PREMESSA
Un'analisi tutta sociologica del fenomeno leghista e incentrata prevalentemente sul carattere solo etnico-territoriale delle sue manifestazioni, non coglie né la profondità delle sue radici, né la fortuna duratura e addirittura ascendente del movimento di Bossi. Mentre sono da più parti sotto osservazione gli effetti del populismo e della xenofobia del "senatur" per le devastazioni culturali che hanno modificato in profondo il sentire popolare nelle società del Nord, sfugge alla comprensione dei più il ruolo assunto dalla politica economica della Lega, che ha contribuito non poco a depotenziare il conflitto nel mondo del lavoro. Questa non è mai stata presa sul serio dalla politica nazionale, anche quando assumeva concretamente il ruolo di ricostruzione nel Nord ricco, ma segnato da una cultura egualitaria e dalla forza del movimento operaio, di una identità liberista e connaturata con la cultura industriale della grande impresa. Forse perchè la Lega non enfatizza nelle posizioni ufficiali la centralità dell’impresa rispetto al lavoro, soprattutto quando dice di dedicarsi alla difesa degli operai del Nord. O forse perché, nonostante iniziative decise e di contrasto esplicito come quelle assunte dall’insieme della CGIL Lombarda in tutti gli anni ’90 e culminata con la manifestazione nazionale antisecessionista a Milano del 20 settembre 1997, si è preferito trattare l’ossessione all’esclusione presente nel DNA della Lega come un risvolto della difesa ad oltranza del proprio territorio, anziché come una scelta di classe, quale emergerà all’approssimarsi dei suoi uomini al governo. Altro che costola della sinistra!
Proprio per rimediare una lettura che giudico insufficiente del fenomeno leghista e del suo successo, insisterò in queste note sull’ispirazione economica liberista della sua strategia e sul carattere classista del federalismo fiscale, accolto come aspirazione popolare nell’ignoranza delle conseguenze sul patto sociale alle radici della nostra Costituzione. In fondo, senza riferimenti al programma economico, non si capirebbe il sodalizio perfino culturale tra Bossi e Tremonti e nemmeno il successo nel campo berlusconiano - con il placet di Confindustria - della calata a Roma dei ministri leghisti provenienti dalla Lombardia. Molte delle "svolte" e delle mutazioni delle camice verdi traggono le loro motivazioni dall'economia e si saldano non a caso con le aspirazioni del partito azienda di Berlusconi e della lobby del privato sociale di Formigoni, che patteggiano volentieri con le rudezze estreme dei padani, ben consapevoli di averli al fianco nell’attacco agli articoli 1, 3 e 41 della Costituzione e nell’abbattimento del welfare e del diritto del lavoro.
LEGA E CULTURA D’IMPRESA
Nascita e sviluppo improvviso del "leghismo" – come osserva Salvatore D’Albergo nella prefazione al libro Leghe e leghismo di A. Ruggeri – “sono databili in stretto collegamento con l’abbandono di una strategia di trasformazione in senso sociale dei rapporti economici e convergenza istituzionale sul territorio, in una prospettiva che poneva le piccole imprese in una visione del lavoro come motivo di un patto, con un movimento operaio deciso a fare della programmazione democratica dell'economia lo strumento di valorizzazione delle forze richiamantesi ai valori di un nuovo tipo di civiltà, fondata sull'emancipazione e non sul profitto”. Si tratta della fase declinante del PCI, dello spostamento del PSI verso il craxismo, con la CGIL ancora impegnata nell’estensione della contrattazione decentrata e per i diritti di informazione e il piano di impresa. E non sarà un caso se la percezione dei pericoli del leghismo saranno avvertiti nel sindacato e prevalentemente rimossi nel mondo politico. E’ in crisi la democrazia di massa, si rompe l’unità sindacale, ma una parte consistente della CGIL coglie l'equivoco del federalismo come rafforzamento dei poteri istituzionali nelle regioni-stato ricche, per assecondare il primato del sistema delle imprese e cancellare l'autonomia del lavoro e l’universalità delle sue conquiste. La Lega non smetterà mai di puntare all’impresa come soggetto di trasformazione, pur manifestandosi per “la piccola”, ma con piena fiducia nella ideologia “della grande” e del sistema economico liberale di mercato, candidandosi così a forza di governo solo apparentemente antisistema. L’affinità Bossi-Berlusconi è nelle cose, oltre l’apparenza e con il passare del tempo la Lega al Nord si radicherà sempre di più nella fabbrica diffusa e Forza Italia nelle città, ma la convergenza, nonostante le mal riposte speranze del centrosinistra, non verrà mai meno. Anzi, attorno all’alleanza di governo di centrodestra si rafforzerà una “cultura generale” proprio come portato della supremazia dell’impresa. Una cultura che va oltre la Lega e da cui la Lega si alimenta, che persegue la caduta dello spirito pubblico mentre esalta in chiave conservatrice la responsabilità verso la famiglia, la laboriosità e il liberalismo assistenziale caritativo, unico “diritto” a cui accedono i deboli. Credo che il cuore varesotto delle camice verdi nasca in particolare dal pragmatismo che ha pervaso e pervade gli ambienti confindustriali locali, prima che le piccole imprese di quella provincia. La logica aziendale che rifiuta qualsiasi programmazione, che non si fa carico di dimensioni oltre il proprio territorio, che non supera il proprio settore merceologico per intraprendere politiche di investimento e scelte produttive dimensionate alla crisi e alla globalizzazione, è certamente assai più tipica di una grande associazione industriale di provincia che non di Assolombarda. E la Varese leghista fin dall’inizio prova a mandare in politica industriali locali e a promuovere rappresentanti economici influenti a livello nazionale che, in mancanza di programmazione, si battono per orientare i fini generali dell’interesse pubblico e delle politiche fiscali e creditizie ai fini privati.
