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Robert Wright
La Terapia del Silenzio
19 Febbraio 2006
Scritti su cui riflettere
Un interessante parallelo fra le proteste per le vignette sul Profeta e le rivolte urbane dei neri americani anni '60. The New York Times, 17 febbraio 2006 (f.b.)

Titolo originale: The Silent Treatment – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

La sinistra e la destra americane non sono d’accordo su molte cose, ma settimane di dimostrazioni e ambasciate date alle fiamme le hanno spinte a convergere almeno su un punto: esiste, se non uno scontro di civiltà, almeno una grossa spaccatura fra “mondo occidentale” e “mondo musulmano”. Ma quando si va oltre questo punto – la convergenza sull’esistenza di una spaccatura – e si chiede cosa fare a questo proposito, c’è meno accordo. Dopo tutto, i baratri sono difficili da superare.

Ma per fortuna, le dimensioni del baratro sono state esagerate. La sollevazione musulmana su quelle vignette danesi non è tanto aliena rispetto alla cultura americana come amiamo pensare. Una volta capito questo, inizia a intravedersi una risposta essenzialmente americana e benevola.

Anche molti americani che condannano la pubblicazione delle vignette accettano le premesse che il direttore dell’ora famoso giornale danese ha voluto dimostrare: in Occidente in genere non ci lasciamo indurre da gruppi di pressione in quello che chiamiamo “autocensura”

Che sciocchezza. I direttori dei principali strumenti di comunicazione americani cancellano moltissime parole, frasi e immagini per evitare di offendere gruppi di interesse, specialmente etnici e religiosi. È difficile fare esempi, dato che per definizione queste cose non appaiono. Ma usate la vostra immaginazione.

Hugh Hewitt, blogger conservatore e cristiano evangelico, ha tirato fuori un paragone adeguato per le vignette di Maometto: “il disegno di una corona di spine trasformate in candelotti di esplosivo dopo le bombe a una clinica che pratica aborti”. Come nota Hewitt, una vignetta del genere offenderebbe molti cristiani americani. Ecco uno dei motivi per cui non avete mai visto niente di questo tipo in un giornale americano.

Né, a quanto pare, in molti giornali danesi mainstream. Quello che ha pubblicato i disegno con Maometto, si scopre, precedentemente ne aveva respinti con Cristo perché, come ha spiegato in una e-mail il direttore del supplemento domenicale al vignettista che li aveva proposti, avrebbero provocato scalpore.

I difensori della tesi del “baratro” potrebbero rispondere che gli editori dell’Occidente praticano l’autocensura per evitare di perdere abbonati, o avere manifestazioni sindacali o boicottaggi degli inserzionisti, non per paura della morte. In realtà, ciò che ha forgiato la convergenza sulla questione della profonda spaccatura, convincendo molti americani che il “mondo Musulmano” potrebbe anche stare su un altro pianeta, è l’immagine di una violenza sempre pronta a scattare: compare qualche vignetta irriverente e le ambasciate vanno a fuoco.

Ma più conosciamo particolari di questo episodio, meno ci appare come processo di combustione spontaneo. La prima risposta musulmana ai disegni non è stata violenta, ma piccole dimostrazioni in Danimarca, insieme ad una campagna di pressione da parte dei musulmani danesi, che è andata avanti per mesi senza apparire sullo schermo radar mondiale.

Solo dopo che questi attivisti erano stati snobbati dai politici danesi, e che avevano trovano una sinergia con politici potenti negli stati musulmani, sono seguite le grandi dimostrazioni. Alcune di esse sono diventate violente, ma gran parte della violenza sembra essere stata orchestrata dai governi degli stati, da gruppi terroristi e da altri cinici attori politici.

E poi, chi l’ha detto che non esiste una tradizione americana di uso della violenza per ottenere qualcosa? Ricordate le rivolte urbane degli anni ’60, a partire da quella di Watts del 1965, in cui furono uccise 34 persone? Il pitcher della squadra dei St. Louis Cardinals, Bob Gibson, nel suo libro del 1968 “ Dal Ghetto alla Gloria” paragonava queste rivolte a un “ brushback pitch”: un tiro vicino alla testa del battitore per impedirgli di occupare la base, un modo di far capire che il pitcher ha bisogno di più spazio.

Nella scia delle rivolte, i neri ebbero più spazio. La National Association for the Advancement of Colored People protestava per le trasmissioni dello spettacolo “ Amos 'n' Andy”, col suo gruppo di personaggi neri inetti e conniventi, sin dagli anni ‘50, ma fu solo nel 1966 che la CBS ritirò le copie dalla distribuzione. Non c’è modo di stabilire un nesso causale, ma non c’è dubbio che le rivolte degli anni ’60 abbiano aumentato la sensibilità alle proteste su come venivano presentati dai media i neri (tradotto: aumentò la “autocensura”).

Nel mezzo delle proteste per le vignette, alcuni siti conservatori hanno avvertito che l’espressione di offesa attraverso la violenza è una forma di “appagamento” e porterà solo nuova violenza indebolendo i valori dell’Occidente. Ma questo “appagamento” non funzionò così negli anni ‘60. La Commissione Kerner, istituita dal Presidente Lyndon B. Johnson nel 1967 per studiare le rivolte, raccomandò di prestare più attenzione ai problemi della povertà, della discriminazione nel lavoro e per la casa, dell’iniquità nell’istruzione: un’attenzione che fu la benvenuta e che non innescò decenni di rivolte razziali.

