L'acquedotto più grande d'Europa è una società per azioni a totale capitale pubblico ma assoggettata al diritto privato. Una legge ne chiede il passaggio al diritto pubblico e la sottrazione definitiva al mercato. Per questo, e per sostenere i referendum, i comitati suonano la carica Oggi a Bari movimenti per l'acqua pubblica manifestano per chiedere l'approvazione della legge sulla ripubblicizzazione dell'Aqp
Oltre un milione e quattrocentomila le donne e uomini che hanno sottoscritto i referendum perché l'acqua venga sottratta dalla logiche di mercato e dal rischio della privatizzazione. Un movimento partito dal basso che oggi, a Bari (ore 9.30, Piazza Umberto) segnerà la prima tappa di un percorso di mobilitazione popolare che il 26 marzo arriverà a Roma, per chiedere che l'acqua sia e rimanga un «bene comune». Animato dal comitato pugliese Acqua bene comune e dal Forum italiano dei movimenti per l'acqua, il movimento oggi scende in piazza non solo per affermare il sì alla ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese, per sostenere i due referendum sull'acqua bene comune e per fermare il nucleare, ma la riflessione si allarga sulla deriva liberista dei governi che in Italia e in Europa negli ultimi 15 anni hanno spinto verso la privatizzazione dei servizi pubblici, dalla sanità all'istruzione, fino ad arrivare, appunto, all'acqua.
Che oggi diventa il simbolo per eccellenza del concetto di bene condiviso. Proseguendo su un percorso già iniziato nel 2008, la sfida ultima del Comitato è portare il ddl per la ripubblicizzazione (nella versione originaria) dell'acquedotto pugliese, in Consiglio regionale prima dei referendum sull'acqua pubblica, in programma il 12 giugno prossimo. Secondo il Comitato «approvare tale disegno di legge prima dello svolgimento dei referendum, sancirebbe la volontà della Regione Puglia di rivendicare l'autonomia ad assumersi la responsabilità in tema di gestione pubblica del servizi idrico rispetto agli obblighi imposti dalla vigente legislazione». In Puglia infatti l'acquedotto è una società per azioni e, pur essendo a totale capitale pubblico (la Regione Puglia detiene il 100% delle azioni) è gestita secondo le regole del diritto privato. Il rischio reale è che parte delle azioni possa essere venduta ai privati. Rischio che si è corso il 25 febbraio 2009 - ricorda il Comitato - quando in Consiglio regionale il Pd, attraverso il suo capogruppo in Consiglio, presentò una mozione per vendere una parte delle azioni ai privati. Per fortuna tale mozione venne ritirata grazie alla forte e costante mobilitazione dei movimenti per l'acqua e, più in generale, della cittadinanza.
Il ddl in funzione anti-privatizzazione nasce nel dicembre 2009, sulla spinta e grazie alla collaborazione tra Comitato pugliese Acqua bene comune, Forum italiano dei movimenti per l'acqua e Regione Puglia. È approvato in giunta con alcune modifiche rispetto al testo licenziato dal tavolo tecnico, poi corrette, come richiesto dal Comitato, in una successiva delibera di giunta del febbraio 2009. Il testo non è stato però portato in Consiglio regionale entro la fine della legislatura.
L'attuale Giunta ha licenziato nuovamente il disegno di legge a maggio 2010, ma solo ad ottobre sono state avviate le audizioni presso le commissioni regionali competenti (II, Affari Generali e V, Ecologia, Tutela del Territorio e delle Risorse Naturali). «Nichi Vendola e l'assessore alle Opere pubbliche e Protezione Civile, Fabiano Amati - ricorda il Comitato - si impegnarono a portare il ddl in Consiglio prima della fine del mandato della giunta Vendola, cosa che però non avvenne. In campagna elettorale Vendola si impegnò a nome della sua coalizione, a trasformare il ddl in legge entro i primi 100 giorni del suo nuovo governo». Ma il ddl per ripubblicizzare l'Aqp giace ancora nelle commissioni competenti. In compenso, la mobilitazione non si è mai arrestata. Allo scadere dei 100 giorni dalla riconferma di Vendola alla guida della Regione, il Comitato provinciale Acqua bene comune di Brindisi ha inviato una lettera aperta alle commissioni consiliari competenti, ai consiglieri di maggioranza e agli assessori della giunta regionale pugliese, per ricordare l'impegno assunto in campagna elettorale chiedendo di procedere con sollecitudine alla calendarizzazione del disegno di legge sulla ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese. Il 28 dicembre 2010, invece, a seguito di un incontro con il Forum pugliese dei movimenti per l'acqua e del Coordinamento pugliese degli enti locali, Amati aveva dichiarato che «ci stiamo impegnando affinché la Puglia approvi un disegno di legge che possa effettivamente rendere pubblica la gestione del servizio idrico integrato, ed è per questo che nel prossimo mese di gennaio saremo in grado di portare in Consiglio regionale un testo che terrà conto anche delle indicazioni contenute nella recente sentenza della Corte costituzionale». La Corte, infatti, appena un mese prima, aveva rigettato il ricorso presentato da Puglia (la prima a presentarlo), Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Piemonte, che chiedevano l'abrogazione delle norme del decreto Ronchi relative alla privatizzazione dei servizi idrici, affermando che «le regole che concernono l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia 'tutela della concorrenza', di competenza esclusiva statale». Un grave precedente, quello della Corte, che mette in relazione la «rilevanza economica» di un bene pubblico che, per definizione, dovrebbe essere scevro da logiche di profitto.
Nel mese di gennaio 2011 sono stati presentati diversi emendamenti al ddl originario e la preoccupazione dei movimenti era dettata dal fatto che «il provvedimento si stesse profilando con differenze sostanziali rispetto all'idea di partenza». Gli emendamenti proposti prevedono, tra l'altro, la possibilità che l'Aqp gestisca attività in stretta conseguenza della gestione del servizio idrico integrato attraverso la costituzione di società miste cioè da società di diritto privato con capitale privato. Ma l'acqua è considerata solo «la punta dell'iceberg della privatizzazione dei beni comuni». Il Comitato vuole avviare un percorso per la riappropriazione sociale di tutti i beni comuni e la realizzazione di un modello di gestione trasparente, pubblico e partecipativo attraverso politiche autorganizzate e dal basso. Per dire che un'altra Italia è possibile. Qui ed ora.