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Carla Ravaioli
L'ambiente, il grande assente
3 Dicembre 2007
Scritti su cui riflettere
“Ma i politici e i loro consiglieri i giornali li leggono?”. Direi di no, al di là dei gossip del Palazzo. Da il manifesto del 27 aprile 2006

Non ho seguito tutti i dibattiti, confronti, faccia-a-faccia preelettorali (Dio mi perdoni, credo sarei ammattita) ma insomma, interi o in parte, me ne sono fatti un discreto numero, compresi da cima a fondo i due Prodi-Berlusconi. E mai, dico mai, mi è capitato di sentir nominare, dico nominare, l'ambiente. Immagino che almeno Pecoraro Scanio lo abbia fatto, ma le non poche volte che l'ho incrociato sullo schermo, non ho avuto la ventura di ascoltarlo su questa materia.

Ora, a elezioni sperabilmente concluse, nonostante le previsioni di tempi lunghi per la formazione del nuovo governo, tutti si affannano a dar consigli al futuro premier. Tutti quasi esclusivamente parlando di conti da risanare, e concordemente indicando crescita, produttività, competitività, ai fini di un'indispensabile «risalita», in mancanza della quale l'Italia rischierebbe di rimanere esclusa da quella «ripresa» che nel resto del mondo sembra felicemente annunciarsi, anzi forse già c'è; e tutti suggerendo iniziative che aiutino le imprese ad aumentare dimensioni e fatturati così da reggere la furibonda guerra del mercato globale. Di che stupirci? Questi sono i temi e i toni che tengono banco nel mondo economico come in quello politico, a prescindere dagli orientamenti, praticamente in tutti i paesi. Consigli per tentar di arginare lo sconquasso ecologico nessuno si sogna di darne. Né sembra sfiorato dal dubbio che i consigli elargiti lo sconquasso lo aumenteranno.

E vien fatto di domandarsi: ma i politici e i loro consiglieri i giornali li leggono?

Non che i giornali, per carità, siano assenti dal gran coro che invoca produttività competitività crescita. E però tutti, e con una certa frequenza, strillano titoli a effetto e a piena pagina per dire di calotte polari che si sciolgono, di deserti che avanzano, di fiumi giganteschi (Rio delle Amazzoni, Nilo, Fiume giallo) ridotti in secco, di alluvioni sempre più numerose e distruttive, e per ripetere che sono proprio le attività economiche in continua espansione a determinare una pressione insopportabile dagli ecosistemi e a comprometterne il regolare funzionamento. Lo dicono a una loro maniera schizoide, nel momento stesso in cui in altre pagine (le prime solitamente) levano lamenti sul Pil ostinatamente immobile, sull'auto che non tira come dovrebbe, insomma sulla stagnazione di quanto dello sconquasso è causa prima. Ma comunque lo dicono. E poiché notoriamente i giornali sono immancabili compagni di vita del politico di professione, parrebbe logico che leader di partito, parlamentari, ministri, conoscessero almeno l'esistenza del problema ambiente. O si deve pensare che le pagine dedicate alla materia le saltino a piè pari? Non ho risposte.

A meno che non abbia ragione Jeffrey D. Sachs della Columbia University il quale (su La Repubblica del 18 aprile scorso) afferma: «I nostri politici operano alla superficie degli eventi senza comprenderne le realtà sottese». Se così non fosse - arguisce - poiché si parla di «un possibile aumento di almeno quattro volte dell'economia mondiale entro il 2050», e dato che «il cambiamento climatico non è un timore per il futuro ma un processo già ben avviato», i responsabili delle nostre sorti capirebbero che "le sfide più importanti non sono gli scontri di civiltà, 'noi contro loro', ma quelle che 'noi, tutti insieme' dobbiamo affrontare per prevenire le catastrofi ecologiche e sanitarie che sono in agguato dietro l'angolo".