La commissione riconobbe la differenza fra ciò che innesca una sollevazione (come la polizia gestisce un blocco del traffico a Watts) e cosa la alimenta (discriminazione, povertà, ecc.). Questo riconoscimento è stato raro nel caso delle sollevazioni per le vignette, con gli americani fissati sulla domanda come potesse un disegno infiammare milioni di persone.

Risposta: dipende di quale milione stiamo parlando. A Gaza molto è alimentato dalle tensioni con gli israeliani, in Iran alcuni fondamentalisti coltivano un antiamericanismo di lunga data, in Pakistan gioca un ruolo importante l’opposizione al governo pro-occidentale, e così via.

Questa diversificazione della furia, e di ciò che sta sotto l’offesa, complica la sfida. A quanto pare evitare le offese evidenti alla sensibilità religiosa non sarà sufficiente. E ancora, l’offesa di oggi è il simbolo di una sfida più generale, dato che molte delle ingiustizie si sommano a formare la sensazione che i Musulmani non siano rispettati dal ricco, potente Occidente (proprio come i neri americani in rivolta non erano rispettati dai ricchi e potenti bianchi). Una vignetta che manca di rispetto all’Islam mettendo in ridicolo Maometto è al tempo stesso una scintilla e una benzina a molti ottani.

Ciò non significa che non esistano grosse differenze fra la cultura americana e le culture di molte parti musulmane del mondo. In qualche modo, è proprio questo il punto: alcune differenze sono tanto grandi, e l’impegno per rimpicciolirle così impari, che non possiamo permetterci di mancare di chiarezza su quali siano, quelle più grosse.

E non è certo una grossa differenza, la domanda da parte dei Musulmani per una autocensura da parte delle grandi centrali della comunicazione. Quel tipo di autocensura non è solo una tradizione americana, ma qualcosa che ha contribuito a fare dell’America una delle società più armoniosamente multietniche e multireligiose nella storia del mondo.

Dunque perché non adottare il modello che ha funzionato per l’America, e applicarlo a scala globale? Ovvero: certo, sei legalmente libero di pubblicare qualunque cosa, ma se pubblichi cose che offendono gratuitamente gruppi religiosi o etnici, avrai la disapprovazione di tutte le persone illuminate. La libertà si accompagna alla responsabilità.

Naturalmente, si tratta di un percorso a due sensi. Se gli occidentali devono sintonizzarsi sulle sensibilità dei musulmani, questi devono rispettare le sensibilità, ad esempio, degli ebrei. Ma sarà difficile per gli occidentali piazzare questo principio simmetrico se essi stessi sono colti in flagranza di violazione. Quel direttore di giornale danese, e con lui i suoi difensori americani, sta complicando la battaglia contro l’antisemitismo.

Alcuni occidentali sostengono che qui non c’è simmetria: le vignette sull’Olocausto sono più offensive di quelle su Maometto. E, a dire il vero, a noi secolarizzati può sembrare evidente che scherzare sull’omicidio di milioni di persone è peggio che non prendere in giro un Dio la cui esistenza è messa in dubbio.

Ma una delle chiavi per la formula americana della coesistenza pacifica è evitare questi argomenti: lasciare che sia ciascun gruppo a decidere cosa ritenga più offensivo, fin tanto che il tabù non sia troppo gravoso. Chiediamo soltanto, che il gruppo offeso a sua volta rispetti i verdetti degli altri gruppi su ciò che essi, ritengono offensivo. Ovviamente, le vignette antisemite e altre cose odiose non si elimineranno da un giorno all’altro (nell’epoca di internet, nessuna forma di parola d’odio sarà eliminata, punto; la questione riguarda ciò che compare nei mezzi di comunicazione mainstream a cui è conferita legittimazione da parte di nazioni e popoli).

Ma l’esperienza americana suggerisce che uan veloce autoregolamentazione può far fare dei passi in avanti. Negli anni ‘60, la Nation of Islam stava guadagnando forza propulsiva quando il suo leader, Elijah Muhammad, chiamava i bianchi “diavoli dagli occhi azzurri” che dovevano essere sterminati secondo il volere di Allah. Da allora, la Nation of Islam ha perso di importanza e, comunque, ha lasciato cadere quella dottrina dal suo messaggio. Prevale la pace, in America, e una delle cose che la mantiene è una rigida autocensura.

No solo da parte delle centrali della comunicazione. La maggior parte degli americani vanno cauti quando si discute di etnia o religione, e lo facciamo tanto abitualmente che è diventato quasi inconsapevole. Alcuni potrebbero definirlo disonesto, forse lo è, ma contiene una verità morale: finché non ti sei calato nei panni di altre persone, non puoi davvero cogliere la loro frustrazione, il loro risentimento, e non puoi davvero sapere cosa li offenda e cosa no.

La confusione del direttore di giornale danese è stata quella di mettere insieme censura e autocensura. Non solo non si tratta della stessa cosa: la seconda è quanto ci consente di vivere in una società spettacolarmente diversificata, senza far uso della prima; per mantenere la censura fuori dall’ambito giuridico, la pratichiamo in quello morale. Qualche volta è scomodo, ma c’è di molto peggio.

Nota: l'Autore Robert Wright è membro della New America Foundation ; solo per palati forti, e visto che solleva il medesimo tema del "politically correct" implicitamente suggerito da Wright, chi desidera può confrontare le argomentazioni del New York Times, pure discutibili e del 17 febbraio (prima dei morti libici nelle proteste davanti al consolato italiano), con il commento che il 19 successivo ci offre il direttore della Padania. Evidentemente molto ben pagato, per questa inqualificabile porcheria(f.b.)

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