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Paolo Rumiz
L’acqua rubata
16 Maggio 2011
Clima e risorse
Dalla Calabria storia esemplare di una privatizzazione dell’acqua che ha tolto un servizio fondamentale ai cittadini. Su la Repubblica, 16 maggio 2011 (m.p.g.)

Attenti. I tamburi delle acque libere rullano a Sud, nella penultima nocca del ditone calabro, sui monti chiamati "Le Serre". È la lotta di migliaia di abitanti stanchi di una privatizzazione zoppa che, in una terra benedetta dalle migliori sorgenti della Penisola, li obbliga a bere un liquido alla candeggina. Li vedi in processione tra i boschi, silenziosi e furenti, a caccia delle antiche fontane per riempirsi il cofano con le bottiglie di sopravvivenza. Tutta gente che promette sfracelli ai referendum di giugno. Una miccia che inquieta il Palazzo e i padroni delle acque.

Non la vogliono. Quella cosa che esce dai rubinetti è - dicono - iperclorata, sa di ruggine e ha il colore del fango. E viene dalla diga più malavitosa d’Italia, quella dell’Alaco, tra Badolato e Serra San Bruno, famosa per essere costata il decuplo del previsto. Sono anni che la gente ha paura di quell’invaso, ma negli ultimi mesi un balletto di ordinanze di non potabilità (quella di Vibo Valentia è durata 106 giorni!) poi revocate a macchia di leopardo, o reiterate all’interno della stessa rete, ha esasperato il problema, e ora il "tam-tam" corre anche sul web, contesta le rassicurazioni dei gestori, buca il silenzio di chi ha paura.

«Che venga, che venga a casa mia il sindaco di Vibo - urla una donna sui settanta accanto a una fontana sulla strada per Capistrano - venga che gli cucino gli spaghetti con l’acqua dell’Alaco... se li dovrà mangiare tutti!». In questi monti di alberi immensi, tornanti e nebbia, le donne sono le più determinate, il cuore della rivolta. «Figli di p..., scriva che siamo incazzati e non abbiamo più paura; questa è una guerra per la vita perché l’acqua è la vita», sibila un anziano ossuto dalla barba lunga, apparentemente mitissimo, e si fa il segno della Croce dopo la parola "vita" come se avesse chiamato in causa l’Altissimo in persona.

Assaggio l’acqua di Serra San Bruno: pessima. Cerco di capire, e subito mi perdo in un teorema bizantino. In Calabria funziona così: la raccolta e il pompaggio delle acque tocca a una società di diritto privato chiamata Sorical, mentre la distribuzione tramite le condutture spetta ai Comuni. E così, di fronte al vespaio scoppiato sulle Serre, nel Vibonese e dintorni, ecco l’inevitabile palleggiamento di responsabilità, con la Sorical che accusa i Comuni di avere reti colabrodo e la gente dei Comuni che accusa la Sorical di mettere in rete acqua malata. La fiaba del lupo e l’agnello.

Mettersi contro il sistema non è facile. Il giudice Luigi De Magistris che nel 2008 ha indagato sul business, s’è rotto le corna ed è stato trasferito. Diverso il destino dell’imprenditore Sergio Abramo che, dopo aver durissimamente attaccato la Sorical per certe irregolarità nel rapporto con una banca d’affari, è stato nominato presidente della Sorical medesima ed ora è assai più prudente nei giudizi.

Il fatto è che dietro la società c’è la francese Véolia, che di fatto comanda col 46,5 per cento delle azioni e gestisce pure il discusso inceneritore di Gioia Tauro, destinato al raddoppio. E’ questo il potere ed è qui la polpa: il privato (ma chiamiamolo per comodità "i francesi") che vende all’ingrosso ai Comuni la loro stessa acqua e lascia ad essi la rogna di gestire la rete. Col pubblico che si riduce a esattore per conto dei privati, anche a costo di indebitarsi.

A fronte di questo affare colossale, di canoni in forte rialzo e di investimenti tutto sommato relativi, scrive Luca Martinelli su "Altraeconomia", i francesi riconoscono alla Regione «un canone di 500 mila euro l’anno» per l’uso di tutti gli impianti calabresi. Un’inezia. L’affitto degli impianti di un’intera regione ricchissima d’acque equivale a un quarantesimo di quanto la società di gestione milanese paga per gli impianti di quella sola città. Ovvio che ai francesi piaccia la Calabria.

