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Salvatore Settis
La supremazia del Cupolone
9 Giugno 2010
Roma
Un po’ di storia contro le sgangherate ricette di Alemanno per riqualificare le periferie romane. Da la Repubblica, 9 giugno 2010 (m.p.g.)

Che cosa fare per salvare la campagna romana dalle colate di cemento, dall’assedio delle periferie (che l’etichetta ipocrita di «centralità» non salva dallo squallore e dal degrado)?

Il Sindaco Alemanno ha una sua ricetta: per «fermare la crescita a macchia d’olio» occorre «rompere i tabù», abolire l’antico vincolo per cui nulla nel territorio comunale può superare l’altezza della cupola di San Pietro.

«Densificare la periferia», costruendo grattacieli «come l’Eurosky dell´Eur, che sarà l’edificio residenziale più alto d’Italia». Anzi, «demolire le periferie e ricostruirle», «densificando»: una Roma di grattacieli «accanto al centro storico più importante al mondo».

Diagnosi giusta, ricetta sbagliata. L’orrido urban sprawl che assedia non solo Roma, ma tutte le nostre città, va contrastato mediante nuove politiche dell’abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione (e alla Costituzione), abbattendo e riqualificando. Rivoluzione che non si compie in una notte, ma presupporrebbe il diffondersi di una cultura urbanistica e architettonica meno sgangherata di quella che sta divorando un Bel Paese sempre meno meritevole di tal nome.

Richiederebbe il rispetto delle regole, a cominciare da un Codice dei Beni Culturali che è quanto di più bipartisan si possa immaginare (portando le firme dei ministri Urbani, Buttiglione, Rutelli), ma che tutti s’industriano a dilazionare, modificare, aggirare con deroghe, o francamente a ignorare.

Esigerebbe legioni di architetti meglio attrezzati, di assessori meno proni al volere d’ogni palazzinaro, di cittadini capaci d’indignarsi. Nell’orizzonte italiano (e non solo di Roma) io non vedo l’alba di questa nuova consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo (per esempio) nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri della discussione politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela e per l’ambiente.

Vi fu un tempo, specialmente in Italia, in cui la costruzione della città implicava, per scelta civile ma anche per tensione etica e politica, un atto consapevole di auto-limitazione. Il principio era uno e uno solo: il bene comune, con l’intesa (che non ebbe mai bisogno di argomenti, perché non aveva avversari che osassero fiatare) che esso doveva coincidere con la bellezza e l’ornamento della città. Il Costituto di Siena del 1309 dice espressamente che «intra li studii et solicitudini è quali procurare si debiano per coloro, che hanno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s’intenda a la bellezza della città», perchè la città --continua—dev’essere «onorevolmente dotata et guernita», tanto «per cagione di diletto et allegrezza» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et accrescimento de la città et de’ cittadini di Siena».

Gli Statuti comunali (ma anche quelli delle città regie, per esempio di Sicilia) prescrissero per secoli gli stessi principi in tutta quella che oggi si chiama Italia, e con buona pace della Lega si chiamava così anche allora: bellezza, decoro, ornamento, dignità, onore pubblico sono le parole martellate dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna. Per secoli.

Al privato che rivendicava i propri diritti di proprietà, sempre si rispose che ogni interesse del singolo dev’esser sovrastato dal pubblico bene, e si ricorse alla nozione giuridica di publica utilitas fondandola sopra la tradizione del diritto romano. A Roma Gregorio XIII, nella costituzione apostolica Quae publice utilia et decora (1574), proclamò sin dalle prime righe l’assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, e sottopose a rigoroso controllo l’attività edilizia di tutti i privati (anche gli ecclesiastici, anche i cardinali).

Non vi fu, allora, un Berlusconi che al grido di «padroni in casa propria!» accusasse quel Pontefice di cripto-comunismo. Ma l’urban sprawl che ci affligge, e che giustamente Alemanno denuncia e vuole arrestare, è figlio del tramonto del pubblico bene, e del trionfo degli interessi del singolo.

Le periferie-centralità che si sono insediate fra gli acquedotti dell’antica Roma, fra le tombe e le ville dei Cesari, da questo nacquero: dietro ogni orrore c’è un cedimento (per non dir complicità) delle amministrazioni capitoline, una genuflessione davanti ai vantati diritti del privato, un’offesa a due millenni di priorità del bene pubblico sulla cupiditas privata.

Di quelle scelte Alemanno non ha colpa: ma i suoi grattacieli, che pretendono di essere l’opposto dell’urban sprawl, sono più probabilmente il rilancio e la legittimazione di una crescita periurbana tanto più disordinata quanto più «densificata».

In molte città d’Italia si scelse per secoli il monumento-simbolo che servisse da esaltazione dello skyline: a Siena fu la Torre del Mangia, a Modena la Ghirlandina, a Roma la cupola di San Pietro. Misure convenzionali, certo, ma altamente simboliche di un’etica del self-restraint, di un’idea della città unitaria, compatta, dotata di memoria, di un’anima. Capace di pensare se stessa. Quello che Alemanno chiama «tabù» fu in verità proprio il contrario: una scelta meditata, misurata, consapevole, ricca non solo di storia o di memoria, ma di quella che potrebbe chiamarsi la modellazione del futuro. L’idea era semplice: conservare lo spirito della forma urbis imperniandola su moduli-base di crescita. Costringere l’architetto (anche il più grande) entro regole di rispetto della memoria storica, così come il poeta (anche il più grande) deve comporre i suoi versi secondo misure prestabilite. Creare per i nostri figli un’armonia che somigli a quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri.

Vedremo a che cosa somiglieranno i grattacieli proposti da Alemanno, e in che cosa sapranno distinguersi dalle architetture in genere scellerate che infestano quello che fu l’agro romano. Vedremo se essi tracceranno una nuova forma urbana, o saranno una corona di spine che assedia, o crocifigge, il centro storico «più importante al mondo». Vedremo se sapranno rimediare a quella indeterminata e incessante espansione delle periferie ai danni dell’ambiente naturale e storico, sempre più marcatamente dissolto nella confusione di una disordinata megalopoli; o se, al contrario, ne aggraveranno i problemi proprio col «densificarla». Lo vedranno, prima di tutto, i romani, se –come Alemanno promette - saranno chiamati a una consultazione popolare. Ma con quali informazioni? Con quale cultura urbanistica e architettonica? Con quale senso del bene comune?

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