Casa Bianca, la deriva euro-americana potrebbe accentuarsi.
Otto anni dopo quell’aprile del 2009, il mondo non è più lo stesso, l’America è più debole, l’Europa molto ma molto di più. Logica vorrebbe che l’Occidente si ricompattasse, rinserrasse i legami al proprio interno, tra la Cina che sale e la Russia di Putin che recupera influenza a suon di campagne militari in giro nelle grandi aree di crisi ucraino-mediorientali.
Invece accade il contrario. Su entrambe le sponde dell’Atlantico le sue democrazie si fanno più introverse, populiste, protezioniste, nazionaliste, isolazioniste. E anche sgovernate. L’Unione non sta più insieme, si sfalda tra le sue multi-crisi che auto-perpetua, incapace di risolverle. Gli Stati Uniti sembrano “europeizzare” i loro istinti nel senso più deteriore, sfascista invece che pragmatico e costruttivo.
«La verità è che siamo piombati nel mondo post-fatti, nell’era dove sono le emozioni, le paure dei cittadini e non il reality-check a muovere il consenso nelle democrazie» dice un diplomatico europeo. Se il Ttip, la più importante strategia economica occidentale, è finito su un binario morto, è perché i turbamenti caotici e più o meno fondati di alcuni fanno premio sull’interesse collettivo. L’Europa, intanto, continua a pretendere assistenza militare e scudo Nato ma appare sempre più intollerante verso la leadership americana.
Di incongruenze e frizioni con l’America di Obama ce ne sono state tante. Nessuna è però riuscita a interrompere la prevedibilità né la tenuta delle relazioni transatlantiche, garanzia di stabilità nel disordinato pianeta globale.
Da oggi si entra invece in terra incognita. L’America sarà comunque diversa. Lo scontro perdente con la globalizzazione l’ha cambiata cambiando le pulsioni della sua società e della sua democrazia, come la campagna elettorale di violenza senza precedenti ha ampiamente dimostrato.
Per questo anche il teorema europeo finirà per cambiare. Quando e quanto sarà tutto da scoprire. Ma cambierà, chiunque sarà presidente.
Se, 71 anni dopo la fine della guerra, la Nato continuerà a sopravvivere a se stessa, lo farà solo a una condizione: che l’Europa si faccia finalmente carico delle sue responsabilità militari e costi relativi, si doti di una base industriale e di un’intelligence davvero integrati e quindi credibili. Il contribuente americano, democratico o repubblicano che sia, non è più disposto a finanziarla al suo posto. Sono anni che l’America lo chiede ma questa volta la festa è finita davvero.
Sui rapporti con la Russia, una linea più dura potrebbe far saltare l’intesa Germania-Usa di questi anni e minacciare anche su questo lato l’unità transatlantica. Su economia e commercio, il protezionismo è in agguato: la conflittualità potrebbe finire per schiacciare gli interessi comuni.
In un modo o nell’altro, volente o nolente, l’Europa post-Brexit sarà dunque costretta a diventare più adulta, più presente e credibile sulla scena internazionale. Fine delle solidarietà gratuite. Forse questo è l’unico punto davvero fermo dell'America che cambia passo e presidente.
Il Sole 24 Ore
DUE VISIONI SUL RUOLO USA
di Ugo Tramball
«La Nato è uno dei miglior investimenti che l’America abbia mai fatto», aveva detto Hillary Clinton all’università di Stanford, durante la sua campagna. «La Nato ha un problema, è obsoleta. Ci sono molti membri che non pagano il conto», aveva sostenuto Donald Trump in un comizio nel Wisconsin. Le differenze incominciano dall’Alleanza atlantica, il pilastro che dal 1949 sostiene tutta la politica estera degli Stati Uniti.
Ed è difficile trovare su questo terreno una crisi, un conflitto, un sistema di alleanze, un negoziato che i due candidati pensino di affrontare allo stesso modo o quasi. Se la continuità su come affrontare le vicende mondiali è una caratteristica della democrazia americana (in genere di tutte le democrazie), queste elezioni offrono un altro precedente. Hillary presidente sarebbe la continuità certa. Di più: rispetto a Barack Obama che ha affrontato più di una crisi cercando di evitare di essere coinvolto, lei ripristinerebbe l’uso di quella dissuasione militare che ha reso credibile l’America per gli amici e i nemici.
