L'Espresso, 29 marzo 2016
FOIA: TRASPARENZA SÌ, PURCHÉ OPACA
di Alessandro Gilio
Il decreto Madia sull’accesso agli atti dello Stato è una beffa. E un
arrocco della politica nei suoi segreti. Adesso c’è un mese per cambiarlo
All'articolo 6, comma 5, il testo recita così: «Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta». Sembra uno scherzo, invece è il decreto legislativo “sulla trasparenza”, all’italiana. Che prevede appunto il silenzio-diniego: cioè consente allo Stato di non rispondere ai cittadini che vogliono avere accesso ai dati della pubblica amministrazione, senza fornire alcuna motivazione e senza alcuna sanzione per il proprio rifiuto. Ma non è finita: subito dopo, nella norma si aggiunge che non c’è alcuna chance di ottenere risposta se la domanda può essere intesa come relativa a «sicurezza pubblica e nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, interessi economici o commerciali di una persona fisica o giuridica» e molte altre eccezioni la cui vaghezza tiene il più ampio possibile l’ambito dei “non se ne parla”. Ed è ovviamente la pubblica amministrazione a decidere se questa attinenza c’è o no.
Doveva essere il Freedom Information Act italiano, cioè la norma per dare ai cittadini il “diritto di sapere”: quali immobili possiede un Comune, ad esempio, e a chi li affitta a quali prezzi; o quanto è costato ai contribuenti il viaggio di un ministro su un “aereo blu” o il ricevimento per l’inaugurazione di un cantiere. Ma anche quali sono stati i criteri di assegnazione di un appalto e quali i tempi per la sua realizzazione; quanti veleni ci sono nell’aria e nell’acqua di una città; come sono stati spesi gli investimenti promessi dai politici nelle loro dichiarazioni; per quali motivi e con quali compensi è stata assegnata una consulenza a spese dei cittadini; chi si è intascato gli orologi regalati da un governo straniero durante un incontro di Stato; chi ha deciso di velare le statue a Roma durante la visita di un leader estero. E così via.
L'ILLUSIONE DELO STATO TRASPARENTE
di Ferruccio de Bortoli
Chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, peccato che le eccezioni siano davvero tante
Un piccolo ma prezioso termometro dello stato di salute della democrazia italiana è racchiuso in un provvedimento semisconosciuto adottato dal governo, in via preliminare, il 20 gennaio. Stiamo parlando del diritto di ogni cittadino ad accedere agli atti della pubblica amministrazione. È la versione italiana del Freedom of Information Act. Negli Stati Uniti esiste dal 1966. In molti Paesi, una novantina, è un paradigma della trasparenza. Dà la misura reale della cittadinanza. E della libertà d’informazione, del diritto di cronaca. Senza quelle norme — tanto per fare un solo esempio — non avremmo avuto l’inchiesta del Boston Globe sui preti pedofili (si chiese l’accesso agli atti giudiziari), da cui è stato tratto il film premio Oscar Spotlight. Da noi invece la legge rischia di assumere il tono di una concessione dovuta, una fastidiosa e vuota incombenza. Eppure va dato atto al governo, e in particolare a Renzi (ne fece cenno durante il suo discorso di insediamento al Senato il 24 febbraio 2014) e al ministro Madia (Leopolda del 2015), di averne fatto una bandiera. Peccato che questo vessillo di libertà sia stato velocemente ripiegato nel testo varato a inizio anno, ed esprima, al contrario, tutto il potere discrezionale di cui la burocrazia italiana è ghiotta. All’articolo 6 del decreto legislativo, si legge che «chiunque ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni». Bene.
Peccato però che l’elenco delle eccezioni sia semplicemente sterminato. Alcune (sicurezza, difesa, relazioni internazionali) sono condivisibili. Altre decisamente meno. Il limite della «tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti» forma una categoria talmente vasta da porre il diritto del cittadino a conoscere l’iter di un atto, i tempi e i costi della sua esecuzione, in una condizione di palese inferiorità, alla stregua di una curiosità molesta. La legge non identifica, nelle varie amministrazioni, un responsabile unico cui rivolgersi. Non c’è uno sportello. La mancata risposta dopo trenta giorni alla domanda di un singolo cittadino (destinata a perdersi nelmare magnum degli uffici) configura una sorta di silenzio-rigetto privo di sanzione. L’obbligo di motivazione del rifiuto, da parte dei pubblici uffici, era già previsto dalla legge 241 del 1990. Disposizione quasi mai rispettata. E dunque il legislatore, innovando la 241, ne avrebbe tenuto conto (cioè si sarebbe arreso a un’inadempienza), ipotizzando, con il silenzio-rigetto, una particolare «garanzia» per il cittadino titolare di un interesse legittimo. Rivolgendosi al Tar, questi potrebbe costringere l’amministrazione a spiegare il suo no. Una procedura troppo complessa e costosa per un semplice diritto all’informazione.
Nel suo parere, il Consiglio di Stato (18 febbraio 2016) è assai critico sullo schema di decreto legislativo. Condivide, citando Norberto Bobbio, «l’aspirazione a una democrazia intesa come regime del potere visibile». Sottolinea come la trasparenza sia «una forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi». Ma senza semplicità nell’accesso ai dati e con troppe eccezioni, è tutto inutile. Il silenzio-rigetto, decorsi i 30 giorni dalla richiesta, realizzerebbe poi «il paradosso che un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la pubblica amministrazione non gli accorda l’accesso richiesto».
I fautori di un più esteso Freedom of Information Act italiano si sono mobilitati. Hanno raccolto firme. Saranno ascoltati dalle Commissioni Affari costituzionali delle Camere il 7 aprile. Meritano di essere presi sul serio. E non considerati dei petulanti rompiscatole legislativi. Qualche loro richiesta è opinabile (come la gratuità dell’accesso agli atti) ma le loro critiche sono fondate. Il provvedimento finale verrà probabilmente varato entro un paio di mesi ed è auspicabile che sia corretto tenendo conto, non solo dei rilievi del Consiglio di Stato, ma anche delle osservazioni dell’Anac, l’autorità anticorruzione (ribadite ieri nell’audizione del presidente Raffaele Cantone) e del Garante per la protezione dei dati personali.
Il governo ha l’occasione di dare attuazione a una promessa che riguarda la libertà dei cittadini e il loro diritto ad essere informati. La trasparenza non va vissuta come un intralcio all’attività amministrativa ed economica. Se attuata senza eccessi (e con buon senso) è garanzia di correttezza e incisività degli atti. Un deterrente efficace contro la corruzione e i soprusi. Valorizza le buone pratiche, contrasta abusi di potere e assenteismi. Se, al contrario, vincerà ancora una volta la burocrazia, non dovremo più stupirci se il nostro Paese è così arretrato nelle classifiche internazionali (libertà di stampa compresa). Conoscere la qualità dell’assistenza di un ospedale, le sue liste d’attesa, sapere le condizioni igieniche dei ristoranti e dei bar che frequentiamo, gli stipendi di coloro che gestiscono i servizi pubblici, non ha una portata rivoluzionaria o distruttiva dei rapporti economici. Non è il Panopticon di Jeremy Bentham. L’occhio ossessivo di una prigione di vetro. È solo la normalità di una democrazia avanzata che non ha paura né della trasparenza né del diritto d’informazione. Anzi, ne va orgogliosa.