Il Canada e l’Ue non potranno firmare il 27 ottobre come previsto il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di libero scambio considerato il più avanzato ed equilibrato dell’era della globalizzazione. La ministra canadese del commercio Chrystia Freeland, che si era precipitata in Belgio per evitare il disastro, è ripartita sbattendo la porta e pronunciando parole di fuoco. «Mi sembra evidente, e sembra evidente al Canada, che l’Unione europea non è in grado di stipulare un accordo internazionale, neppure con un Paese così gentile, paziente e che ha valori così europei come il Canada». La più gigantesca figuraccia diplomatica che la Ue sia riuscita a fare in tanti anni di esistenza e di negoziati commerciali porta la firma del parlamento regionale della Vallonia, la zona francofona del sud del Belgio con una popolazione inferiore a quella della Toscana. La settimana scorsa l’assemblea regionale vallona ha bocciato, con 46 voti favorevoli, 16 contrari e un’astensione, la ratifica del trattato. Senza il suo via libera, insieme a quello di altri 37 parlamenti e parlamentini nazionali e regionali, l’accordo non può essere sottoscritto dall’Ue, che lo aveva negoziato con il Canada per 7 anni.
Si arriva così al paradosso che la regione forse più europeista di tutta l’Europa, una delle pochissime dove i partiti populisti e anti Ue sono praticamente inesistenti, ha inferto alla Ue un colpo durissimo e un danno, sostanziale e di immagine, che neppure i più feroci euroscettici sarebbero riusciti a infliggere.
L’inghippo nasce dalla decisione, adottata sotto pressione dei governi francese e tedesco che si trovano in fase pre-elettorale, di considerare il Ceta un trattato “misto”. Ciò significa che, pur essendo stato negoziato solo dalla Commissione a nome di tutti i Ventotto, poiché i suoi effetti non solo solo commerciali ma hanno ripercussioni anche su altre normative, avrebbe dovuto essere sottoposto alla ratifica di tutti i Parlamenti nazionali. Una idea contro cui si era strenuamente ma inutilmente battuta l’Italia, secondo cui la politica commerciale di una superpotenza economica di 500 milioni di cittadini, qual è l’Europa, non può essere tenuta in ostaggio dalle pretese di questo o quel parlamento nazionale o regionale.
Infatti, poiché alcuni Stati hanno una struttura federale, le ratifiche necessarie ad approvare il Ceta sono balzate da 28, quanti sono i parlamenti nazionali, a ben 38. Da questo punto di vista il Paese più frammentato è certamente il Belgio, che, con soli 10 milioni di abitanti, conta ben sette parlamenti sovrani: le assemblee delle tre comunità linguistiche (fiamminga, francofona e germanofona), i parlamenti delle 3 regioni federali (Fiandre Vallonia e Regione di Bruxelles), oltre al Parlamento nazionale.
Dopo la bocciatura della settimana scorsa, nelle istituzioni europee è scattato l’allarme. Il capo del governo regionale vallone, Paul Magnette, è stato messo sotto pressione non solo dal suo rivale politico alla guida del governo federale belga, Charles Michel, ma anche dalla cancelliera Merkel, dal presidente Hollande e alla fine da tutti i Ventotto capi di governo riuniti a Bruxelles. Ma è rimasto irremovibile. La ministra canadese, precipitatasi per cercare di salvare l’accordo, ha fatto concessioni dell’ultima ora. Ma lo zelo no-global di Magnette non è stato intaccato. Ora che la cerimonia della firma, prevista per il 27 ottobre, è stata annullata, e che la ministra canadese è ripartita, c’è ancora chi, in Commissione, spera di far cambiare opinione a Magnette e ai suoi 46 deputati. Forse ci riusciranno. Ma intanto la clamorosa dimostrazione di impotenza europea avrà fatto il giro del mondo.