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Angelo D'Orsi
L’adunata dei refrattari, ovvero: «Histoire ou Barbarie»
20 Marzo 2010
Scritti 2010
L’editoriale programmatico di una nuova rivista che rivendica il «diritto alla storia»: aggiungiamolo tra quelli per cui ci battiamo. Historia Magistra, n. 1, 2009

Una nuova rivista di storia? Ebbene, sì. Osiamo presentarci sul “mercato” delle idee, forti di un principio banale, ma, ci risulta, non dichiarato né rivendicato prima della nascita dell’Associazione, di cui questa testata si presenta come strumento. Questo principio è, in realtà, un diritto. Noi rivendichiamo il diritto alla storia, come uno dei diritti fondamentali degli esseri umani. Diritto essenziale, ma mai riconosciuto esplicitamente, meno che meno esplicitamente rivendicato. Historia Magistra, l’Associazione, e, ora, la rivista, non esita a iscrivere sulle sue bandiere questo diritto, a costo di apparire retorici. Non insistiamo su questo, rinviando al documento programmatico che pubblichiamo in questo numero e ripubblicheremo nei numeri successivi.

Dunque, perché una nuova rivista? Sono numerose, le testate storiche, spesso di grande valore, con alcune delle quali molti di noi hanno rapporti di collaborazione. Rispetto ad esse – alle quali non abbiamo la velleitaria ambizione di paragonarci, né tanto meno di sostituirci – noi siamo piccola cosa in questo nostro esordio.

D’altronde, «Historia Magistra» vuole seguire un asse privilegiato nel lavoro che da questo n. 1 pone in essere: l’attenzione agli usi (e abusi) politici della storia. E vuole anche essere, in modo programmatico, un luogo d’incontro fra le tre generazioni di studiosi e studiose oggi sul campo: quella del suo fondatore (che nell’anno 2000 diede vita con un gruppo di allievi e allieve all’Associazione Historia Magistra, e ha sempre lavorato con giovani, oltre che con colleghi); la generazione immediatamente precedente, e quella successiva. Sia il Comitato Scientifico, sia le Redazioni – a cominciare da quella centrale, nata dentro l’Ateneo di Torino – sia i collaboratori, ne danno testimonianza, fin da questo numero d’esordio.

Sebbene nata in ambito accademico, la rivista, generata dalla presa d’atto della forte domanda di Storia presente nel dibattito pubblico (e noi non ci scandalizziamo dell’uso pubblico della Storia), tenterà di essere, in primo luogo, una testata di battaglia (vorremo usare, se non suscitasse scandalo, il termine “guerriglia”) culturale, e, quindi, di informazione storica e storiografica, di discussione critica, che coniughi serietà di impostazione, nei limiti del possibile, con piacevolezza di esposizione, che non sacrifichi il rigore scientifico, alla dichiarata volontà di divulgazione (alta), cercando di parlare a un pubblico anche di non specialisti.

Altra scelta caratterizzante di «Historia Magistra» è di non essere soltanto, in senso tecnico, una rivista storica, o storiografica; ma, seguendo il principio che la storia sia una strada obbligatoria per ogni disciplina, il binario su cui tutte si debbono muovere, vuole essere aperta a contributi tecnicamente collocabili in ambiti disciplinari diversi, tutti, comunque, sensibili alla dimensione storica. Potremmo spingerci a parlare, con rischiosa civetteria, di storicismo… In ogni caso, il nostro primo “comandamento” è che la storia è il mezzo irrinunciabile e necessario di ogni conoscenza: pas d’histoire, pas de connaissance, diremo, parafrasando i nostri classici storiografici: e aggiungendo, subito, a scanso di equivoci, il canonico, ma nient’affatto rituale: pas de documents, pas d’histoire.

Sì, perché oggi è invalsa una pratica, anzi una praticaccia, per cui tutti possono improvvisarsi “storici”, prescindendo da qualsiasi, pur minima, avvertenza metodologica, da ogni contatto diretto con quel materiale che invano i grandi storiografi del XIX secolo ci hanno insegnato a distinguere, a catalogare, e a organizzare, e a trattare secondo tecniche opportune: i documenti, per l’appunto. Codesti improvvisati “storici”, i quali, sostenuti da grandi gruppi editoriali, godendo del favore dei media, non paghi di sbandierare le decine (o centinaia) di migliaia di copie vendute dei loro libri (e dietro quelle cifre affiorano le verità più significative, per loro: le sonanti royalties) sono accreditati quali maîtres à penser, e presto ce li troveremo – e non stiamo parlando della sola Italia, naturalmente – sulla tolda di comando, assiepati intorno a qualche duce o ducetto, che ci guidano verso le magnifiche sorti e progressive della postdemocrazia.