Non è ancora chiaro se Trump pensi a un nuovo isolazionismo globale o a un iper-interventismo. In un modo o nell’altro da presidente rappresenterebbe una rottura completa con quello che l’America è stata in questi 70 anni. Per lui la Nato non sarebbe più inclusiva per natura: escluderebbe tutti quei paesi (l’Italia) che non spendono per la difesa il 2% del loro Pil, come stabilito dall’Alleanza. Il problema è che sono solo quattro le nazioni che ottemperano quell’obbligo. Nel secondo dibattito con Hillary Clinton, il candidato repubblicano aveva detto senza paura di essere frainteso, quali dovrebbero essere oggi i veri alleati degli Stati Uniti, soprattutto nella lotta al terrorismo: la Russia, l’Iran e il regime siriano di Bashar Assad. Cioè gli attuali avversari dell’America in Medio Oriente.
Visioni opposte anche sull’utilità dell’arsenale nucleare per la cui riduzione la candidata democratica riprenderebbe il negoziato avviato da Barack Obama, sebbene con meno entusiasmo. Sostanzialmente, l’arma atomica è stata creata per non essere usata, è uno strumento di difesa, non di attacco. Non per Donald Trump che ha proposto di usarla contro l’Isis se attaccasse. «Le abbiamo fatte? Perché le abbiamo fatte?», ha dichiarato in un’intervista televisiva. Forse le parole dette in campagna elettorale rappresentano parzialmente la volontà del candidato, una volta diventato presidente. Ma ne denunciano i desideri. In realtà Donald Trump ha riempito i giornali di dichiarazioni eclatanti ma non ha offerto un programma coerente di politica estera. Sembrava quasi che ne parlasse solo perché una campagna elettorale lo richiede. George Shultz, che è stato per sei anni segretario di Stato di Ronald Reagan, sosteneva che quando manca una politica si ha sempre la grande tentazione di tenere un discorso.
Dopo aver mestato un po’ con i suoi hackers e approfittato delle debolezze americane in Medio Oriente ed Europa, anche Vladimir Putin preferisce avere a che fare con Hillary Clinton. Forse. Amici e concorrenti si sentirebbero più rassicurati dall’esperienza politica internazionale della candidata democratica che dalle minacce di Trump. Ma se vincerà, dovrà dedicare la prima parte della sua presidenza a convincere che l’America resta il protagonista della scena mondiale. La campagna elettorale così divisiva, mediocre, a volte orrenda, ha probabilmente avuto effetti negativi, se non devastanti, per la credibilità internazionale degli Stati Uniti. Ripristinarne l’autorevolezza dovrebbe essere lo stesso problema del candidato repubblicano. Ma a questo Donald Trump non sembra molto interessato.
La Repubblica
L’AMERICA FERITA
di Vittorio Zucconi
Washington. E adesso, Presidente? Nella solitudine degli 80 metri quadrati dello Studio Ovale davanti alla scrivania che fu di John F. Kennedy, il panorama di un’America straziata e di un mondo sbriciolato si spalancherà in tutta la sua enormità oltre le finestre blindate. Mai, si è detto e ripetuto in questa tossica campagna elettorale, gli Stati Uniti sono stati tanto divisi, il rancore degli sconfitti verso i vincitori tanto acre e la convalescenza tanto precaria. Ma è vero?
La tentazione di annunciare l’Apocalisse americana, di narrare l’Armageddon finale delle contraddizioni culturali, sociali, economiche, razziali di quella insalatiera umana, come la definiva Jimmy Carter, chiamata America è un tema ricorrente nel racconto degli Stati Uniti. L’andamento di questa campagna elettorale 2016 lo ha riportato d’attualità con la prepotenza della retorica di Trump. Mai, nella storia moderna della politica, negli Usa si era sentito il candidato di un partito definire l’avversario, in questo caso l’avversaria, una «farabutta criminale», promettendo di lock ‘ er up, di rinchiuderla in carcere dopo l’elezione tra le ovazioni dei supporter. Mai un candidato aveva messo a priori in dubbio la regolarità del sacrosanto processo elettorale e la legittimità del risultato. Trump è stato il giocatore che contesta l’arbitro «prima che cominci la partita» ha detto Barack Obama.