Ritengo che nasca anche dall’esperienza di crisi profondissima della grande industria varesina degli anni ‘80 e ’90 la richiesta, poi abbracciata in tutta la Lombardia e il Veneto, di trattenere a livello locale le risorse, la voglia di pensare allo sviluppo in chiave secessionista, il trascinamento delle piccole imprese e dell’artigianato nell’appiattimento sulle scelte di rivalsa sul costo del lavoro adottate dall’impresa maggiore. Se è l’impresa che unifica l’economia e non c’è iniziativa politica per unificare il sociale, allora è la logica dell’impresa che si impone sul territorio, scompare il lavoro come soggetto antagonista e padroni e operai si ritrovano sulla stessa barca, a remare contro presunti nemici collocati in altri territori nella più pura competizione capitalista tra di loro.
2. L’ECONOMIA POLITICA DELLA LEGA
Spesso trascurata, la teorizzazione economica del secessionismo leghista è tutt’altro che trascurabile. Se oggi la coincidenza di posizioni con Tremonti, fa pensare a una gerarchia e a una dipendenza dalle posizioni del Ministro, nondimeno alcuni tratti della “resistenza” del Tesoro nei confronti di Berlusconi si possono rintracciare nel pensiero leghista di lungo corso.
Pensiero articolato, che esprime da sempre una forte adesione alle direttive del capitale finanziario del FMI e dell’OCSE e infatti, nonostante l’antieuropeismo sbandierato, si affretta ad aderire alle soluzioni antisociali adottate in questi giorni dall’Ecofin e dalla Banca Europea, proprio in quanto puntano alla riduzione della spesa pubblica, al taglio del debito verso salari e pensioni, remunerando invece appieno l’esposizione verso le banche e il capitale finanziario.
Entrando più in dettaglio, sul piano previdenziale l’idea dei fondi regionali rientra in quella dell’estensione del risparmio forzoso collettivo territoriale e aziendale e quella dell’integrazione privata obbligatoria nel sostegno alle polizze assicurative, che la Lombardia già adombra anche per la sanità. L’economia sociale mutualistica e cooperativa no profit viene posta come occasione di interesse per i lavoratori locali e come problema dell’accumulazione governata e “redistribuita” politicamente ai propri elettori. E’ impressionante la crescita al Nord in questi ultimi cinque anni di cooperative targate Lega e perfino la “presa delle banche” annunciata da Bossi non risulta estranea a questo contesto. La rendita finanziaria dei fondi è oggetto di grande attenzione e viene perseguita sia attraverso il depotenziamento delle entità economiche di diritto pubblico che li controllano sia attraverso la nomina diretta di esponenti leghisti nei consigli di amministrazione. “La democrazia del danaro fondata sul ruolo della Borsa valori”, proclamata in una risoluzione congressuale, è sostenuta attivamente con la propensione a portare in borsa tutto quanto proviene dai patrimoni municipali, compreso il ciclo dell’acqua di cui a parole si difende la natura pubblica. L’occupazione e gli investimenti sono affrontati solo in termini corporativi, lasciati alla libera determinazione delle imprese, rispetto cui lo Stato si adegua, semmai favorendo il Nord rispetto al Sud. Basti pensare alla pura agitazione per il declino del settore tessile nella bergamasca e al clamoroso silenzio sulle scelte di Marchionne per gli stabilimenti FIAT o, ancora, alla acquiescenza per la trasformazione alla periferia milanese di due milioni di metri quadrati dell’ex Alfa Romeo in villette e centri commerciali. Il protezionismo economico si traduce in una tensione a produrre dazi e disincentivi all’importazione, inadeguata al livello della concorrenza determinata dalla nuova divisione del lavoro e dall’ordine imposto dal capitale finanziario, riducendo al nulla anche l’assistenzialismo economico promesso localmente ai sistemi delle piccole imprese.