Ma con la diga dell’Alaco il meccanismo dell’oro blu si inceppa. La Sorical la eredita nel 2005 della Cassa del Mezzogiorno che l’ha appena messa in funzione. Una cattedrale nel deserto, costruita per spillare denaro pubblico in una zona umida con sabbie mobili e acque malariche. I fondali del lago artificiale non sono stati puliti e bonificati delle infiltrazioni di ferro e manganese contigue alle miniere borboniche di Mongiana. E quando, salutati dal plauso della politica, i francesi prendono in mano l’impianto dopo alcune migliorie, si ritrovano a mettere in rete un’acqua che grida vendetta rispetto alle fonti delle Serre. Una fornitura praticamente imposta dalla politica a 400 mila persone fino a quel momento agganciate a pozzi o condotte indipendenti, spesso - si asserisce - di buona qualità.

Nel 2010 persino la Regione Calabria, legata ai francesi, riconosce che qualcosa non va. L’Agenzia protezione ambiente dimostra che l’inquinamento viene dal lago, non dalla rete. Intervengono anche i Nas, che mettono sotto sequestro un serbatoio nel Vibonese. Nel gennaio di quest’anno il sindaco di Vibo dichiara l’acqua non potabile. Lo stesso accade in altri Comuni. Allora la gente chiede: riapriteci i vecchi pozzi che avevano acqua sicura. Ma non si può. Non sono più operativi. Qualcuno, veloce come il vento, li ha già disattivati.

«Macché pozzi buoni! - sbotta al telefono Sergio De Marco, responsabile tecnico della Sorical - questa dei sindaci è una bufala colossale. Li abbiamo chiusi perché erano di pessima qualità. Non bastavano, d’estate si svuotavano. E la storia della nostra acqua che sarebbe peggiore è un’invenzione dei Comuni che cercano un alibi per non pagarci le forniture. Possibile che per la stessa acqua altri Comuni non abbiano mai protestato? Centinaia di analisi dimostrano che l’acqua dell’Alaco è buona. Lo scriva, mi raccomando».

Per la politica, chi critica i francesi è "comunista" o propagatore di allarme. Alla Sorical si deve credere. Credere che l’acqua è buona, che il fondale del lago è pulito e che le analisi sono state fatte. Credere che un potabilizzatore da trecento litri al secondo è sufficiente per 400 mila persone. Così, per capire, bisogna andare lassù, oltre spettrali alberghi disabitati, fino al lago maledetto perso nella pioggia tra pale eoliche che paiono croci di un Golgota, in fondo a boschi così appetibili per "certi affari" che da gennaio vi sono morte già cinquanta persone per faide tra clan.

Strano, la rete che circonda l’invaso è aperta in più punti. Cancelli senza lucchetto. Nessuno pattuglia le sponde, tranne mandrie di vacche bianche che pascolano lasciando escrementi sulla battigia. Di chi sono? Sono le "vacche sacre", mi diranno a Serra San Bruno. Non hanno bisogno di pastori perché sono intoccabili. Sono della criminalità organizzata che così dimostra la sua onnipotenza e segna il territorio. Un simbolo, non un affare.

L’acqua sulle sponde è coperta di schiuma marrone quasi dorata. I ciottoli sono nerastri, hanno perso il colore originale. Cime di faggi nudi e abeti bianchi sbucano dalla superficie. Possibile siano cresciuti in acqua, dopo l’asserita ripulitura e impermeabilizzazione dei fondali? Vado a Serra San Bruno dove la resistenza, benedetta dal parroco, abita nella tana dell’associazione "I briganti", guidata da Sergio Gambino, figlio di un giornalista che ha dedicato la vita intera alla lotta contro la n’drangheta.

«Noi lo sappiamo» dice Gambino, capelli lunghi neri, occhi accesi e barbetta borbonica, «lo sanno i pastori, i boscaioli, i carbonai... Nessuno ha mai pulito quel lago... Altri sono venuti e ci hanno versato dentro non si sa cosa... La diga è in Comune di Brognaturo, retto da Cosma Damiano Tassoni, lo stesso sindaco che consentì quella diga demenziale... Credo che questi signori non abbiano idea di quanto siamo determinati a lottare per ciò che ci spetta». La sera, a Pizzo Calabro mi diranno: «Lo sa? Bossi ha ragione. Siamo una colonia francese. Ci hanno venduto. Acqua e nucleare. Ecco cos’è il patto Berlusconi-Sarkozy».

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