L'opinione è pienamente condivisa da Nicholas D. Kristof, noto scienziato americano che dopo aver descritto una delle possibili Apocalisse prossime venture (ancora La Repubblica, 19 aprile) dichiara: «Il nostro sistema politico non pare essere in grado di comprendere le questioni scientifiche come quelle del mutamento climatico», qualcosa cioè che «dovrebbe essere considerato una minaccia più grave di un Iran in possesso di una bomba atomica». E conclude: «La migliore ragione per agire in relazione al riscaldamento globale resta l'imperativo di proteggere il pianeta, ma i nostri leader stanno miseramente fallendo in tale responsabilità».

Appena qualche giorno prima era stato il primo consigliere scientiifico di Blair, Sir David King, in un'intervista diffusa dalla Bbc e ampiamente ripresa in prima pagina da The Indipendent del 15 aprile, a lanciare un duro richiamo al suo governo e all'Unione europea, colpevoli di non attenersi agli impegni assunti col secondo Protocollo di Kyoto. Sir David cita la previsione del Headley Centre for Climat Changeand Prediction, uno dei più famosi centri di analisi climatiche, secondo cui un ulteriore aumento della temperatura terrestre (3 gradi centigradi entro il secolo secondo le previsioni) comporterebbe rischio di malnutrizione per 400 milioni di persone, lascerebbe senz'acqua da uno a tre miliardi di individui, causerebbe una diminuzione dei raccolti di grano tra i 20 e i 400 milioni di tonnellate e la distruzione di metà delle risorse naturali mondiali. Ai politici convinti di potersi affidare semplicemente alla produzione di energie alternative per risolvere il problema, grida che dovrebbero piuttosto ascoltare gli scienziati. E conclude: «C'è differenza tra essere ottimisti e nascondere la testa sotto la sabbia».

Chissà se a qualcuno dei nostri politici è capitato di buttare un occhio su questi pesanti giudizi, che indirettamente riguardano anche loro, espressi da persone altamente qualificate e disinteressate? O se, vedi mai, hanno dedicato un minimo di attenzione a qualcuna delle notizie di ordinaria devastazione ecologica e umana, di recente qua e là fornite? Cito a caso dalle ultime due o tre settimane. L'immensa, irrespirabile nuvola di smog e sabbia che avvolge non solo Pechino, ma più di un milione e mezzo di chilometri quadrati di Cina, con 562 città e circa 200 milioni di persone, che raggiunge con polveri tossiche anche Corea e Giappone, che riempie gli ospedali e non ha trovato finora rimedi se non «stare a casa», secondo l'illuminato consiglio delle autorità. Elba e Danubio che innondano Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Serbia, con centinaia di migliaia di evacuati. Altre migliaia di evacuati in Australia per un ciclone con venti a 250 all'ora e onde di otto metri. Ventisette morti per un tornado nel Tennessee, Usa, due morti per un tornado vicino ad Amburgo, Germania. Morti e dispersi per piogge torrenziali e allagamenti in Kenya (quanti non si sa mai con precisione quando si tratta di profondo Sud).

Non si può spaventare la gente bombardandola di paure apocalittiche, dobbiamo tenere alto il morale. Così o pressappoco, di fronte a questo semplice richiamo alla realtà, immagino reagirebbe la grande maggioranza dei politici, indefettbili campioni di «pensare positivo». Vorrei rispondere - semmai qualcuno di loro getti uno sguardo su queste righe - ricordando un sondaggio pubblicato dal Corriere della Sera il 27 novembre dello scorso anno. Si domandava quale fosse la cosa più temuta, e ne risultava che il 63,2 per cento degli italiani temono soprattutto «la distruzione dell'ambiente». La temono più della perdita del lavoro, secondo item in graduatoria, ma con forte distacco (50,6), più di una nuova guerra (50,1), della mancanza di pensione (45,5), di nuove epidemie (40,7), ecc.

Se in campagna elettorale qualcuno dell'Unione si fosse ricordato almeno di citare il rischio ecologico, chissà mai che la vittoria potesse essere un po' meno risicata?

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