Così il federalismo propugnato a gran voce in un quadro di rottura dell’unità nazionale, si situa come una necessità in una situazione in cui la ricapitalizzazione delle imprese del Nord richiede ingenti risorse, oltre quelle sottratte alle retribuzioni e alla redistribuzione del reddito. In questa fase della crisi globale lo Stato deve servire l’impresa, per garantire un uso privato dell’accumulazione pubblica. Ma per evitare conflitti insanabili, occorre che almeno al Nord lo stato sociale e le retribuzioni per i residenti vengano minimamente tutelate, magari a costo della privatizzazione del primo e della perdita dei diritti per i salariati. Di conseguenza, il federalismo fiscale si offre come panacea, ma solo per una soluzione che implica come sua cifra l’esclusione e la rottura dell’unità nazionale.
L’INTERESSE OPERAIO PER LA LEGA
Accreditata sul piano politico e nel sentire popolare come forza “antisistema”, la Lega può apparire come non immediatamente reazionaria e perfino conciliabile con la tradizione di sinistra da cui ha mutuato l’assiduità della presenza territoriale. La politica economica della Lega e le dichiarazioni roboanti con cui difenderebbe il lavoro dalle incursioni dei non residenti, fa trasparire che una maggiore disponibilità di risorse e ricchezze trattenute sul territorio potrebbe essere devoluta alla solidarietà. Il passaggio dell’autonomia impositiva ai comuni e la riduzione delle tasse e dei contributi assicurerebbero servizi all’altezza e salari adeguati, anche senza esercitare un conflitto nei luoghi della produzione. Quindi, la Lega adombra una sua linea per occupazione e welfare, anche se sotto bandiere lontane dalla giustizia sociale e nel nome del federalismo competitivo. Ne segue che una parte consistente di elettori comincia a credere che un prelievo fiscale e contributivo, tutto riversato a livello locale o con una parte minima di trasferimento per il funzionamento dello stato centrale, sarebbe una buona cosa per il lavoro dipendente. Il superamento del welfare che conosciamo e dell’intervento pubblico viene concepito come il viatico per la creazione di una economia più potente rispetto al sociale, che per tradizione apparteneva alla sinistra. Una economia più potente consentirebbe alle imprese di non soccombere e, quindi, di “elargire” anche nella nuova fase della globalizzazione tutele sufficienti ai dipendenti. Quella che viene auspicata è una società a suo modo cooperativa a livello territoriale, ma sempre più imprenditoriale e aconflittuale e che, tuttavia, offre appigli in un mare in burrasca.
Non sto qui a riprendere quanto le ragioni di un successo di una narrazione così fragile stiano anche nella scomparsa della sinistra e nella solitudine a cui sono stati abbandonati gli operai. Voglio tuttavia dare alcuni dati sulla trasformazione del lavoro in Lombardia, che danno fiato all’intuizione della Lega di attrarre il mondo operaio partendo – se si può dire così – dall’omogeneità del territorio anziché dalla multiformità di condizioni di lavoro difficilmente inquadrabili in base a modelli del passato. Negli ultimi venti anni l’economia produttiva dei servizi subisce una trasformazione epocale (raggiunge il 70% dell’attività complessiva), mentre crolla sotto il 30% l’occupazione nella manifattura. Con la fine della grande impresa esplode la microimpresa: 507.590 unità produttive hanno un solo addetto; il 90% delle unità hanno meno di 19 dipendenti, mentre solo 799 superano i 250 nella regione più industrializzata d’Italia. I lavoratori occupati in fabbriche sopra i 50 dipendenti sono a malapena un quarto dei 728.647 extracomunitari residenti in Lombardia e meno di un quinto delle partite IVA, concentrate per lo più nelle aree urbane. Se si cercano rappresentanze politiche di questa sconvolgente trasformazione economica e sociale, ci si accorge che Lega e Forza Italia hanno almeno provato a intercettare quello che la sinistra ha visto solo a consuntivo. I risultati della recente tornata elettorale, che ho provato ad analizzare in un articolo sull’ultimo numero di Critica Marxista, sono un’ulteriore riprova dello spostamento a destra o nell’area del non voto del lavoro produttivo al Nord.
IL GRIMALDELLO DEL FEDERALISMO FISCALE
Del federalismo fiscale viene sempre celebrata la funzione taumaturgica di responsabilizzazione del meccanismo della spesa. Di conseguenza, la rottura dell'unità nazionale scivola dal versante eversivo della secessione per approdare alla "moderna necessità" di riformare lo Stato. Lasciando intendere che la riunificazione del Paese - non più data dai diritti di cittadinanza per tutti sanciti dalla Costituzione - è opzionale e possibile solo a valle del processo di privatizzazione dei beni comuni fondamentali come sanità, istruzione e mercato del lavoro, con la loro ridislocazione in ambito regionale, a seconda delle “capacità fiscali” dei residenti e sulla base di un modello sociale che abbandona la solidarietà e l’uguaglianza per abbracciare un regionalismo competitivo e a geometria variabile.
