Quella che si sta consumando sotto i nostri occhi è la crisi della democrazia parlamentare. La crisi di quella originale e unica forma di democrazia che i moderni hanno con fatica e anche tragiche interruzioni costruito mettendo insieme istituzioni e meccanismi politici che non sono di per sé democratici: le elezioni, la rappresentanza, la costituzione, le carte dei diritti, la divisione dei poteri. A questi strumenti istituzionali si sono aggiunti i partiti politici, istituzioni ibride che vivono e crescono fuori dello Stato pur consentendo alle istituzioni dello Stato di funzionare e, soprattutto, di essere rappresentative. I partiti sono forse l’aspetto più moderno e anche più controverso del governo dei moderni.
Identificati fin dal Settecento con le fazioni, come a sottolineare la loro tendenza a subordinare il bene comune a interessi di parte, i partiti hanno tradizionalmente destato diffidenza e ostilità. Non è un caso se i padri fondatori del parlamentarismo liberale ottocentesco, del quale ci parlava Carlo Galli su queste pagine, idealizzassero un parlamento composto di personalità rappresentative perché ottime e capaci, ma non di rappresentanti politici. E’ nota la durissima critica di J. S. Mill al partito politico (benché egli poi preconizzasse l´articolazione della politica nazionale in un campo conservatore e un campo progressista, anticipando suo malgrado la divisione ideologica tra destra e sinistra); la sua convinzione che occorresse un sistema elettorale capace di selezionare i migliori, proprio perché tali, non perché espressioni di interessi di parte. Rielaborando da Edmund Burke, Mill pensava che i migliori sapessero che cosa fosse il bene generale senza bisogno di piegarsi alle pressioni dei cittadini. Non stupisca questa diffidenza verso i partiti: i parlamenti liberali ottocenteschi erano eletti da una piccolissima minoranza di elettori simili e anzi identici negli interessi, al punto di potersi permettere il lusso di pensare di usare il parlamento come un simposio platonico, dove solo le buone ragioni, il libero scambio delle idee e l’indipendenza di giudizio avrebbero dovuto operare. Il mito del parlamento come luogo di discussione disinteressata e oggettiva tra individui eccellenti è figlio di un sistema politico non democratico.
Il parlamento liberale ottocentesco non ha pressoché nulla a che fare con il parlamento democratico. E la ragione principale sta nel fatto che contrariamente a questo, esso poteva sopravvivere senza i partiti (proprio perché espressione di un corpo elettorale socialmente e culturalmente omogeneo). Ma quando il suffragio cessò di essere un privilegio di pochi e diventò un diritto egualmente distribuito tra tutti, le differenze sociali e di opinione si resero immediatamente visibili e spesso non superabili con la libera discussione razionale. Il parlamento cominciò a popolarsi di "avvocati" di interessi spesso contrapposti, a volte nobili (per il suffragio femminile o per la conquista dei diritti sociali) a volte meno nobili (a favore di interessi corporativi) a volte terribili (a favore di ideologie totalitarie). La fine del parlamentarismo liberale si è consumata al principio del Novecento, allorché appunto i partiti dimostrarono di essere loro, non gli individui rappresentativi idealizzati da Mill, i dominatori dell’agone politico, dentro e fuori il parlamento. La democrazia parlamentare fu l’esito del difficile ma necessario accomodamento dei partiti alla politica costituzionale e dei diritti.
Pensatori politici autorevoli si scagliarono contro i partiti nel nome dell’unità plebiscitaria del corpo politico (come fu il caso di Carl Schmitt), oppure li accettarono pragmaticamente ma con la prospettiva di vederli liberi da ideologie o identità ideali forti e quindi disposti a fare compromessi e mutare di posizione (come fu il caso di Hans Kelsen e, per una parte della sua militanza intellettuale, di Norberto Bobbio). Dunque, anche quando se ne comprese l’importanza o ci si arrese alla loro utilità pratica, i partiti non vennero per questo emancipati dalla pessima reputazione che li aveva per secoli dannati e rimasero, ha scritto di recente Nancy Rosenblum, "orfani di teoria", sopportati ma mai ritenuti una forma nobile di politica.
Pochi compresero appieno la loro centralità nella democrazia parlamentate. Tra questi Lelio Basso (uno dei nostri rari pensatori democratici) il quale si impegnò con tenacia a mostrare come, quando il sovrano democratico perde lo scettro (perché non vota più le leggi direttamente) deve poter contare su forme di partecipazione che, benché informali e non esenti da rischi oligarchici, sappiano incidere sulle istituzioni: proponendo leggi, organizzando l’opposizione, esercitando il controllo sui parlamentari, tendendo viva la presenza simbolica dei cittadini. Per contro, la crisi della democrazia parlamentare è un riflesso di quella dei partiti.
E’ questa la crisi nella quale versa oggi la nostra democrazia. Senza partiti: o perché quelli che governano sono proprietà o emanazione di un potentato economico; o perché quelli che sono all’opposizione si stanno sbriciolando nei mille rivoli dei notabilati, lacerati da lotte intestine di carrieristi e oligarchie. In nessuno dei due casi possono svolgere quella funzione di sorveglianza e rappresentanza preconizzata da Basso. Nel primo caso perché il partito è qui un fatto essenzialmente proprietario, quindi un’anomalia vera e propria che spiega, tra le altre cose, la ragione per la quale l’esecutivo ha acquistato tanto prevaricante potere in Italia (e perché il capo del governo può togliere voce al parlamento e rendere la sua maggioranza un megafono senza autonoma personalità).
Nel secondo caso (che riguarda il partito di opposizione) perché il partito soffre di una debolezza di identità ideale e di autorevolezza politica con la conseguenza di svilire la partecipazione e la stessa vita parlamentare, di alimentare anziché arginare i diffusi sentimenti anti-politici.
Senza i partiti, il parlamento democratico cessa di essere rappresentativo della società e i parlamentari diventano rappresentanti di se stessi e di gruppi di amici e clienti, mentre viene meno ogni forma di controllo sugli eletti (la deprecata disciplina di partito è stata una forma tutt’altro che perversa di realizzare il mandato politico contenendo il potere degli eletti, la sua scomparsa spiega il caso Villari o i casi regionali che ben conosciamo). I nemici dei partiti sono tanto coloro che invocano il partito del capo (plebiscitarismo) tanto coloro che idealizzano parlamenti senza partiti. In entrambi i casi è il parlamento democratico (la democrazia rappresentativa) a perdere di autorità e di valore, a languire per l’aria mefitica provocata da partiti che non sono più tali.