Ma la profondità delle faglie sismiche che oggi spaccano gli Stati Uniti appare insanabile soltanto se la si osserva nel presente e non nella continuità turbolente di una nazione che continua a cambiare se stessa, generazione dopo generazione. Le lacerazioni che oggi la percorrono sembrano inedite e insanabili soltanto perché uno dei due pretendenti alla corona temporanea ne ha fatto la propria piattaforma di successo, utilizzando l’eco ormai immensa della caverna dei Social network.
Oltre i dispettucci personali, le mani non strette, le volgarità da spogliatoio di palestra, la paranoia delle forze di sicurezza timorose che tanta violenza retorica si materializzasse in proiettili, gli orridi spot televisivi, la realtà sociale e culturale sottostante non è più difficile, né insanabile, di quanto sia stata in altri momenti di crisi e forse sempre. Una serie di miti è riaffiorata, per provare l’abisso sul quale l’America cammina, ma visti da vicino sono, appunto, più miti politici che realtà.
La compressione della “classe media”, intesa come classe media maschile e bianca, non è cominciata con i trattati commerciali di libero scambio o con la delocalizzazione: muove negli anni ’70, quando l’esplosione del prezzo del petrolio coglie completamente impreparate le Sorelle di Detroit, chiuse nelle loro arroganza, e spalanca le porte alle più razionali produzioni giapponesi. L’inquietudine e la frustrazione dei ventenni, i “Millennials” come sono stati battezzati ora, non raggiungono neppure la soglia delle rivolte violente cominciate nei campus universitari degli anni ’60, stimolate dal Vietnam, mentre la brutalità della polizia contro le vite dei neri è una continuazione, non una novità, in una storia che ha visto cani lanciati contro dimostranti pacifici nel Sud. I rari episodi di disordini nei comizi di Trump sono scaramucce rispetto alle giornate di guerriglia sanguinosa attorno alla Convention Democratica di Chicago1968.
Il fatto che si sfrutti il turbamento di una società spregiudicatamente a fini elettorali non lo rende né più letale del passato, né nuovo. Il discredito delle istituzioni è acuto, ma non inaudito a chi visse e ricorda gli anni di Nixon, “Dick il Sudicio”, di Johnson il “killer dei ragazzi americani”, della tragica follia del Maccartismo. Tutto è grave, tutto è importante nella nazione che oggi paga, dopo il passeggero balsamo delle buone intenzioni spalmato con il primo presidente afroamericano, il trauma ritardato di quindici anni terribili, aperti dall’oscenità del 2001, acuiti dall’insensatezza delle guerre lanciate “per scelta” e dal collasso delle banche travolte dalla loro stessa ingordigia incontrollata.
Ma l’America del 2016 che il nuovo Presidente vedrà attraverso le finestre del proprio studio, anch’esso toccato dalla vergogna di uno scandalo umiliante, non è diversa dall’America che Roosevelt ereditò da Hoover, Johson dal Kennedy assassinato, Carter da Ford, Reagan da Carter e Obama da Bush il Giovane. L’abisso fra città e campagne, fra Park Avenue e Main Street dei piccoli paesi, fra le signore in carriera che vivono nei sobborghi nutrendo i figli di buoni cibi nutrienti e le “casalinghe disperate” sparse nel ventre del Grande Ovunque americano senza futuro con le loro micidiali merendine, è sempre stato visibile e incolmabile, agli occhi di chi uscisse dal perimetro delle metropoli e si avventurasse oltre. Ogni presidente, quale che sia il suo colore politico, lo conosce, promette di colmarlo e fallisce.
Speculare sulle contraddizioni dell’America ha fatto vincere molte elezioni, ma non le ha mai sanate, perché esse sono il motore, la natura profonda di una società costruita sul “sogno” che ha l’inevitabile rovescio, “l’incubo”. Gli attacchi del terrorismo pseudo mistico, l’alluvione di immigrati dal Grande Sud hanno agitato l’America bianca e l’hanno incattivita nel panico del sentirsi assediata e minoritaria. “The White Male”, il maschio bianco, si sente ormai specie in via di sottomissione, circondato da nuovi americani sempre meno bianchi e da donne sempre più uguali a lui. Dunque l’America che il 46esimo presidente dovrà guidare è una nazione che si sta, ancora una volta, trasformando e confonde, per alcuni, la trasformazione con la fine. Ma, ancora una volta recuperando Mark Twain, le notizie della sua morte sono grandemente esagerate. They will survive. Sopravviveranno.