Le discussioni che già all'epoca del tramontante Gordon Brown circondavano l'idea di riforma urbanistica in Gran Bretagna, si focalizzavano su temi assai attuali in tutta Europa e in Italia: il contenimento del consumo di suolo sia attraverso la tutela della greenbelt che la propensione al riuso delle superfici dismesse (come nello storico documento Urban Renaissance di Richard Rogers), un sistema di piani in grado di garantire scale di intervento commisurate alle dimensioni dei processi reali; un sistema sussidiario di decisioni in grado di garantire efficienza giustizia e partecipazione con un controllo degli impatti e una valutazione equilibrata di costi e benefici. Poi il governo di coalizione a prevalenza liberista Tory, la riforma effettivamente approvata tra sospetti e polemiche soprattutto da parte del National Trust per le cautele paesaggistiche, e a un anno di distanza un bilancio concreto di cosa sta emergendo dall'attuazione del National Planning Policy Framework riformato. Giudizio sintetico: dal così così al decisamente pessimo.
Almeno nell'opinione della Campaign to Protect Rural England, che in questi primi giorni di marzo pubblica il rapporto/bilancio Countryside Promises, Planning Realities. Il quale bilancio, stilato sull'analisi di alcune decine di processi di pianificazione e trasformazione in corso, vuole proporsi come verifica pratica sulla consistenza delle critiche di metodo e merito espresse a suo tempo dall'Associazione. Paiono tutte confermate: il governo centralizza le decisioni che interessano ii suoi grandi elettori (il mondo delle costruzioni o dell'energia o la lobby autostradale ecc.), da un lato mette l'enfasi sul decentramento locale delle decisioni ma poi i piani locali non funzionano, e vanno per la maggiore invece le decisioni ministeriali. Prosegue così, magari spinta dall'emergenza abitativa, ma anche da interessi non sempre trasparenti, l'occupazione di aree di greenbelt, o la compromissione di aree paesisticamente importanti, villaggi storici, zone di interesse naturalistico.
E d'altra parte sembra lasciata a sé stessa la grande risorsa della riqualificazione urbana, della densificazione, dello sfruttamento di risorse e reti esistenti e pronte all'uso, a favore delle urbanizzazioni nuove, impattanti, energivore. Tutto il mondo è paese e mal comune mezzo gaudio, insomma? Niente affatto, e soprattutto nel metodo seguito, sia dal governo che dalle opposizioni. Sempre di questi giorni ad esempio è l'acquisizione ufficiale del rapporto di Lord Michael Heseltine (il padre delle discusse zone speciali di riqualificazione in epoca Thatcher) che auspica un intervento integrato per lo sviluppo socioeconomico in una prospettiva di piano nazionale. Anche il rapporto della CPRE appare assai proiettato verso un'idea di piano a scala nazionale nelle sue critiche, e anzi ad esempio proprio nelle contraddizioni fra dire e fare nella gestione della Legge sul Localismo sottolinea che tutto va letto in una logica magari non gerarchica, certamente integrata.
Mentre il governo sembra confondere la democrazia locale con una specie di nimbysmo istituzionalizzato: ti lascio fare i tuoi progettini, ma non interferire quando parliamo di autostrade, centrali, grandi poli strategici di interesse nazionale. Un approccio che forse anche da noi in Italia dovrebbe iniziare a caratterizzare le strategie di opposizione a certe politiche di grandi opere e via dicendo: unificare non solo l'azione politica, ma anche tematiche e proposte, costituendo una sorta di movimento ombra in grado di stimolare l'azione di governo. In questo senso poco importa, poi, il colore di quel governo: sarà sempre almeno un passo indietro rispetto alla società.
(il Rapporto è scaricabile direttamente da qui: sono solo poche decine di pagine)