Si aggiunga che quei sullodati sedicenti storici (anche part time, ma non è questo il punto, ovviamente) polemizzano volentieri con la “casta” degli accademici, accusandoli di pretendere di avere il “monopolio” della ricerca e del racconto storico. E anche questa polemica grottesca avviene nel generale consenso dei media, che contribuiscono a costruire e diffondere un pernicioso senso comune, ossia che la storia sia un campo libero, nel quale tutti possono dire o scrivere qualsiasi sciocchezza: insomma, la ricerca storica, il cui compito è produrre conoscenza del passato, viene revocata in dubbio, e nel modo più radicale e volgare. L’epistème viene trasformata in doxa, il sapere in opinione, la scienza in dibattito. E il modello è quello televisivo: il talk show è diventato, nella splendente era della comunicazione globale, la misura e il mezzo, lo scopo e il prezzo di ogni cosa. E dunque se la storia è un’opinione, la narrazione storica diventa confronto delle opinioni, e tra esse vincono quelle meglio sponsorizzate. Apparati mediatici, centri finanziari, e, direttamente, forze politiche si adoperano per far vincere un’“opinione” su di un’altra. E i governi stessi, direttamente o attraverso parlamenti privi di autonomia e spesso di indipendenza, intervengono per sostenere una loro “visione del passato”, promovendo o riprovando, anche con pesanti misure legislative, a cui corrispondono o corrisponderanno azioni giudiziarie, oltre che amministrative, le “opinioni” sgradite, o giudicate “politicamente scorrette” a date maggioranze, a determinati climi e ambienti.

Quel che è più grave, in realtà, non è il venir meno del significato stesso del fare storia come attività scientificamente fondata, libera e autonoma da ogni condizionamento, Quello che è più grave è il senso politico dell’operazione, volta a cancellare le certezze relative agli eventi del passato, che vengono opportunamente “revisionati”, secondo un’ottica estranea al sapere storico, che non procede mai per salti e per rivoluzioni epistemologiche, per ribaltamenti e rovesciamenti. Gli eventi vengono opportunamente aggiustati, arrangiati e adattati, in armonia con il clima generale del tempo. Ma il revisionismo, che si può definire l’ideologia e la pratica della revisione programmatica – con fini esclusivamente politici (oltre che bassamente commerciali),e nient’affatto conoscitivi – con il trascorrere dei decenni non si è più accontentato di tali procedure. E ha compiuto una formidabile accelerazione, sentendo che i tempi erano favorevoli. Si è trasformato così in rovescismo, la sua «fase suprema». Historia non facit saltus, si potrebbe dire, cambiando il soggetto a un celebre motto. La revisione è proprio quel lento, costante lavorio che aggiorna, corregge, aggiunge, e soprattutto pone nuove domande: la Storia che noi intendiamo praticare, o di cui comunque ci dichiariamo sostenitori, è l’Histoire-Problème, che abbiamo appreso, senza feticismi, dai maestri delle «Annales». La revisione nasce – sarà il caso di precisarlo per chi lo ignori o a chi non vi abbia riflettuto a sufficienza – non soltanto, com’è ovvio, dall’accesso a nuove fonti, dal perfezionamento di tecniche di indagine (anche con l’ausilio di mezzi informatici, fotografici, chimici e quant’altro), ma forse soprattutto dalle domande nuove che lo studioso pone ai documenti.

Del resto, la grande tradizione positivistica non ci ricorda che la Storia nasce da una domanda? Die Frage… Quella domanda che Croce, asciuttamente, distingue in «filologica», o meramente accertativa dei fatti, e in «storiografica», ossia problematica: fare storia significa sempre, innanzi tutto, raccontare «che cosa è veramente accaduto»; ma lo storico autentico non si limita a questo; lo storico autentico è chi sa interpretare i fatti, in un tessuto coerente, collocarli nei contesti, micro e macro, individuali e collettivi; lo storico autentico è chi sa porre domande nuove a documenti “vecchi”, ossia già utilizzati anche mille volte. Proprio quest’ultimo è il senso vero, e più profondo, della «revisione». Che è lontana e difforme dal revisionismo. Lavorano in ambiti e con finalità divergenti, non soltanto diverse. Questo deve essere chiaro a noi, senza esitazioni, perché noi dobbiamo essere in grado di farlo comprendere a chi vive al di fuori delle mura protette dalla musa Clio. O a chi le oltrepassa, con la complicità attiva o passiva, e penetrato nella cittadella della conoscenza storica, ritiene di avere titolo a “dire la sua”, orientato da finalità che sono estranee ad essa, e che sono palesemente sorrette da interessi di tutt’altro genere. E grazie a quegli interessi, costoro vengono accreditati mediaticamente. E diventano gli storici “di grido”: dalla Spagna all’Italia, dalla Francia alla Germania…