A fare da apripista di questo autentico sconvolgimento è stata Regione Lombardia che, con l'appoggio di una parte cospicua delle forze di centrosinistra che avevano dato origine all'Unione, Ds e Margherita in primis, ha presentato nel 2008 una proposta di legge al Parlamento aggressiva, egoistica e priva di respiro nazionale. Il modello lombardo, fondato sul consumo del patrimonio collettivo, annaspa, è a corto di risorse, ha necessità urgente di trattenere molti più soldi sul territorio, anche a discapito dell’universalità dei diritti in ambito nazionale. In base a queste spinte, il federalismo alla lombarda ha già provato, in modo “bipartisan” e con l’opposizione solo della sinistra radicale, a rompere quell'equilibrio tra le regioni che oggi la nostra Carta garantisce e che le lotte sindacali e democratiche di tutto il dopoguerra hanno contribuito a rafforzare. Ma il progetto Calderoli, che oggi sta alla base della realizzazione del federalismo fiscale evita davvero gli eccessi lombardi che l’hanno ispirato e non avrebbe di fatto pesanti ripercussioni direttamente sulla prima parte della Costituzione? Le premesse di un'ulteriore frattura sociale ci sono tutte, perché prevalgono la pretesa di autosufficienza dei territori più ricchi e, soprattutto, viene introdotto il principio di sussidiarietà, che apre al privato lo spazio di erogazione delle prestazioni legate ai livelli essenziali di assistenza. Una chiara vittoria di quella impostazione economica della Lega che ho illustrato nei paragrafi precedenti.
Se abbracciamo al buio il federalismo fiscale di Calderoli, occorre sapere bene quale è il patto sociale in essere che andiamo a stravolgere. Oggi la spesa pubblica totale, pro-capite in euro, è spalmata su tutte le regioni italiane in maniera molto uniforme. E questo significa che i diritti e le condizioni dei singoli cittadini - che abitino a Centocelle o ai Parioli a Roma, o che abitino a San Siro o in Via Montenapoleone a Milano - è abbastanza uniforme, poiché, dal punto di vista dell'intervento dello Stato, c'è al massimo una diversa ripartizione tra spesa locale e spesa statale, con il fondo perequativo, messo in discussione dal federalismo fiscale nella sua entità e natura, in grado di riequilibrare le situazioni. Infatti i più ricchi contribuiscono all’estensione dei diritti ai più poveri in base all’art. 3 della Costituzione, che rimuove gli impedimenti sociali alla realizzazione dell’uguaglianza del cittadino. In questo caso attraverso la progressività dell’imposta fiscale personale, per cui il flusso va dal più ricco al più povero, non, come si blatera, da una regione all’altra. Oggi le tasse non appartengono al territorio: appartengono allo Stato, che ha un compito di giustizia sociale e redistributiva tra tutti i suoi cittadini. Quindi, il gettito non è dei cittadini residenti. I quali hanno sì maggiore “capacità fiscale” al Nord rispetto al Sud, ma sono in credito semplicemente perché sono mediamente più ricchi, non più generosi. Oggi il meccanismo di perequazione funziona tanto tra un cittadino ricco della Lombardia e un povero della Basilicata, quanto tra il lombardo ricco e il lombardo povero.
Questo patto, che ha alla base la progressività fiscale estesa a tutto il territorio nazionale, oggi viene divelto. Le comunità territoriali più ricche, che oggi versano di più allo Stato proprio per consentirgli un carattere non residuale sul welfare e sul lavoro, con il federalismo fiscale indietreggeranno rispetto alle politiche sociali nazionali, mentre apriranno le porte alla concorrenza pubblico privato in materia di servizi. Non stiamo parlando di un castello astratto, ma di un legame stretto tra il contesto fiscale, quello finanziario e quello istituzionale con enormi risvolti sul piano politico e sociale. Messo così, il federalismo fiscale è espressione della politica autoritaria dei forti posta in antitesi sia al governo dal basso sia ad un federalismo municipale che libererebbe più partecipazione e stimolerebbe un controllo diretto. Siamo di fronte al colpo più duro sferrato alla nostra Costituzione di democrazia sociale, che alimenta pericolosissime e possibilmente tragiche tentazioni in tempo di crisi: tanto più con un’Europa sociale allo sbando e con una Merkel che adombra un modello di relazioni a diversa velocità tra territori forti e deboli e tra monete che allontana la prospettiva dell’uguaglianza anche dal modello sociale “renano” che abbiamo cercato di proporre al resto del mondo in competizione.