Contro tutto ciò Historia Magistra – l’Associazione, e ora la rivista – intende combattere. Non saremo una centrale di opinionismo. Non saremo equidistanti. Non seguiremo il modello «Porta a Porta». Saremo, se vi riusciremo, rigorosi e chiari, per poter accampare il diritto di lottare per diffondere un altro, ben più alto diritto: quello alla Storia. Ma, in ciò, noi saremo intransigenti ed aspri. Saremo irritanti e fastidiosi. Saremo ora aggressivi, ora ironici. Ci ispireremo, per quanto sapremo, ad alcune grandi figure, prima fra tutte Antonio Gramsci, al suo insegnamento etico, civile, intellettuale e, osiamo dirlo, politico. Ci ispireremo al suo «sarcasmo appassionato», tentando di fornire a noi stessi e a chi ci vorrà accompagnare nel nostro cammino, strumenti di conoscenza del «mondo grande e terribile». Saremo pronti a lottare, con la modestia delle nostre capacità e la pochezza dei nostri mezzi, per un obiettivo che semplicemente, senza timore di dire una parola sacra, si chiama verità. Perché questo è il compito dello storico. E questo, più in generale, è il dovere dell’intellettuale, che ci piace pensare (alla Benda) nei termini di sacerdos veritatis, non dimenticando, gramscianamente, che la verità è rivoluzionaria, e che la verità che ci sta a cuore è anche la verità che occorre svelare dietro l’ipocrisia, la menzogna, e, soprattutto, l’oppressione sociale. All’intellettuale – segnatamente allo storico – assegniamo il compito primario di costruttore di verità, soltanto nel significato negativo. Ossia, il disvelamento della menzogna.

Oggi la menzogna ha molti volti: noi scegliamo di svolgere il nostro compito usando i nostri strumenti, quelli della ricerca scientifica, del metodo storico, dell’acribia filologica, della scepsi critica. E, con un pizzico di superbia, decidiamo di affrontare un compito che è scientifico ma è anche politico: come crediamo debba essere la figura dell’intellettuale, ossia di chi, per dirla con Sartre, «abbraccia interamente la sua epoca». Noi non abbiamo nel nostro ideale la figura dello studioso rinchiuso nel suo studio, ma quella dello studioso che si cimenta con i problemi del suo tempo, che si “sporca le mani”, per citare ancora Sartre; che parteggia. «Odio gli indifferenti»: il grido di battaglia lanciato dal giovane Gramsci sulle pagine del numero unico «La Città Futura», nel febbraio 1917, è per noi non solo attualissimo, ma indispensabile. La lotta per la verità è sempre politica, e la verità giova a tutti: o meglio, a tutti coloro che non traggono vantaggio dal suo occultamento o dal suo rovesciamento: in primo luogo, quei ceti subalterni a cui il Gramsci maturo, andando oltre il concetto canonico di proletariato, guardò con attenzione, aprendo così un filone di studio (e di lotta) su cui oggi molte scuole si sono indirizzate.

La lotta contro le menzogne, contro le false verità, contro le imposizioni di impossibili «memorie condivise», contro i vuoti di memoria, contro le facili tendenze all’oblio, contro mistificazioni e rovesciamenti, contro invenzioni di tradizioni, contro il ricorso alla storia come un grande magazzino ove a basso costo si prendono merci da usare a fini di auto legittimazione politica o di delegittimazione dei propri avversari o nemici…

Contro tutto ciò, con tutte le nostre forze, ci batteremo, determinati a rompere un silenzio che ci opprime, e un rumore che ci assorda: mezzi di cui il potere tenta di sedare ogni spirito critico, ogni istanza, appunto, di verità. Saremo pochi? Saremo deboli? Non importa, Quello che crediamo importi, è contarsi. E cominciare la lotta. La nostra può anche definirsi (lo diciamo prima che ce lo si dica in modo sardonico), un’adunata dei refrattari. Refrattari alle pseudostorie, refrattari alle teorie e alle pratiche di cui abbiamo fornito qui un sintetico campionario. Refrattari allo svuotamento della democrazia che passa anche, e forse prima di tutto, attraverso questa manomissione della Storia. Che precede e accompagna, magari, la manomissione delle istituzioni: le modifiche costituzionali, gli indirizzi politici populisti e plebiscitari, il leaderismo spinto a livelli mai visti in età contemporanea nei regimi liberali, l’attacco all’indipendenza della Magistratura come potere terzo, la riduzione progressiva del pluralismo dell’informazione e della comunicazione, la privatizzazione delle risorse naturali primarie, il controllo privatistico del sapere, il conformismo culturale, la televisione come un vero e proprio potere a sé stante; e, in una situazione di crescente, irresistibile finanziarizzazione dell’economia (che peraltro ora si dibatte in una crisi dagli sviluppi imprevedibili), la guerra a far da sfondo, continuo e permanente, in un processo che rischia di travolgerci tutti. Lo scenario che si sta prefigurando, nell’autunno della democrazia, è inquietante. E dobbiamo reagire.

Fare storia, farla seriamente e appassionatamente, con scienza e con volontà di verità (ossia di giustizia), crediamo sia alzare una buona barricata. Lavoreremo sui tempi lunghi della guerra di posizione, ma senza escludere i tempi brevi della guerra di movimento; cominciando subito, prima che sia troppo tardi, prima di dover lanciare il grido d’allarme: Hannibal ad portas.

Insomma, concludendo e parafrasando un celebre, disperato, motto di lanciato da un gruppo di marxisti “eterodossi”, poco più di sei decenni or sono (e che esattamente sessant’anni fa diede vita a una rivista omonima: «Socialisme ou Barbarie»), diremo: Histoire ou Barbarie.

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